samuel heron
Samuel Heron, foto promozionale
Interviste

Com'è triste Samuel Heron

Ho scritto un video sulla tristezza, Samuel Heron l’ha visto e mi ha detto che anche lui era triste—quindi l’ho intervistato.

Parte del mio lavoro da autrice consiste nella scrittura di video interpretati da persone che hanno voglia di parlare davanti a una telecamera. Uno di questi video era un monologo molto semplice che parlava di tristezza. Detto così suona un po’ strano. È che ultimamente, a causa di questo lavoro, mi trovo a contatto con persone parecchio più giovani di me, persone con cui parlo e che ascolto avidamente perché sono la chiave per intuire una generazione che sembra così vicina alla mia ma che in realtà non lo è affatto a causa dell’assenza di ricordi pre-Instagram che la caratterizza.

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Se si è nati nella prima metà degli anni Novanta, si fa parte di una delle ultime scie umane che si ricorda com’era fatta l’industria musicale prima degli mp3, com’era fatto un telefono fisso e che è ancora in grado di passare un paio d’ore a non fare assolutamente niente. Oggi le cose sono molto cambiate per chi è nato già invischiato nella palude dei social, e magari mi sbaglio, ma una delle cose che mi sembra più profondamente mutata è l’elaborazione collettiva sentimentale: se una volta i sentimenti erano ambivalenti, bui, complessi e articolati, oggi i sentimenti che vengono cantati, esposti e codificati sembrano aver perso il loro spessore in nome di uno schema fisso povero e scordato. Credo che in larga parte di questo fenomeno sia dovuto alla cultura dei social, e in particolare a Instagram, che più di tutti è stato usato implicitamente per creare una narrazione bidimensionale di chi siamo come esseri umani, uno spazio in cui – legittimamente – non c’è posto per la complessità, ma che ha sostituito lentamente tutti gli spazi che invece erano concessi a quest’ultima.

Questo per dire che questo video sulla tristezza, così come altri video che scrivo, cercano ingenuamente di riportare un po’ di tridimensionalità a chi ha voglia di ascoltare e sente la necessità che gli venga ricordato che esiste un’ampia gamma di sentimenti non sempre positivi, anche in un universo in cui sembra che nessuno sia più legittimato a sentirsi infelice.

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La cosa buffa è che questo video sulla tristezza è stato intercettato da Samuel Heron, musicista e ballerino ligure, noto anche per essere un abile intrattenitore e per avere sempre avuto un’immagine leggera per il suo pubblico, che in parte lo ha fatto sentire intrappolato in una figura spumosa, tintinnante. Ecco, Samuel dopo aver visto questo video sulla tristezza ha chiesto di poter chiacchierare con il team con cui lavoro perché la faccenda è questa: il suo disco appena uscito si chiama Triste. Per questa ragione ci siamo incontrati in occasione dell’uscita del disco e abbiamo chiacchierato per il tempo che avevamo a disposizione di Triste, di crisi identitarie, ma soprattutto di irrequietezza.

samuel heron triste cover

Una cosa che mi è saltata subito all’orecchio ascoltando il tuo disco è che noto solo due o tre pezzi aderenti al titolo Triste: "Facebook", "Papi Chulo" e "Londra". Le altre tracce sono estremamente leggere. Mi spieghi un attimo la geografia di questo disco rispetto alla comunicazione che ne è stata fatta?
La mia comunicazione del titolo non è per forza da collegare ad alcuni pezzi. Perché poi non rispecchia quello, cioè non ci sono pezzi tristi o cupi o malinconici. A parte "Londra" e "Facebook". Il titolo esprime la mia voglia di mettere un po’ le mani avanti e di far capire che non sono solo quello che la gente si aspetta che io sia. Ma non per colpa loro, ma solo perché ho dato sempre e solo una parte del mio carattere. Ora è arrivato il momento di dare altro. Tu mi dici che però non vedi questa cosa.

