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Due trombe d'aria sul mare davanti alla città di Genova, nel novembre 2019. Immagine: Maurizio Menessini via Wikimedia CommonsCC BY-SA 4.0
Tecnologia

Quali saranno davvero gli effetti della crisi climatica in Italia

Abbiamo chiesto ad Antonello Pasini, climatologo e autore del libro 'L’equazione dei disastri. Cambiamenti climatici su territori fragili' come prepararci al peggio, ma anche come prevenirlo.

A seconda di dove vivi, è probabile che gli effetti della crisi climatica intorno a te siano diversi dalle notizie che leggi in giro. Questo in parte è dovuto al fatto che, in generale, sono soprattutto alcuni paesi a soffrire le conseguenze più evidenti al momento (come Yemen, Filippine, Australia e Haiti), in parte al fatto che meteo e clima sono due cose diverse e capita che nevichi anche se le temperature globali continuano a salire.

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Ma anche l’Italia è indubbiamente alle prese con le prime emergenze climatiche su larga scala: dai periodi di siccità prolungati in estate e conseguenti incendi—soprattutto sulle isole—, alle grandinate improvvise in autunno e ai picchi di acqua alta a Venezia. A febbraio, il caldo anomalo ha spinto al risveglio anticipato miliardi di api, un fenomeno che crea uno squilibrio serio per le coltivazioni locali.

Sappiamo anche che il territorio italiano è estremamente vario e che vivere in città o in piccoli paesi di montagna o di costa non è la stessa cosa. Cosa dobbiamo aspettarci, quindi, se gli scenari climatici restano quelli attuali e non vengono invertite le emissioni globali di CO2? Quali sono le catastrofi che dobbiamo aspettarci e cosa possiamo fare per arginarle? Motherboard ne ha parlato con Antonello Pasini, climatologo del CNR e autore del libro L’equazione dei disastri. Cambiamenti climatici su territori fragili (edito da Codice Edizioni), per capire quanto sarà significativo l’impatto del cambiamento climatico sull’Italia, in che modo l’uso che facciamo del suolo aumenti la vulnerabilità dei nostri territori, e se i fenomeni estremi degli ultimi tempi siano destinati a diventare all’ordine del giorno.

MOTHERBOARD: Il libro si struttura attorno a un’equazione per prevedere il rischio idrogeologico. Com’è nata l’idea di voler condensare tutto in una formula?
Antonello Pasini: È innanzitutto un omaggio all’universalità del linguaggio matematico. Nel capitolo introduttivo sono partito da una formula per calcolare il rischio di contrarre l’influenza—la risonanza con la crisi coronavirus è tristemente attuale. Volevo dimostrare come un’equazione che può essere usata per prevedere il rischio di contagio influenzale, possa essere applicata a quello idrogeologico attraverso gli stessi fattori di pericolo, vulnerabilità ed esposizione. La formula mette in evidenza come i rischi meteo-climatici sono destinati ad aumentare, spingendoci ad agire sui fattori in gioco per limitarli e ridurre così il risultato della moltiplicazione.

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Quanto sono realistiche le stime che ci fornisce l’equazione? Ci sono rischi che non siamo in grado prevedere?
È importante chiarire che l’equazione offre delle stime al ribasso. Non tiene conto del modo in cui i singoli fattori possono influire gli uni sugli altri, amplificando esponenzialmente i tassi di pericolo. Le azioni umane di cementificazione e impermeabilizzazione del suolo, ad esempio, possono innescare degli imprevedibili effetti feedback nel caso di eventi piovosi estremi. L’equazione dunque può fornire una stima di base del rischio idrogeologico, ma nella realtà le cose sono destinate a essere probabilmente peggiori.

