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In 'Shadow of the Tomb Raider' Lara non è un'eroina, ma una macchina omicida

Mentre i cadaveri di centinaia di uomini e animali si accatastano alle nostre spalle, Lara continua a ripetermi che va tutto bene. Ok.
Screenshot via: YouTube

Poco dopo il catastrofico incipit dell’ultimo Tomb Raider, Lara arriva in un piccolo centro abitato in mezzo alla giungla, in cui il giocatore può riprendere fiato e dedicarsi a qualche missione secondaria. Parlando coi locali, il personaggio apprende che la Trinità — l’organizzazione di cattivoni che sta scavando nella zona alla ricerca di manufatti precolombiani in grado di garantire il dominio sul mondo — ha un distaccamento in zona, che sfrutta e uccide i lavoratori.

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Come deciderà di agire la nostra eroina? Trattando? Minacciando i soldati e intimandogli di fuggire o subire le conseguenze? Assolutamente no. Entra nel sito di scavi e pianta una freccia in testa a tutti quelli che non riesce a uccidere silenziosamente con una picconata in gola. D’altronde, è così che funziona, siamo di fronte a un gioco d’azione in cui bisogna uccidere un sacco di cattivi per andare avanti, accumulando una scia di cadaveri degna di un genocidio — anche Uncharted, per dire, funzionava così.

Eppure, in certi momenti, fa veramente strano notare come l’unico linguaggio conosciuto da Lara sia la violenza, cosa che la fa somigliare a una sorta di John Matrix senza battute ironiche — un action hero anni ‘80 che cerca di aggiornarsi con un velo in più di sensibilità e introspezione.

Ma la vera dissonanza ludico-narrativa — quel momento in cui il gioco ti porta a fare cose che non hanno molto senso col contesto in cui si svolge l’azione — arriva poco dopo. Dopo l’ennesima sequenza di salti, enigmi e uccisioni, ci ritroviamo in un villaggio di indigeni che vivono ancora secondo gli usi e i costumi dei Maya ( siamo nel cuore verde del Sud America, il cliché della tribù isolata dalla civiltà era pressoché inevitabile. Suppongo.) Mentre passeggiamo per le casette insieme a una personalità locale che ci introduce a questa nuova sezione, niente ci vieta di entrare in casa della gente per prendere pelli e altre risorse con cui potenziare il nostro arsenale o costruire nuove frecce.

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Va bene che "tomb raider" vuol dire “tombarolo,” ma non è un po’ esagerato?

Immaginate una scena simile in un film: Indiana Jones scopre un avamposto di nativi americani miracolosamente scampati alla colonizzazione degli Stati Uniti e la prima cosa che fa è fottere a tutti le pelli per fabbricare mocassini che aumentino la sua esperienza nelle uccisioni furtive.

Forse per alcuni saranno piccoli dettagli, ma sono proprio quelle cose che, alla lunga, ti fanno storcere il naso e spezzano l’illusione: come vedere un microfono entrare in campo o uno scrittore tormentato che se la spassa in un trenino conga.

È un peccato, perché al di là di questi difetti, di una trama priva di grandi scossoni e di un approccio generale un po’ polveroso, Shadow of the Tomb Raider offre un interessante spaccato sulla personalità di Lara e sulla figura dell’eroe. Il personaggio emerge per quel che è: una persona ossessionata, avida di conoscenza e di vendetta, consumata da un trauma infantile che la spinge ad arrampicarsi sempre un po’ più in alto.

La nuova trilogia non brillava certo per i toni allegri, ma questo finale è probabilmente il più cupo, triste e rassegnato. Ci sono forti rimandi a film come Apocalypto e ad Apocalypse Now, per non parlare della possibilità di mimetizzarsi col fango che riporta a galla il ricordo di Schwarzenegger che urla la sua sfida a Predator dal ramo di un albero. In Shadow of the Tomb Raider non mancano momenti incredibilmente drammatici — non voglio dire spettacolari, perché tsunami e terremoti non sono certo materiale d’intrattenimento nella vita reale —, ma questa virata verso i film catastrofici è indicativa del bisogno di far crollare tutto, di distruggere tutto ciò che si pone tra Lara e il suo obiettivo.

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È vero che c’è un cattivo da sconfiggere — questa misteriosa Trinità che la perseguita da tempo —, ma la sfida, come per tutti gli avventurieri, è fondamentalmente con se stessa, col bisogno di riempire il vuoto lasciato dalla morte del padre. Una continua ricerca del brivido e dell’emozione forte che finisce per consumare chiunque le stia intorno: perennemente ossessionata dal fare “la cosa giusta,” Lara mette in pericolo migliaia di persone — poco importa che chi le sta vicino cerchi di dissuaderla o le faccia notare le conseguenze delle sue scelte. Il suo intervento nelle situazioni che si trova davanti ricorda vagamente un colonialismo paternalista, l’occidentale avanzato e colto che risolve la situazione per i nativi (esagero? Forse, eppure è ciò che succede).

E mentre i cadaveri di centinaia di uomini e animali si accatastano alle nostre spalle, lei continua a ripeterci che va tutto bene

Con calma tutto poi si allinea verso canoni più classici, in cui i buoni sono buoni e i cattivi vogliono conquistare il mondo (non senza qualche salto logico un po’ a caso), ma le prime ore di Shadow of the Tomb Raider sono un bel pugno nello stomaco nei confronti degli archetipi eroici classici, per chi sa vederli.

Non stiamo impersonando un’archeologa avventurosa o un’eroica liberatrice di popoli oppressi; siamo nelle mani di una persona che ha bisogno di vedere costantemente la morte in faccia per ricordarsi cosa vuol dire vivere. E mentre i cadaveri di centinaia di uomini e animali si accatastano alle nostre spalle per permetterci di avanzare e migliorare l’equipaggiamento, mentre arraffiamo avidamente tutto ciò che ci serve — anche in un villaggio che ci ha accolto con benevolenza —, lei continua a ripeterci che va tutto bene, che dobbiamo avere fiducia in lei, che alla fine saremo ricompensati.

Shadow of the Tomb Raider è tutto così: arrampicati, uccidi nei modi più cruenti possibili, saccheggia e riparti, uccidi la bestia che sta per mangiare, saccheggia e riparti. Un lucido massacro, una folle corsa nella giungla in cui il destino di un popolo si dimostra solo una scusa come tante. Vissuto sotto questa lente, il gioco diventa un elogio della follia, del cieco ardore che ci porta a guardare fisso verso un obiettivo, incuranti del resto.

Difficilmente sentiremo parlare di Lara nei prossimi anni: questo ciclo chiude una seconda trilogia nata sulla scia di Uncharted, che a sua volta voleva riportare in auge i fasti della prima Lara, quella che i puristi giudicano come “vera” solo perché ha più tette e si lamenta meno. Il personaggio ha probabilmente detto molto di ciò che poteva dire, forse quasi tutto, dopo aver esplorato ogni angolo della Terra. Magari la vedremo nuovamente, perché la sua è un’icona senza tempo, ma chissà che tipo di Lara sarà quella dopo il 2020.