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Tecnologia

Per i governi staccare Internet è sempre più facile

Una soluzione drastica, efficace e dannosissima per qualsiasi tipo di problema.

Sempre più governi stanno cambiando approccio per quanto riguarda la censura di Internet e si assiste a un nuovo fenomeno, preoccupante per le sue potenzialità censorie. Quella degli Internet shutdown, ovvero la capacità di sconnettere un intero paese o regione da Internet, una realtà consolidata in molti paesi poco — o per nulla — democratici.

Anche una democrazia consolidata come l'India ha però abbracciato questo approccio: nel 2016 sono stati documentati 32 shutdown di diverso tipo ordinati dal governo di Nuova Delhi, mentre nel 2017 il conto ammonta già a 14. I dati sono stati raccolti dal progetto Internet Shutdowns, creato dall'indiano Software Freedom Law Centre (Sflc), al fine di tracciare il numero e la qualità degli scollegamenti di Internet che avvengono nel paese.

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"Gli Internet shutdown sono una dimostrazione negativa della sovranità di Internet", ha spiegato a Berlino, parlando della questione alla conferenza re:publica, Mishi Choudhary, avvocatessa che si occupa di tecnologia e Legal Director di Slfc. Per Choudhary, gli shutdown sono una tecnica di censura più ampia sia dal punto di vista delle conseguenze per la popolazione sia per il loro significato: non si tratta più, infatti, di inibire l'accesso a determinati contenuti giudicati pericolosi dalle autorità, ma di impedire a larghi settori della società di funzionare, togliendo loro la connessione al web. Con impatti profondi sul tessuto sociale, i diritti e l'economia. Ad esempio, secondo uno studio di Brookings Institution — citato dalla Choudhary — in tutto il mondo, questo fenomeno avrebbe avuto un impatto economico di 2,4 miliardi di dollari in 12 mesi. E a pagare il conto più salato è stata proprio l'India.

Il paradosso indiano è proprio quello di puntare sul digitale e il web con il programma Digital India e, allo stesso tempo, fare della totale chiusura di Internet sul piano infrastrutturale una pratica comune di repressione e controllo. A preoccupare, soprattutto, è la facilità con cui i governi possono staccare Internet, pressando i provider con ingiunzioni legali e senza dover intervenire direttamente dal punto di vista tecnico. Con Mishi Choudhary abbiamo discusso le peculiarità del caso indiano e delle ricadute globali degli Internet shutdown.

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Il monitoriaggio di Internetshutdowns.in Motherboard: I governi si spostano dalla censura mirata di specifici siti al blocco totale della rete, come accade frequentemente in India. Si tratta di un approccio più semplice da perseguire?

"La maggior parte dei fornitori di servizio telco opera sulla base di accordi di licenza. E queste, almeno in India, richiedono che i provider seguano le ordinanze dei governi. Così, i provider si giustificano dicendo di avere degli obblighi connessi con le licenze, mentre per i governi è molto facile ottenere quello che vogliono, perché possono rivolgersi ai provider sapendo che questi interverranno. Dal punto di vista dei governi, la giustificazione è quella di non riuscire a bloccare od oscurare determinati siti o specifiche applicazioni mobile, perché sono cifrati, basati fuori dal paese o perché non collaborano." "Inoltre, è molto più semplice appellarsi alle licenze per bloccare Internet, piuttosto che andare in un tribunale e richiedere un blocco specifico. Facciamo il nostro monitoraggio dal 2011 e abbiamo visto che molti paesi hanno leggi o regolamenti sul blocco di tutta la rete, ma ci sono dei poteri di polizia che i governi si danno per questioni di sicurezza e mantenimento dell'ordine. Per intervenire si appoggiano proprio su questi piuttosto che sulle regolamentazione delle telecomunicazioni."

Avete riscontrato shutdown realizzati in modo tecnico, con un attacco sull'infrastruttura ad esempio?