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La rivedo a tratti.
Sì, esatto. Comunque questo è l’inizio di un percorso ed è l’inizio anche per me, però insomma, con calma! Devo anche far capire alle persone che c’è altro in maniera intelligente ed educandole a recepire quello che sono io, quindi di botto io non posso, non voglio andare a scardinare quello che ero prima. Mantenere qualcosa di ciò che ero prima è importante, perché sono tratti caratteriali, caratteristiche del personaggio e della persona molto forti. Il fatto che io sia un ballerino, il fatto che io sia un intrattenitore durante i live… Questo mi piace che si mantenga e che sia ancora un punto forte e focale della mia musica. Quindi ti dico il fatto di essere triste è più un discorso personale. Cioè il titolo è più legato alla persona Samuel che non ai pezzi. Se non a tratti. È un po’ il pagliaccio triste…dietro l’apparenza si nasconde una realtà diversa. Io ho un po’ cercato di farla vedere. Però non per forza nei pezzi.

Ti sono arrivati feedback rispetto a questo rivelazione?
Dalle persone più interessate sì. Però diciamo che dal pubblico più leggero sui social, dove gli passano davanti centomila cose, no. Secondo me non si sono posti la domanda perché non hanno ancora ascoltato i pezzi. Perché secondo me, a prescindere dal titolo, si aspettano ancora il Samuel Heron del passato. Quindi secondo me non sanno ancora cosa li aspetta in realtà. Però il titolo attualmente può dire niente e può dire tutto a una persona che non sa niente.

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Mi racconti questo cambiamento identitario e artistico che hai affrontato?
È frutto di svariati mesi di trita, di negatività. Legati a dei problemi che mi sono capitati. Da eventi esterni, situazioni esterne che hanno influito sul mio percorso. Mi sono fermato un attimo con la musica, il che mi ha portato a pensare—e pensare, per una persona come me, vuol dire uccidersi, perché ho un carattere molto sensibile, quindi recepisco tantissime cose, soprattutto quelle negative. Io poi sono una persona estremamente profonda. Vivo tutto molto intensamente, sia le cose belle che quelle brutte. Quindi sono sempre in conflitto e angosciato. E io sono sempre stato così. Semplicemente ci ho ragionato su e ho detto "perché?". Perché alla fine l’ho anche soffocato un po’, perché alla fine ho sempre fatto vedere determinate cose di me legate all’intrattenimento e alle cose frivole, il ballo e via dicendo. Ecco, secondo me si è creata una situazione artistica di stallo perché avevo paura che se fossi uscito con qualcosa di diverso le persone non avrebbero apprezzato, e allo stesso tempo io non riuscivo a fare le stesse cose, perché nel mentre ero cambiato. Per me è arrivato il momento di mettermi a nudo: questo disco è il risultato di questo tempo, di questo periodo negativo, del lavoro e della costanza ovviamente. Soprattutto il mio team, i miei produttori, sono le persone che mi hanno raccolto e mi hanno dato la possibilità e la consapevolezza musicale che avevo perso.

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samuel heron

Samuel Heron, foto promozionale

Hai mai provato a darti una risposta sul perché sei così irrequieto?
Secondo me uno ci nasce. Fin da ragazzino mi sono sempre sentito distaccato dagli altri e dalle situazioni che gli altri vivono con leggerezza. E io mi chiedevo perché mi sentivo così diverso. Perché pretendo anche dagli altri cose diverse?

Quali cose diverse?
Anche solo nei rapporti umani, io pretendo molte attenzioni, molto rispetto. Infatti questo mi rende molto impegnativo per gli altri. Poi io do tanto. C'è una serie di cose che ho analizzato durante gli anni. Da ragazzino non sai bene. Io ho incanalato questo malessere ballando, inizialmente. Questa cosa mi ha aperto alla società, agli amici. Io fino ai 12 anni non avevo amici. Mentre tutti gli altri miei amici erano al mare io ero a casa a fare i beat, io passavo i miei giorni a cercare sample per le basi, poi piangevo da solo quando trovavo un pezzo bello. Allora mi sfogavo.

