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'Renzi come Balotelli': una giornata dentro il caos del Partito Democratico

Abbiamo seguito la direzione nazionale del PD, che doveva essere l'ennesima "resa dei conti" dopo la batosta presa alle ultime elezioni.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Matteo Renzi e Maurizio Martina, l'attuale reggente del PD, a un'iniziativa elettorale lo scorso febbraio. Foto via Facebook

Chi segue la politica italiana sa fin troppo bene che la storia del Partito Democratico è, fin dal principio, uno sfiancante susseguirsi di lotte di potere interne, lacerazioni, scissioni e rese dei conti; e poco importa se queste, a volte, sono solo ipotizzate e minacciate. Le conseguenze, infatti, sono sempre state molto tangibili.

E la direzione nazionale di ieri arriva in un periodo che riassume perfettamente questo stato, con una base del partito frastornata quanto Cosmo che fallisce lo stage diving al Concertone.

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Ma come si è arrivati a questo punto? La settimana scorsa, Mattarella ha affidato al presidente della Camera Roberto Fico (ritenuto un grillino “di sinistra”) un mandato esplorativo per sondare la possibilità di un accordo tra M5S e PD.

All’interno del partito democratico, le posizioni su questa eventualità sono principalmente due: chiusura netta e rancorosa da un lato (dopotutto, tra le varie cose, esponenti in vista del M5S hanno apostrofato i membri del PD come “mafiosi” che “devono morì’”); e apertura al dialogo dall’altra, motivata dalla volontà di evitare un governo Lega-M5S. La direzione di ieri, pertanto, avrebbe dovuto dare una risposta collegiale a una domanda specifica: vogliamo metterci al tavolo con i Cinque Stelle?

Questo, almeno, in linea teorica. In pratica, questa domenica Matteo Renzi—che solo poco tempo fa aveva promesso di “stare zitto per due anni”—ha fatto saltare in aria il cosiddetto “forno” in diretta a Che tempo che fa, dicendo che un governo con il M5S è semplicemente “impossibile.” Luigi Di Maio non l’ha presa alla grande, e in un post su Facebook ha scritto: “Oggi abbiamo avuto la prova che decide ancora tutto Renzi col suo ego smisurato.”

Quelli più incazzati di tutti per la piazzata di Renzi, tuttavia, sono stati alcuni suoi influenti compagni di partito—anche perché, a conti fatti, l’intervista da Fabio Fazio ha reso inutile la direzione. L’attuale reggente, l’ex ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, è apparso quasi esasperato. “È impossibile guidare un partito in queste condizioni,” ha detto.

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Altre pesanti critiche sono arrivate da Gianni Cuperlo e anche dal ministro uscente della cultura Dario Franceschini, che ha definito Renzi un “Signornò” che smonta “quello che il suo partito stava cercando di costruire.”

Alla vigilia della direzione, a esacerbare gli animi ci ha pensato anche il sito senzadime.it che catalogava i membri della direzione in favorevoli o contrari alla trattativa con il M5S. Nel tentativo di spegnere le praterie incendiate del partito, il renziano Lorenzo Guerini ha redatto un documento interno per “ritrovare l’unità”, incentrato su tre punti: niente “conte interne” in direzione; lo stallo politico è colpa di M5S e centrodestra; e niente fiducia a un governo guidato da Salvini o Di Maio. Secondo le indiscrezioni, circa tre quarti dei parlarmentari avrebbero firmato il documento di Guerini. Ma le sorprese, si sa, possono sempre nascondersi dietro l’angolo.

È in questo clima sereno e rilassato, dunque, che inizia la direzione nazionale del 3 maggio. Appena arrivo al Nazareno, intorno alle tre di pomeriggio, i giornalisti e i cameraman sono già assiepati all’entrata.

All’improvviso si presentano due uomini: uno grida cose come “giustizia e verità per i popoli,” e l’altro regge un cartello verde con la scritta “Renzi come Balotelli: da promessa a sconquasso” (che sia una raffinata citazione di Silvio?). In men che non si dica, degli agenti in borghese li allontanano.

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Poco dopo, attorniato da una nuvola di cronisti, appare Gianni Cuperlo. Dalla confusione di microfoni e telecamere spuntano fuori degli elettori che lo contestano aspramente, e l’esponente dem ingaggia un duro confronto con uno di loro. Sul posto, inoltre, ci sono alcuni militanti dei circoli di Roma che esibiscono un cartellino con lo slogan “Mai con M5S” e spiegano energicamente la loro contrarietà all’accordo.

A parte queste brevi fiammate, fuori dalla sede del PD scende una calma nervosa: tutti aspettano l’inizio effettivo della direzione, e si ipotizzano gli scenari più disparati. Scambio qualche battuta con Francesca Schianchi, giornalista politica de La Stampa e collaboratrice della trasmissione Propaganda Live. “Oggi i renziani proveranno a non andare alla conta," mi dice, "anche se sia da parte dei renziani che da parte della minoranza c’è la quasi sicurezza che Renzi abbia ancora i numeri degli organi di direzione e assemblea.”