Insomma non siamo messi bene…
È vero, non lo siamo, però paradossalmente trovo che l’aver scoperto che il riscaldamento globale è colpa nostra sia una buona notizia. Se avessimo a che fare con un cambiamento di origine naturale non potremmo fare altro che provare a difenderci. Ma il cambiamento in questione è dovuto principalmente alle azioni dell’uomo, pertanto possiamo agire su queste cause perché diminuiscano e con esse gli effetti negativi. È tutto in mano nostra.

In un sistema complesso come il clima, tappando un buco qui, può aprirsi una voragine altrove. Bisogna ragionare in maniera sistemica, risolvendo più problemi insieme

Nel libro si parla di globalizzazione climatica, un termine che evidenzia come in materia non esistano prospettive puramente locali. Come possiamo relazionarci con una dimensione così complessa?
È questione di cultura, di didattica. Ci dovrebbe essere un’alfabetizzazione di base sul funzionamento dei sistemi complessi, perché oggi vi siamo completamente immersi: l’economia globale, il clima, internet. Dobbiamo dotarci di strumenti per convivere al meglio con tali sistemi, senza esserne dominati. Non possiamo più affidarci al vecchio paradigma di soluzione dei problemi, quello ingegneristico-tecnocratico: “C’è una falla? Mettiamoci un tappo e il problema è risolto.” In un sistema complesso come il clima, tappando un buco qui, può aprirsi una voragine altrove. Bisogna ragionare in maniera sistemica, risolvendo più problemi insieme.

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Come ad esempio nel caso delle migrazioni climatiche?
Sì, ne tratto brevemente nel secondo capitolo. È un tema a cui avevo già dedicato un altro libro— Effetto serra, effetto guerra. Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea. Invece di innalzare muri e attuare altre inutili “soluzioni-tappo,” occorre rendere operative pratiche che permettano alle persone di non dover emigrare forzatamente. Ad esempio, nel caso della fascia del Sahel, da cui proviene circa il 90 percento dei migranti giunti in Italia lungo la rotta mediterranea negli ultimi anni, il fattore climatico ha giocato un ruolo di rilievo. Se la desertificazione e la degradazione dei terreni agricoli hanno reso i territori inabitabili, solo contrastando questi fenomeni, attraverso opere di riforestazione e il rilancio di un’agricoltura sostenibile, si potrà attuare un’inversione di tendenza sulle migrazioni forzate, che altrimenti saranno destinate ad aumentare drasticamente.

Il libro si concentra in particolare sulla situazione climatica italiana. Quali saranno le conseguenze del cambiamento climatico sul nostro paese?
Sicuramente subiremo sempre di più l’influenza del clima africano. All’anticiclone delle Azzorre si sostituiranno sempre più spesso anticicloni Sahariani, che porteranno lunghi periodi di caldo estremo. L’impatto sarà critico sia sull’agricoltura, a causa di periodi prolungati di maggiore siccità, che sulla vita nelle nostre città, con più afa, più inquinamento e quindi più pericoli per la salute. E a causa di un ri-allineamento della circolazione atmosferica sull’asse sud-nord, quando gli anticicloni africani si ritireranno permetteranno l’entrata di aria fredda da settentrione, che mescolandosi a temperature estremamente calde dà vita agli eventi meteorologici straordinari che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni. L’estremizzazione sarà dunque duplice: caldo più torrido e precipitazioni più violente.

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E Venezia? Gli eventi eccezionali dello scorso novembre diventeranno la norma?
Venezia, oltre a subire il progressivo innalzamento del livello del mare—l’ultimo rapporto generale IPCC prevede un aumento fino a quasi 1 metro nello scenario peggiore, ma è una stima prudente—subirà le conseguenze dei cambiamenti nella circolazione dell’atmosfera sul sopracitato asse sud-nord. I forti venti di scirocco, che ammassando le acque dell’Adriatico verso la laguna veneta sono tra le concause del fenomeno dell’acqua alta, sono destinati a divenire più frequenti e duraturi, con ripercussioni critiche sulla città.

