FYI.

This story is over 5 years old.

Attualità

Com'è essere sieropositivi dichiarati su Sarahah

L’HIV è una parte di me, ma ormai francamente spesso tendo a dimenticarmene. E proprio senza pensare al virus e alla sua percezione, ho scaricato Sarahah.

Mi chiamo Jonathan Bazzi, ho 32 anni e sono sieropositivo. Ho scoperto di esserlo all'inizio del 2016, alla fine di un mese passato con una febbre bassa ma impossibile da mandar via. Non so chi mi abbia trasmesso il virus, non so quando l'ho contratto. So però che sono stato decisamente fortunato: l'avevo in corpo da diversi anni—non avevo mai fatto il test prima semplicemente perché avevo paura, accantonavo il problema—eppure il virus non ha compromesso eccessivamente il mio sistema immunitario. Stavo col mio ragazzo già da tre anni, e nonostante i rapporti non protetti, non gliel'ho trasmesso.

Pubblicità

Alla fine dell'anno scorso, dopo un po' di mesi passati a parlarne solo con mia madre, il mio fidanzato e i miei amici più stretti, ho deciso di renderlo pubblico. Sono grafomane, racconto molto di me su Facebook e non sopportavo l'esser costretto a tacere su quel pezzo così importante della mia vita. Quasi tutti erano contrari— te ne pentirai. Ma sei sicuro? Verrai ricordato, qualsiasi cosa farai, sempre e solo con quest'etichetta.
Il 1 dicembre 2016 ho pubblicato sul web il mio coming out. Mi sono appropriato, attraverso la scrittura, di quello che percepivo come un mero fatto biologico, eppure per i più vergognoso. Ho deciso che raccontarlo così, apertamente, mi avrebbe protetto di più: volevo evitare di essere quello a cui si parla alle spalle. Volevo neutralizzare la carica morbosa, ancor prima di quella virale.

E poi sentivo a quel punto di appartenere a una storia triste e importante, di essere parte di una comunità sotterranea, invisibile e piena morti, piena di gente ammazzata dal virus ma anche di gente costretta al silenzio. Volevo assumere pienamente e pubblicamente quell'appartenenza che quasi nessuno riesce a rivendicare. Anche perché io allora non riuscivo a percepirla come reale. Non riuscivo a sentirmi davvero sieropositivo: volevo che gli altri mi aiutassero a farlo. E volevo raccontare dall'interno una condizione perlopiù descritta da fuori e rivestita di luoghi comuni e immagini stereotipate. Ecco un sieropositivo: sono io. Ho un nome, una faccia, una storia diversa da quella che forse immagini. Non ho avuto molti partner, non ho avuto rapporti sfacciatamente a rischio, non ho mai assunto droghe. Ci sono sempre stato attento ma non è bastato. Ho deciso di dirlo a tutti, senza ritegno, e non me ne sono pentito.

Pubblicità

L'HIV è una parte di me, ma ormai francamente spesso tendo a dimenticarmene. E proprio senza pensare al virus e alla sua percezione, nei giorni scorsi ho scaricato l'app del momento, Sarahah.

Come ormai tutti sanno, Sarahah serve per ricevere messaggi e domande anonime da parte dei propri amici sui social. Sapevo che sarebbero arrivate provocazioni e critiche, ma speravo anche di ricevere osservazioni originali e domande curiose sulle cose che mi interessano: i libri, la letteratura, il femminismo, le questioni di genere, lo yoga. E queste sono effettivamente arrivate, ma l'anonimato di Sarahah è stato anche un eccezionale incentivo alla produzione di messaggi pieni di spettri e dicerie fuori tempo massimo, da anni Ottanta e Novanta: frasi impregnate di un immaginario decisamente non aggiornato e volutamente sadico, feroce, brutale.

Il primo messaggio violento che mi è arrivato diceva: "Fai tanto l'intellettuale e poi hai l'AIDS. Se eri così intelligente non ti prendevi questa malattia caro scheletro che cammina. Fai poco il maestrino."

L'ho condiviso su Facebook e da lì hanno iniziato ad arrivarmene una valanga—opera di una o più mani, non lo so. Quello che so è che si tratta certamente di una o più persone che mi conoscono, che ho tra gli amici di Facebook, che segue (o seguono) le cose che scrivo. E che vogliono farmi sapere quanto segue:

Troia.
Assolviti.
Lo yoga cura l'AIDS?
Ti ricordi quell'unica volta in cui uscimmo insieme e io ti dissi che senza di me ti saresti perso? Ecco.
Massimo rispetto per te ma non capisco perché ti vanti tanto di essere sieropositivo.
Posso chiederti se il tuo aspetto fisico (magrezza, calvizie, etc.) dipende dalla tua condizione di sieropositivo? Non è un insulto, è una domanda seria. Comunque davvero hai l'aspetto fisico del malato di AIDS ma non te la prendere la gente non sa più che dire per invidia.
Il senso di pubblicizzare che hai l'HIV?
Quanta solidarietà hai avuto su Facebook per quello che ti hanno scritto. Vorrei vedere però quanti di loro sarebbero disposti a bere dal tuo stesso bicchiere.
L'HIV ti ha reso un'eroina del web.
Ma quando stai per sbarrare almeno ti scansi per non infettare il tuo ragazzo? Sai che ansia per lui mamma mia.
HIV o no sei veramente frocia.
Ma la smetti di dire che ti sei preso l'HIV con un pompino?
Non è possibile quello che hai dichiarato, che l'HIV l'hai preso da un rapporto orale. Non si prende così. È stato un rapporto anale.
Tutta questa santificazione su Facebook non ti restituisce la salute. Ti serve veramente tanta pietà delle persone? Il pietismo per la tua condizione ti fa vivere meglio?
La reazione delle persone alle offese che hai subito è commiserazione, non solidarietà.
Frocione sieropositivo.
Pubblicizzerai su Facebook anche quando passerai da HIV a AIDS? Fai la festa?
Sei così malato di protagonismo al punto di aver trovato nella tua malattia un modo per strumentalizzare il pietismo. Basta leggere i commenti per renderti conto che nessuno di loro ti tratta da persona normale ma tutti ti commiserano.
Fai venire voglia di contagiarsi l'AIDS tanto basta una pillola al giorno e si guadagnano tanti like.
Basta un poco di HIV e la pillola va giù la pillola va giù pillola va giù.

Pubblicità

Ovviamente mi sono arrivati anche moltissimi messaggi di solidarietà e in tanti mi hanno confessato che sarebbero stati devastati dal ricevere frasi del genere. Io invece devo ammettere che l'assenza di firma ai miei occhi li ha resi come meno "reali": il fatto di non sapere chi me li abbia scritti mi impedisce di starci male davvero. Eppure quei messaggi sono lì, il peggio del peggio rivolto però solo contro una mia caratteristica, la sieropositività. Ed è proprio questo che li rende emblematici e pericolosi forse più per chi se li ritrova davanti.

Perché il vero, grande problema di tutti questi messaggi—del sentirmi dire che sono un morto che cammina, che ho il virus stampato in faccia, che c'è da aver paura a bere nel mio stesso bicchiere—non è tanto l'effetto che possono aver fatto a me. Leggendoli e rileggendoli via, via mi è venuto il dubbio di aver fatto male a renderli pubblici: ho iniziato a temere che potessero influenzare la percezione che altri ragazzi sieropositivi, magari più fragili o anche solo meno confortati dalla solidarietà che la visibilità assicura, hanno di se stessi e della loro condizione.

Da quando ho deciso di essere un sieropositivo "dichiarato" ho ricevuto molti messaggi e ho intercettato le storie di tanti ragazzi: soprattutto quelli che l'hanno scoperto da poco o che hanno storie particolarmente tormentate, tornano e ritornano nei loro racconti sulle paure, sull'ansia, sul senso di essere ormai irrimediabilmente fallati, guasti, perduti. Hanno il terrore di essere scoperti e rifiutati, danno per scontato che sia bene non dire, stare zitti, tenersi tutto per sé. Io sono qua, piantato alla luce del sole, esibisco tutto di me e sono convinto che questo mi renda più forte: queste quattro stronzate malevole recapitatemi in forma anonima su Sarahah, l'app dell'onestà (questo il significato della parola in arabo) possono solo confermarmi di aver fatto bene a metterci la faccia. Però mi sono chiesto e mi chiedo tuttora: i tanti ragazzi con l'HIV che frequentano la mia bacheca—e che magari pensano che parlare di sé agli altri sia impossibile, che l'HIV sia una condizione davvero vergognosa—che idea si faranno leggendo questi messaggi? Che idea si faranno del mondo e del suo potenziale giudizio sulle nostre vite? Quanto più a fondo desidereranno nascondersi dopo aver visto che c'è gente che ancora oggi pensa questo di una malattia che non è neanche esatto definire tale?

Nei messaggi anonimi che mi sono arrivati l'ignoranza è mista al pregiudizio. L'HIV non è l'AIDS, non rende magri, non è mai stato trasmesso bevendo dal bicchiere di qualcuno, non fa cadere i capelli, non è il segno di nessuna condanna, decidere di parlarne e raccontarlo in prima persona significa cercare di normalizzarlo e liberarlo dalla retorica del passato, non automaticamente fare i fenomeni e gli egoriferiti.

Quanto a Sarahah, l'app è una grande esca, un imbroglio. Promette confessioni e svelamenti memorabili, ma poi in realtà aizza gli hater e i voyeur in un grande gioco al massacro in cui contano solo l'"effetto che fa" e le condivisioni generate. Quelle che in definitiva le permettono di parassitare i social network e insieme a quelli le nostre emozioni.

Segui Jonathan su Facebook.