Immagine via: YouTube/C-Span
L’11 dicembre, il CEO di Google, Sundar Pichai, è finalmente comparso in udienza di fronte al Congresso americano, dopo essersi già rifiutato una volta di testimoniare. Di fronte ai membri del congresso, però, Pichai non era solo: alle sue spalle lo sguardo vigile dell’omino del Monopoli — baffoni bianchi, tuba e monocolo compresi — lo ha scrutato per le oltre 3 ore di interrogatorio. E mi ha fatto pensare a come non ho mai capito il Monopoli e quanto poco riesco a capire Google.Più guardavo l’omino del Monopoli dietro Pichai, più questa condizione di incomprensione senza speranza ha iniziato a pesarmi come un macigno: nel rapportarci con Google è come se stessimo effettivamente giocando a un partita sofisticatissima di Monopoli.Odio il Monopoli, le sue regole e il suo sistema di gioco. Non capisco mai dove conviene fare un investimento e secondo quali previsioni riuscirò a guadagnare di più. Eppure, puntualmente, ogni anno mi ci ritrovo a giocare costretto dagli amici che finiscono con il ridere delle mie operazioni molto poco profittevoli.Tutti giochiamo a Monopoli ma quanti di noi conoscono veramente bene le regole e i sotterfugi del capitalismo? Quanti hanno una comprensione dei meccanismi che sono diventati l’infrastruttura della crisi che stiamo vivendo?
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I membri del congresso hanno continuamente incalzato Pichai sulle colpe dell’algoritmo di ricerca di Google nella soppressione dei contenuti legati alla sfera dei conservatori — fissazione tipicamente americana. Nel frattempo, però, l’omino del Monopoli si trasformava in un gigantesco elefante nella stanza, sottolineando l'inconsistenza e l’inutilità delle domande poste: Google è un titano tecnologico che esercita un vero e proprio monopolio sui motori di ricerca, sul sistema di pubblicità online e sui sistemi operativi — ma le domande poste dai politici hanno raramente scalfito questo tema.Come già successo nelle due udienze di Facebook prima al Congresso americano poi al Parlamento Europeo, anche in questo caso i politici si sono dimostrati inadatti nel loro ruolo: domande troppo vaghe, persino ridicole se viste dall’occhio di chi studia e vive l’infosfera — e Pichai ha persino dovuto specificare che l’iPhone non è prodotto da Google.Tutto questo ci fa sorridere e immedesimare un po’ nella parte di Pichai: a Natale saremo tutti costretti a fronteggiare le domande di genitori, nonni e parenti che, con il loro smartphone stretto in mano, ci chiederanno assillanti di risolvere i loro problemi tecnologici. Rideremo di loro e magari riusciremo anche a risolvere qualche problema.
Ma questo parallelo è corretto solo in modo superficiale, perché nessuno di noi è assolutamente in grado di comprendere e capire davvero il funzionamento di Google. La colpa non è dei politici impreparati — sì, forse un po’, diciamo non solo — ma è dello stesso sistema messo in piedi dalle aziende di tecnologia, che è volutamente oscuro, fatto di termini di servizio e policy che si ingarbugliano in una massa incongruente di parole preposte a definire la nostra vita digitale.
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Sì, probabilmente questo Natale vinceremo qualche partita a Monopoli ma questo non significa aver capito le vere regole del gioco. Abbiamo l’illusione che sia tutto facile, che stia tutto nelle pedine e nelle carte disposte davanti ai nostri occhi sul tabellone, ma ci stiamo sbagliando.Sì, probabilmente questo Natale vinceremo qualche partita a Monopoli ma questo non significa aver capito le vere regole del gioco.
E lo stesso vale per il sistema del capitalismo della sorveglianza messo in piedi da Google. I membri del congresso hanno provato a chiedere informazioni sulla raccolta e gestione dei dati degli utenti: Pichai ha abilmente evitato alcune domande, sottolineando come Google lasci nelle mani degli utenti la possibilità di decidere cosa condividere.Peccato che l’ecosistema delle app sfrutti pienamente i servizi di Google per iniettare le pubblicità agli utenti, come già mostrato da alcuni ricercatori. Le app che usiamo sono piene di sistemi per tracciare le nostre attività — cercare di capire come ogni singolo servizio comunichi con Google o con altre aziende che ammassano i nostri dati digitali è, sostanzialmente, una sfida titanica.Ci arrabattiamo nel gioco del Monopoli come nella nostra vita digitale, senza però capirci granché — e la colpa non è nostra, ma del sistema messo in piedi da Google e cresciuto senza alcun tipo di controllo e supervisione. Smettiamola di fare finta di aver capito le regole che sottoscriviamo ogni giorno e decidiamo una volta per tutte di aprire questa maledetta scatola della sorveglianza digitale.