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Chi era Sergio Marchionne, oltre il 'mito Marchionne'

L’uomo che ha salvato l’automobile italiana, o il più grande "nemico dei lavoratori"? Ne abbiamo parlato con lo storico e sociologo Marco Revelli.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Foto via Wikimedia Commons

Sergio Marchionne, amministratore delegato FCA, è morto ieri nella clinica a Zurigo dove era ricoverato in gravi condizioni. A dire la verità, la sua dipartita era stata ampiamente annunciata nei giorni scorsi e John Elkann, in una lettera ai dipendenti, aveva scritto che “Sergio non tornerà.”

Quando il manager italo-canadese è stato nominato al vertice di Fiat, l’azienda era tecnicamente fallita. In 14 anni—questo il lasso di tempo in cui è stato al comando—Marchionne ne ha ribaltato le sorti, ed è riuscito a creare una multinazionale da 14 marchi, 111 miliardi di ricavi netti, 149 stabilimenti e 236mila dipendenti sparsi in tutto il mondo. Una simile espansione è arrivata attraverso una serie di spericolate operazioni finanziarie, la fusione con Chrysler, le delocalizzazioni e la chiusura di storici stabilimenti (come quello di Termini Imerese), e un feroce braccio di ferro con sindacati e operai italiani culminato nel referendum del 2010.

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Naturalmente, e lo stiamo vedendo in queste ore, i giudizi su una figura del genere sono necessariamente divisi. Da un lato c’è una vasta schiera di ammiratori, che ne parlano come una specie di Messia aziendalista che ha rivoluzionato il modo di fare impresa—e non solo.

Dall’altro, le opinioni sono decisamente meno lusinghiere: un giornalista critico come Marco Cobianchi l’ha definito “il più grande spremitore di soldi pubblici nella storia della Fiat,” mentre altri sostengono che “ha tolto diritti ai lavoratori e portato il gruppo dell’auto via dal Paese.” E molti, negli ultimi giorni, ricordano che nell’era Marchionne la Fiat è tornata a utilizzare i famigerati “reparti confino” dove gli operai scomodi e sgraditi sono spediti a marcire.

Ma cos’è stato davvero Marchionne, per la Fiat e per l’industria? E più in generale: cos’ha rappresentato per l’Italia? È stato l’uomo che ha salvato l’automobile italiana, o colui che ha incarnato una nuova forma di “autoritarismo padronale”?

Per cercare di capirlo mi sono rivolto al sociologo Marco Revelli, professore all’Università del Piemonte Orientale, autore di molti saggi—uno di questi, uscito nel 1989, si chiama proprio Lavorare in Fiat—nonché attento osservatore dell’azienda e della parabola del manager.

VICE: Salve professore. Lei ha studiato a lungo la Fiat, e quindi le chiedo subito: cos’ha rappresentato Marchionne per l’azienda?
Marco Revelli: Per la Fiat è stato sicuramente l’uomo centrale di questo inizio secolo. Io l’ho definito “l’uomo della transizione”: dalla Fiat—e l’Italia industriale—novecentesca, a quella attuale; cioè al nuovo paradigma industriale e finanziario che ha sostituito il precedente.

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Nella vicenda Fiat, rappresenta nella forma più visibile ed esplicita, una grande innovazione. Marchionne, almeno all’inizio, ha introdotto un “dolce stil novo”: ha sostituito la pesantezza “burocratico-militare” della vecchia Fiat-caserma enormemente gerarchica con uno stile di comando e comportamento leggero, casual e informale.

All’epoca avevo scritto che Marchionne attraversava Torino—che la dirigenza Fiat di prima attraversava con le “scarpe pesanti a punta quadrata” di cui parlava Romiti—con le scarpe da tennis. Lui ha rovesciato come un guanto tutta la dirigenza e l’ha ringiovanita; inoltre, il modo con cui ha gestito la prima fase è stato quello di un grande giocatore di poker, con trovate geniali dal punto di vista della tecnica di negoziazione e delle soluzioni finanziarie. Pensiamo solo alla partita con General Motors, in cui è riuscito a farsi pagare la rinuncia ad assorbire Fiat.

Per altro verso, però, rappresenta una continuità—soprattutto nel rapporto con la famiglia Agnelli. Figure come Marchionne, infatti, ritornano: si tratta di uomini soli al comando che funzionano in qualche modo da schermo e parafulmine rispetto alla famiglia, che si può permettere di rimanere al riparo dei possibili fallimenti delle loro gestioni.

Foto di Snazzo via Flickr (CC BY-SA 2.0).

In un suo recente articolo, ha descritto Marchionne come “il manager di un’era che non esiste più.” Mi può spiegare meglio cosa intende?
Marchionne è stato l’uomo della transizione nella globalizzazione, così come l’abbiamo conosciuta dagli anni Novanta fino a ieri. Cioè come costruzione di uno spazio liscio, come transnazionalità di mercati e processi produttivi, come libera circolazione del denaro e della tecnologia e in buona misura delle merci, e così via.

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Marchionne è stato dentro quella dimensione. Non solo ha portato la Fiat fuori dall’Italia—in Olanda come sede legale, a Londra come sede fiscale, a Detroit come baricentro produttivo; ma la sua stessa vita quotidiana era quella di un apolide che viveva più in aereo da una sponda all’altra dell’Atlantico che non in un ufficio fisicamente radicato in un territorio.

Ecco: Marchionne è stato questo, nel bene e nel male. Nel bene nella misura in cui ha salvato il marchio e il capitale e le attività Fiat. E nel male, perché il prezzo molto alto di tutto ciò è stato pagato soprattutto dalle maestranze italiane.