Ti succede tuttora?
No. Cioè in realtà sì, mi è successo, però ho perso un po’ quella magia. L’ultima volta che mi sono commosso ascoltando un pezzo è stato con De André, di recente, "La domenica delle Salme". Stranamente non è uno dei pezzi più popular, però l’intensità… C’è qualcosa dentro quel pezzo. Io piango molto eh, però negli anni ho smesso un po’. Perché ora ho lo sfogo! Incanalo quel malessere in qualcosa. Prima mi chiedevo continuamente perché fossi triste… mi auto-escludevo, mi auto-emarginavo. Non sono mai riuscito a far presa sulle persone. Ecco, la musica in questo mi ha aiutato.

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Perché secondo te facciamo così tanta fatica ad accettare i sentimenti negativi sia propri che altrui?
Anche solo a livello di amicizia è più facile avere qualcuno di simpatico, divertente, con cui ti bevi una birra rispetto a uno che espone i propri pensieri sul mondo, sull’universo, le proprie ansie e le proprie cose. Ora che nessuno ha voglia di parlare di cose serie, la gente non ha voglia delle cose importanti che richiedono attenzione e impegno.

Che cosa è successo secondo te?
I social. Il fatto che sia tutto smart: like e scorro, scorro la story, cancella… Tutto usa e getta. Solo che anche i rapporti umani sono diventati usa e getta, per quello che io magari non ho tante amicizie nell’ambiente hip hop, perché non riesco a entrare nella mentalità per cui sei piramidalmente più alto di me e quindi ti sfrutto così facciamo il featuring o la foto. E quindi mi escludo io automaticamente. Però, ecco, quando poi trovo le mie persone, quelle mi restano per 50 anni.

Qual è la tua canzone preferita del disco?
Come canzone "Londra". "Facebook" mi piace perché non è una canzone, cioè non lo è secondo i canoni della trap e del rap. È uno sfogo! Non è nata volontariamente dicendo “Ora faccio una canzone chitarra e voce”. Un giorno stavo male in studio, e mi son dovuto sfogare. Allora ho registrato su una base che ho fatto io e solo dopo abbiamo messo la chitarra. Quindi non è un pezzo scritto per chitarra e voce. Poi ci siamo rivisti con Andrea Gargione (amico e chitarrista) e l’abbiamo rifatta. Infatti è tutta imprecisa, perché malgrado lui sia un chitarrista della madonna, io gli ho detto proprio che la volevo tutta storta. C’è il rumore di una sedia trascinata a un certo punto. Poi vabbè, l’abbiamo impreziosita con il sax di Stefano Baraldi. È rischioso come pezzo a livello discografico. Però ecco, come sfogo è il mio preferito. Ci sono davvero tutte le cose personali che mi sono venute in mente. Pensa che a un certo punto nel testo cito Gianluca, uno dei miei più cari amici con cui non parlavo da cinque anni. E il mio team mi ha rimesso in contatto con lui grazie a questa canzone. Pensa che anche lui ballava, era il mio mentore, avevamo una compagnia. Io sono stato molto egoista e lo ammetto. Quando fai questo mestiere a volte rischi di diventare molto egoista, perché lavoro e persona coincidono. Ma mi sembra che questa distanza di cinque anni ci abbia resi ancora più uniti.

Questo disco è uno statement, almeno in parte. A parte la questione della tristezza, c’è un altro pezzettino della tua visione che volevi far trasparire?
Sono una persona che ricerca la felicità. Ecco, io mi crogiolo nei sentimenti negativi, però in realtà non me li cerco. Non faccio cose per essere triste. Sono triste ma non voglio esserlo! Quindi secondo me questo è il punto principale. La ricerca della serenità.

E cosa te la dà in questo momento?
Oggi. Oggi è un giorno sereno.

Irene è autrice e host della serie La Prima Volta su VICE. Seguila su Instagram.

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