Le prime notizie dall’interno (le direzioni si tengono a porte chiuse) trapelano intorno alle quattro e mezzo. Prima della riunione, sembra che ci sia stato un incontro tra Martina e l’area renziana—un tentativo in extremis di scongiurare l’ennesima spaccatura. E a giudicare dalla relazione introduttiva, l'esito dev’essere stato positivo: il reggente, infatti, chiude le porte a "qualsiavoglia percorso" con il M5S e il centrodestra.

All’incirca negli stessi momenti, un’agenzia comunica che “si voterà la fiducia condivisa fino all'Assemblea al reggente che sposa la linea dell'ex segretario chiudendo a M5S e centrodestra.” Insomma: dopo 512.481 dichiarazioni divergenti e promesse di rese dei conti, si intravedono spiragli per una tregua; o, come la chiamano alcuni giornalisti, di una "resa" a Renzi.

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Fuori dal Nazareno, intanto, le voci sulla fine della direzione oscillano tra le 19.30 e delle tragiche 22. Nel tardo pomeriggio—mentre nel frattempo inizia a diluviare—esce però il portavoce di Renzi Marco Agnoletti, che dice: “Ancora due interventi, la conclusione di Martina e ci siamo.” I cronisti tornano ad assieparsi di fronte all’ingresso, aspettando l’uscita dei politici.

Quando questi ultimi iniziano effettivamente a uscire, sembra di stare in mezzo a una mischia di rugby. In varie dichiarazioni i democratici raccontano che, alla fine, la relazione conclusiva di Martina è stata votata all’unanimità, e i punti d’intesa del compromesso sono ruotati intorno alla “chiusura verso il M5s e il centrodestra, stop agli odi all'interno del Pd, un rischio non più velato di ritorno alle urne” e la fiducia piena al reggente fino all’assemblea (la cui data, però, non è ancora stata fissata).

In realtà, a molti osservatori l’esito della direzione è parso un modo di mettere i detriti sotto il tappeto e di non affrontare le questioni critiche emerse dal 4 marzo a oggi. Altri, dal canto loro, parlano di un partito “assediato, impaurito, avvitato su se stesso” che “si accapiglia su statuti, commi, regolamenti, modalità di conteggio” e ormai galleggia in “un’atmosfera di irrealtà, di sospensione di ogni legame con le cose di questo mondo.”

Se ci allontana dalle miserie del PD, tuttavia, ci si accorge che questa “atmosfera di irrealtà” è ormai comune a tutte le forze politiche italiane. A due mesi esatti dal voto, l’unica cosa emersa con forza è—per dirla con le parole di Marco Damilano—“la spaventosa immaturità politica” di tutti i leader, insieme alla loro “ignoranza delle regole” e all’“incapacità di portare avanti una discussione sul futuro del Paese.”

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Basta vedere il “dialogo” degli ultimi giorni tra il M5S e la Lega: un giorno c’è la disponibilità (virtuale) a “confrontarsi sui temi” per dare all’Italia “un governo di cambiamento”; il giorno dopo bisogna tornare alle urne a giugno (il che è tecnicamente impossibile) per fare un “ballottaggio”; il giorno dopo ancora la Lega è un partito di venduti a Berlusconi, e Salvini un cane al guinzaglio dell’ex Cavaliere; poi arrivano le minacce di querela; e infine, lo scaricabarile su tutti gli altri.

È evidente che, con queste premesse, è del tutto impossibile formare un esecutivo. Proprio ieri, prima ancora che iniziasse la direzione del PD, Sergio Mattarella ha convocato per il prossimo lunedì il terzo giro di consultazioni, per “verificare se i partiti abbiano altre prospettive di maggioranza di governo.” Tradotto dalla formula istituzionale, significa che il Presidente della Repubblica chiederà ai partiti “soluzioni concrete”—cioè se intendono continuare a scannarsi in televisione e sui social.

In tal caso, stando ai retroscena, per il Quirinale sarà inevitabile la “scelta solitaria”: cioè il famigerato “governo del presidente” (o “di tregua”, “per la manovra”, di “garanzia”, o “chiamatelo come volete”), che dovrebbe presentarsi “con un minimo di dignità e autorevolezza politica al Consiglio europeo” del 28 giugno.

Persino in questo caso estremo, tuttavia, non si sa se un governo del genere potrà avere i numeri in parlamento; anche perché, per l’appunto, non si vedono all’orizzonte particolari “sussulti di responsabilità nazionale.” Quella che stiamo vivendo, pertanto, è una duplice crisi: la crisi conclamata di partiti come il PD, e una istituzionale inedita e senza precedenti.

Bisognerà aspettare lunedì per capirci qualcosa. Dopo, molto probabilmente, toccherà mettersi il cuore in pace e rassegnarsi a una nuova campagna elettorale—ammesso che quella precedente sia mai finita.

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