Ma è tutta la nostra linea costiera che deve prepararsi ad affrontare transizioni epocali. Sono molti i territori italiani che potranno subire la penetrazione del mare anche per svariati chilometri all’interno dell’attuale linea di costa. Dobbiamo prepararci a riadattare la nostra agricoltura e ripensare il modo in cui organizziamo città e insediamenti turistici sui litorali, in vista di mareggiate e inondazioni sempre più frequenti.

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Nel caso delle recenti calamità abbattutesi su Venezia alle cause climatiche si mescolano quelle antropiche, anche per una cattiva gestione del territorio. Ritieni che parlare unicamente di “disastri climatici” sia sbagliato o riduttivo?
Il fattore climatico e quello umano sono sempre entrambi in gioco. È eclatante il caso dell’alluvione di Genova del novembre 2011. Spesso mi sento dire: “non ci venire a parlare di cambiamenti climatici, è Genova a essere una città estremamente fragile.” Se andiamo a vedere i dati, scopriamo però che in quei giorni il capoluogo ligure fu soggetto a un’ondata di calore in mare del tutto anomala per il periodo, impensabile in epoca pre-industriale, che fu diretta responsabile dell’ingente quantità di pioggia scaricata in breve tempo sul terreno. Ma se lo zampino del clima è evidente, sta a noi evitare azioni che possano rendere il territorio ancor più vulnerabile, come la tombatura di fiumi e torrenti sotto alla superficie della città, che in quel caso fu fatale per Genova.

Come possiamo dunque ridurre i rischi per un territorio fragile come il nostro? Nell’ultimo capitolo parli di mitigazione e adattamento.
Sono due approcci che dobbiamo mettere in pratica urgentemente. In primo luogo, dato per assodato che le cause prime del cambiamento climatico sono di origine antropica, è necessario sbrigarsi a ridurre tali cause, tagliando sostanzialmente le nostre emissioni di gas serra. Mitigare il nostro impatto è l’unico modo che abbiamo per evitare le conseguenze peggiori nel lungo periodo. Nel contempo urge adottare strategie di adattamento. Ciò vuol dire abituarci a convivere con fenomeni di una certa intensità e frequenza, aumentando la nostra resilienza di fronte a eventi esterni violenti.

A questo proposito mi sono stupito di leggere che l’Italia ha già elaborato una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici (SNAC) e un Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC). Sono iniziative concrete per prepararci al futuro che hai delineato?
Sicuramente gettano le basi per un iter strategico a lungo termine, una prospettiva cruciale in un paese come il nostro abituato a ragionare in un’ottica emergenziale. Il punto nevralgico che hanno messo in luce è come qualsiasi strategia a livello nazionale vada declinata localmente. Se la protezione civile annuncia che per domani sono previsti 200 millimetri di pioggia, solo il sindaco e i suoi collaboratori, che meglio di chiunque altro conoscono il territorio del proprio comune, possono sapere dove quella pioggia potrà causare i danni più critici. Serve dunque un “passaggio di scala” efficace, coadiuvato da una comunicazione che raggiunga tutti in maniera chiara ed efficiente. In tal senso, occorre sicuramente aumentare la “cultura al rischio” dei cittadini. Un’attitudine pressoché assente in Italia, terra di abusivismo e di furbizie, che troppo spesso portano a conseguenze tragiche.

A questa “alfabetizzazione climatica” possono contribuire positivamente i movimenti come Fridays For Future?
Assolutamente sì. È lampante come in materia di riscaldamento globale la vera spinta sia quella dal basso, come ho esposto in un articolo per l’Almanacco della Scienza del CNR. Fridays For Future ha fatto in un anno quello che noi climatologi non siamo riusciti a fare in vent’anni. Fermo restando che il messaggio lanciato dal movimento è quello di prendere decisioni per il nostro futuro sempre basandosi sulle informazioni che a oggi la scienza è in grado di fornire.