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"No, nemmeno uno. La questione principale per quanto riguarda i temi di cybersecurity è che i governi non sono trasparenti. Se vuoi rendere un sistema più sicuro, devi essere più difensivo. Quindi è difficile sapere cosa succede davvero ma, di certo, gli utenti si accorgono quando avviene un shutdown. Quello che abbiamo notato, grazie a delle richieste Foia, è che spesso la giustificazione legale portata dalle autorità riguarda il rischio proteste o simili. Di contro, però, non c'è informazione in anticipo per il pubblico, così, ogni volta che la rete smette di funzionare, le persone si sentono perse. Siccome l'infrastruttura di Internet non è sempre delle migliori, la maggior parte delle volte in cui qualcosa non funziona, gli utenti pensano che si tratti solo di un problema con il loro provider e non sono a conoscenza di cosa stia avvenendo realmente."

L'India è uno dei paesi più attivi in questo senso.

"Assolutamente, abbiamo avuto 31 shutdown documentati lo scorso anno e a maggio di quest'anno sono già 14. Altri paesi molto attivi sono Siria, Malesia, Brasile, Chad, Ghana e Camerun. Non siamo certamente in buona compagnia. Molti altri paesi ci guardano e probabilmente stanno pensando possa essere una buona idea. E quando non si tratta di spegnere tutta Internet si può sempre puntare a bloccare i social media. Uno dei problemi, però, è che non ci sono dati sufficienti per stabilire se queste operazioni siano efficaci o meno. Perché le persone comunicano anche via sms o per telefono."

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"Tutto questo non riguarda più solo la libertà di espressione, in gioco ci sono molti altri diritti, come quello di guadagnarsi da vivere o avere accesso ai servizi bancari."

Quali sono le ragioni per le quali l'India blocca Internet in questo modo?

"Per lo più, bloccare le assemblee illegali di persone, prevenire la violenza o anche per ragioni ancora più banali, come evitare che gli studenti copino durante un esame universitario. Tuttavia, le forze di polizia dovrebbero essere preparate a queste evenienze, ad esempio, non penso che prima di Internet non ci fossero rivolte. Invece, la rete è diventata un capro espiatorio per i governi. Come dicevo, però, mancano dati sull'efficacia di questi interventi: quando si spegne Internet le proteste non avvengono? Le persone non si raccolgono? Cosa si ottiene davvero?"

Pensa che altre democrazie adotteranno questa strategia in futuro?

"Ovviamente, spero non succeda, perché sono i valori democratici a indicare cosa sarà il nostro futuro digitale. Se succederà esclusivamente con un approccio top-down e con poche aziende private con il mano il controllo totale sulla vita online delle persone, allora, sarà necessario un ripensamento dei nostri valori democratici in questo senso. L'India ha grandi ambizioni di diventare una superpotenza e di sviluppare una società digitale, ma senza garanzie democratiche e libertà civili, non può esistere una democrazia a tutti gli effetti. Puoi avere di sicuro un sistema efficiente, ma non una società giusta."

Quale è stato lo shutdown più grave che avete monitorato fino a questo momento?

"Tra gennaio e febbraio, c'è stato uno shutdown durato 21 giorni in Nagaland. In Kashmir succede molto spesso, anche per via del suo differente statuto. Ora comunque tutto questo non riguarda più solo la libertà di espressione, in gioco ci sono molti altri diritti, come quello di guadagnarsi da vivere o avere accesso ai servizi bancari. Per l'India è un modo schizofrenico di fare policy making: da un lato, si spinge affinché tutti siano online e abbiano uno smartphone, dall'altro, però, il governo continua a spegnere Internet. Così facendo si smembra anche il paese, perché non penso toglierebbero mai la connessione a Nuova Delhi o nella Silicon Valley indiana, Bangalore. Lo fanno altrove, dove è più semplice. Sono policy ad hoc." Come tracciate gli shutdown indiani?

"Al momento, ci affidiamo a volontari on the ground che ci forniscono informazioni. Altrimenti, ci affidiamo a quanto riportato dai media, dai blogger e dai cittadini, ma stiamo cercano anche una soluzione tecnica per la misurazione. Può sembrare strano, ma nemmeno le aziende hanno qualcosa di simile. Lo scorso 26 aprile c'è stata un'ordinanza statale per bloccare tutti i social media per un mese nella regione del Kashmir e Yahoo! ci ha chiesto se Flickr e Tumblr funzionassero. Loro non potevano separare il traffico di una specifica applicazione."