Oggi, tuttavia, quella fase cambia. Perché quello “spazio liscio” si riempie di muri, di barriere doganali, di nuovi protezionismi, di guerre commerciali. È un altro mondo, quello che si intravede nel caos attuale. Quel tempo è finito, ecco.

Con l’operazione Chrysler e poi la creazione di FCA, Marchionne ha salvato o fatto definitivamente scomparire la Fiat?
Sicuramente Marchionne ha colto un’occasione: quella offerta dalla crisi del 2007-2008, paradossalmente. E così, nel quadro di un’industria automobilistica americana sull’orlo del fallimento, il manager ha rilevato Chrysler a costo quasi zero. Riuscendo anche a trasferire tecnologie all’avanguardia (che aveva in pancia e mancavano in America) e compensare i costi della fusione.

La vera domanda da farsi è questa: è Chrysler che si è mangiata Fiat, o Fiat che si è mangiata Chrysler? In buona misura, è l’America che si è mangiata l’Italia. Su questo non c’è dubbio: con quell’operazione, tecnologia e centralità si sono trasferite al di là dell’oceano.

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Ma Marchionne poteva fare diversamente, considerato lo stato disastroso in cui versava l’azienda?
Nelle condizioni date, no. Marchionne sostanzialmente aveva tre vincoli: il primo era la scarsità di risorse messe a disposizione dall’azionista di riferimento, la famiglia Agnelli, che non era disposto a investire nemmeno un centesimo. Gli altri gruppi familiari, come la Ford, hanno invece messo molto capitale per risollevarsi.

Il secondo vincolo era l’assenza assoluta di una politica industriale nazionale. Marchionne non aveva dietro lo Stato—a differenza di quello che è successo negli Stati Uniti sotto la presidenza di Obama. Aggiungerei, infine, un’eccessiva arrendevolezza delle controparti: gli amministratori locali, i ministri dell’industria, e una parte del sindacato che non ha fatto il proprio mestiere—quello di chiedere garanzie, di opporre alle proposte dell’impresa delle linee di resistenze.

Il conflitto fisiologico tra le parti non c’è stato. Solo la Fiom ha cercato di resistere e costringere l’impresa a mettere sul tavolo risorse aggiuntive. E questo, per un manager, non è un vantaggio.

Chi ci ha rimesso di più, secondo lei?
Pur finanziariamente geniale, quell’operazione ha avuto dei costi pesanti per la manodopera e i luoghi di insediamento. La manodopera è stata letteralmente spogliata di una serie di diritti, perché questa era la condizione posta dagli stakeholder americani per fare l’operazione. Si voleva una Fiat con condizioni di lavoro “normalizzate” rispetto agli standard molti duri richiesti dalla controparte americana. Di qui tutte le vicende che hanno investito Pomigliano D’Arco, Mirafiori, la ristrutturazione degli orari, lo scontro con la Fiom, e così via.

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Tutto questo è avvenuto a fronte di nessuna garanzia. Infatti, da allora in poi, la cassa integrazione in alcuni stabilimenti chiave è stata la regola.

Arriviamo a uno dei nodi più controversi dell’era Marchionne: quello del rapporto con i sindacati e gli operai. Come lo giudica?
Sotto questo aspetto, credo che ci siano due fasi. Nella prima, che arriva fino alla crisi dei subprime, abbiamo il Marchionne innovativo anche nei rapporti con i sindacati. Potremmo definirlo quasi un Marchionne “olivettiano,” che pensava in termini di comunità industriale nella quale gli operai e i loro rappresentanti sono coinvolti senza essere asserviti.

Poi abbiamo il Marchionne della seconda fase, quello di FCA. Cioè colui che offre agli investitori americani lo scalpo dei propri dipendenti, perché altrimenti l’operazione non si sarebbe fatta. E quindi Marchionne che si scontra con la Fiom, che fa il suo mestiere e rappresenta gli interessi dei propri dipendenti e non li vuole considerare proprietà dell’impresa.

In questa cornice arriva il duro aut-aut del 2010—o prendere o si chiude—che ha ricordato un po’ il Novecento, forse persino il capitalismo ottocentesco. Cancellava un lungo ciclo di protagonismo e soggettività dei dipendenti. Ed è quello che ha caratterizzato tutta l’epoca nella quale l’obiettivo ambiziosissimo dell’azzeramento del debito è stato realizzato schiacciando in qualche modo il piede sulla parte più debole: i dipendenti degli stabilimenti italiani.

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Cosa pensa di quella parte della sinistra italiana che glorifica Marchionne e il suo operato?
Mi viene in mente la frase di un operaio di Pomigliano: “Marchionne è stato un grande. Un grande avversario.” Di contro, questi rappresentanti estenuati di questa sinistra che non sanno più cos’è sono stati dei piccoli portatori d’acqua a un imprenditore che stava conducendo una grande partita.

Hanno completamente dimenticato chi erano, da dove venivano, quali erano i loro riferimenti sociali, quale avrebbe dovuto essere il loro compito. Ho citato per tutti Piero Fassino, che agli operai di Mirafiori posti di fronte a quell’aut-aut durissimo del referendum diceva di votare Sì. Quando invece la parte più orgogliosa di quella manodopera ha votato No.

Credo che quella sinistra, in quel momento, abbia cominciato a scavarsi la fossa nella quale è poi finita negli ultimi anni e mesi.

Per finire: che tipo di eredità lascia Marchionne?
Penso che il suo “stile di gioco” verrà studiato, entrerà nei manuali di management e non solo: per certi versi ha rappresentato davvero un unicum. Per il resto, la sua eredità è terribilmente aperta. Da uomo di transizione, la sua opera è incompiuta. Nel senso che cosa aspetta oggi FCA nel nuovo scenario internazionale è tutto da decidere.

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