clinofobia
Illustrazione: Lorenzo Matteucci
Salute

Soffro di clinofobia, la paura di addormentarsi

Diversa dall’insonnia, la clinofobia insorge in relazione ad altri disturbi del sonno, o come esito di un trauma irrisolto.

È quasi certo che l’eziologia del mio strano disturbo sia di origine traumatica, perché ho iniziato a soffrirne poco dopo la morte di mia madre, intorno agli otto anni.

“Il sonno è fratello della morte” è un costrutto sintattico semplice che compariva tra i primi esercizi di traduzione nel mio manuale di grammatica greca del primo anno di liceo. È una frase che mi è rimasta conficcata in testa, la ricordo quando nei miei lapsus sostituisco “dormire” con “morire” o quando rimango paralizzata a letto per la paura di addormentarmi.

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La mia paura di cadere nell’incoscienza del sonno si chiama clinofobia, un disturbo piuttosto raro e che può insorgere come effetto di altri disturbi del sonno, dalle paralisi notturne agli incubi, oppure come esito di un trauma irrisolto. 

“Oltre il 90 percento dei pazienti con un disturbo post traumatico da stress (PTSD) soffre di disturbi del sonno clinicamente rilevanti,” spiega a VICE via email Federica Pallavicini, Ricercatrice e Direttore del Laboratorio di Ricerca Gamers VR Lab dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. “I sintomi più comuni includono incubi legati al trauma, difficoltà ad addormentarsi e disorientamento al risveglio.”

Nel mio caso non si tratta di insonnia: non avrei nessun tipo di difficoltà ad addormentarmi se non fosse per la scarica di adrenalina che percepisco nel momento esatto in cui precipito dal dormiveglia al sonno. È quasi certo che l’eziologia del mio strano disturbo sia di origine traumatica, perché ho iniziato a soffrirne poco dopo la morte di mia madre, intorno agli otto anni. Mia madre è morta di notte in una stanza d’ospedale dopo una lunga malattia. Mio padre, il mattino seguente, mi ha detto che era mancata di notte e io ho pensato che fosse sparita nel nulla mentre dormivo.

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Da allora la clinofobia si presenta ciclicamente, innescata a dall’ansia o da fasi depressive. Ci sono intervalli che durano mesi o, addirittura, anni, ma presto o tardi so che nel dormiveglia mi sentirò trascinata in una caduta in cui ciò che sono e sono stata è destinato a disintegrarsi e proverò con tutte le forze ad aggrapparmi al barlume di coscienza che resiste alla stanchezza del corpo: un “no!” che esce dalla gola come un conato o un respiro profondo prima dell’apnea, le braccia che si stendono in avanti per allontanare lo stato di incoscienza che mi piomba addosso. 

“C’è chi scivola dolcemente e rapidamente attraverso le fasi [dell’addormentamento], non ricordando nulla, e c'è chi invece fa avanti e indietro, riportando a galla materiale subconscio e percezioni alterate,” spiega a VICE via email Michele Colombo, ricercatore al dipartimento di Scienze biomediche dell’Università degli studi di Milano, dove si occupa di analisi quantitativa delle onde cerebrali (EEG) nel campo di stati alterati di coscienza. 

Per esempio, alcuni “fenomeni ipnagogici (cioè i sogni durante l’addormentamento), sono interpretazioni oniriche del rilascio della tensione muscolare, e del controllo periferico dei muscoli antigravità che avviene con l’addormentamento,” prosegue Colombo. In pratica, quando ci sembra di “precipitare” poco prima di addormentarci, è la nostra corteccia cerebrale che si attiva, allertata dal tronco encefalico che rileva uno spostamento del corpo non volontario. “La mente, che nel frattempo stava già altrove, persa nei rivoli dei pensieri ipnagogici e disconnessa dal corpo, reagisce a questi segnali di allerta e di perdita di postura, e interpreta il tutto coerentemente come una caduta nel vuoto.”

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Nel mio caso, è proprio questa caduta verso il basso in cui mi svuoto per il sonno o mi preparo a esserne riempita che mi terrorizza e mi inchioda alla paura disperata di morire.

Dopo anni di terapia verbale e farmacologica rimango convinta che quel terrore abbia qualcosa di eterno e inscalfibile, che lo ritroverò intatto e trionfante quando mi toccherà chiudere gli occhi per l’ultima volta. L’idea che il mio ultimo pensiero sarà intriso di paura mi spezza ancora più in profondità del pensiero di non esserci per sempre e per nessuno nel giro di un paio di generazioni, se sarò abbastanza fortunata. È come se il significato di tutta la mia vita si trovasse lontano da me, rinchiuso nell’ultimo istante che mi attende, in una richiesta di aiuto condannata a non ricevere nessuna risposta udibile.

Nel documentario Heart of a Dog, l’artista e compositrice Laurie Anderson descrive il rito di accompagnamento alla morte praticato dai buddhisti secondo le prescrizioni del libro tibetano dei morti. Durante il trapasso, dei monaci ti sussurrano all’orecchio di non cedere alla paura e di seguire la luce più lontana, anziché affrettarti verso quella più vicina, che ti ricondurrà nel samsara delle reincarnazioni. Io li immagino, questi monaci, come delle doule che ti accompagnano verso una nascita momentaneamente senza più sensi, senza gioia o dolore, e mi chiedo se potrebbero essermi d’aiuto per superare la clinofobia che, in fondo, non è altro che l’anticipazione o la parte per il tutto della paura di morire. Forse è una speranza che coltivo a causa della disillusione che provo nei confronti degli approcci occidentali al terrore e alla morte.

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Come spiega a VICE via email Chiara Teneggi, dottoressa in Filosofia della mente che ha integrato l’insegnamento dello Yoga terapia nei percorsi di riabilitazione oncologica dell'Associazione Onconauti di Bologna, nella storia umana, “c’è stata una vera e propria rottura nel rapporto tra l’uomo e la morte. A partire dal Ventesimo secolo, la cultura occidentale ha iniziato a pulsare delle riflessioni apportate dall’esistenzialismo e dal nichilismo ed è avanzato un progressivo oblio delle tematiche che, a causa della loro intrinseca sconosciutezza, generano paura e angoscia nell’essere umano—in primis la morte. Una volta smarrito l’orizzonte di un ‘dopo universale,’ la nostra cultura si è legata all’istante e all’apparenza.” 

L’apparenza, spiega Teneggi, è qualcosa che decidiamo (al netto delle influenze del contesto in cui viviamo), mentre “il pensiero della morte, così come quello della malattia grave, non lasciano spazio ad alcuna decisione, ad alcuna apparenza.” La cultura in cui viviamo offre, quindi, pochissimi strumenti di elaborazione del significato della morte e della malattia, tanto che l’approccio occidentale “si può riassumere in due semplici frasi: ‘della morte non sta bene parlare. Alla malattia ci penseremo quando e se arriva,’” aggiunge Teneggi. 

Una terza via, nell’esperienza di Teneggi con persone che affrontano una diagnosi grave, così come in quella umana e artistica di Laurie Anderson con i propri lutti, è rappresentata dalla meditazione—che ci insegna, afferma Teneggi, a percepire i nostri pensieri come rumori di fondo, e, soprattutto, “a non avere paura della paura.” Questo è anche ciò che mi hanno sempre detto i professionisti che si sono occupati dei miei pensieri: la terapia deve insegnare al tuo cervello, chimicamente o emotivamente, a non avere paura della paura, deve eliminare la paura anticipatoria che innesca il panico, solo così guarirai.

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Tra i vari approcci psicoterapeutici, quello cognitivo-comportamentale e il più recente EMDR (acronimo dell’inglese “eye movement desensitization and reprocessing”, ovvero la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) sembrano vantare i migliori risultati clinici nel trattamento dell’ansia e delle fobie di origine traumatica. La tecnica adottata per la cura delle sintomatologie connesse al PTSD e all’ansia generalizzata si basa sull’esposizione controllata a stimoli che attivano lo stato di malessere e/o di panico nel paziente. Su questo tipo di approccio si basa anche il cosiddetto metodo VRET (Virtual reality exposure therapy) impiegato nella cura dei veterani statunitensi coinvolti nei conflitti in Afghanistan e in Iraq. 

“La realtà virtuale è uno strumento utile per insegnare al paziente tecniche di rilassamento, come, ad esempio, la respirazione guidata e il biofeedback,” spiega Pallavicini. “Inoltre, attraverso questa tecnologia possiamo immergere gradualmente la persona all'interno della situazione che l’ha traumatizzata, in un contesto sicuro e controllato dal terapeuta. Questo ha l'obiettivo di aiutare a rielaborare il trauma a livello cognitivo e a sviluppare nuove strategie per riuscire a gestirlo,” prosegue. Nato per curare i soldati che hanno visto o causato morti, gravi ferimenti o minacce mortali, il metodo VRET sembra avere un’ottima efficacia anche nelle fasi di training che precedono l’invio dei soldati in missione, sia sul campo, sia da remoto, ovvero nelle basi sul suolo statunitense in cui si guidano i droni mirati contro nemici sospetti. La paura può essere curata a posteriori e persino inibita a priori—o, almeno, è questo che dimostrano le statistiche. 

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A volte mi chiedo se le terapie basate sull’esposizione agli stimoli paurosi potrebbero funzionare anche con me. Esistono programmi in VR specifici per i disturbi del sonno, tra cui un sistema messo a punto dai ricercatori del Royal Melbourne Institute of Technology, chiamato InterDream, che immerge la persona in un’installazione d’arte multimediale che favorisce lo stato di pre-sonno, spiega sempre Pallavicini, aggiungendo che “a livello di contenuti commerciali è disponibile un numero crescente di applicazioni che si possono utilizzare comodamente da casa, come mindZense Sleep o Guided Meditation VR.”

Nonostante gli sviluppi della ricerca e del mercato, io non riesco a immaginare una tecnica capace di mettermi coscientemente di fronte alla perdita di coscienza, anzi mi pare una contraddizione in termini. D’altra parte, cos’è la coscienza?

Da un punto di vista scientifico, è definita operativamente come “la presenza di un’esperienza da parte di un organismo, al di là della capacità di rispondere, di riportarla, del suo repertorio comportamentale, e del contenuto dell’esperienza,” spiega Colombo, ma è anche “molto delicata da studiare dal punto di vista oggettivo, perché la presenza di un’esperienza cosciente è per definizione una proprietà soggettiva, accessibile solo alla persona che la esperisce.”

Per la filosofia della mente—che si intreccia e confronta con le neuroscienze cognitive—e in particolare per la filosofia orientale, spiega Teneggi, “il sonno e la morte sono entrambe due esperienze che avvengono nell’ambito della coscienza,” eppure il fenomeno della coscienza resta un’incognita tanto quanto la morte.

Vedo una rottura tra l’essere cosciente e il non esserlo per la stessa ragione per cui non riesco a meditare, per quanto io mi sforzi, perché non so concepire me stessa come qualcosa che contiene, contemporaneamente, la mia presenza e la mia assenza vigile. Se solo potessi imparare qualcosa nei momenti in cui non so chi sono e cosa faccio, forse guarirei dalla clinofobia e la smetterei di aver paura della paura.