FYI.

This story is over 5 years old.

Tecnologia

Ode a chi animava le scene meccaniche negli anime cult

Una carrellata di GIF piene di dettagli di tecnologie bizzarre eppure perfettamente sensate.
Giulia Trincardi
Milan, IT
Neon Genesis Evangelion. Screenshot da: YouTube

Quando pensiamo al mestiere dell’animatore tradizionale, ci viene in mente una persona china per ore su una pila di fogli, intenta a indovinare e restituire su carta la complessità della fisica dei corpi nello spazio, da ben prima che arrivassero CGI e algoritmi.

Tendiamo — in parte a buon merito — a credere che la parte peggiore di questo lavoro sia animare il corpo umano: non a caso, gran parte della storia dei cartoni animati occidentali ha fatto affidamento sul rotoscope — una tecnica che permette di “ricalcare” i movimenti registrati di un attore in una sequenza di disegni, facilitando la resa dei movimenti e delle espressioni di un personaggio. Molti movimenti della protagonista del classico Disney Alice nel paese delle meraviglia, per esempio, sono stati prima interpretati da un’attrice.

Pubblicità

Eppure, un prodotto di animazione non è composto solo da personaggi viventi: anche la costruzione del mondo inorganico che li ospita è fondamentale per l’efficacia ultima dell'opera di finzione in questione. La riproduzione di una scena puramente meccanica è un’impresa troppo spesso sottovalutata e considerata, erroneamente, come un mero riempitivo che permette di risparmiare sull’animazione dei personaggi.

“Tutte le volte che chi si occupa dello storyboard dice ‘ok, la prossima scena sono solo robe meccaniche per far vedere che succedono cose’, ogni animatore si mette ad ansimare,” commenta ironicamente sull’argomento l'autore di un thread pubblicato di recente su Twitter insieme a una magnifica carrellata di GIF animate di interfacce informatiche, robot e portelloni futuristici che si aprono e chiudono.

L’obiezione è — in effetti — particolarmente vera per un genere specifico nella storia dell’animazione tradizionale: la fantascienza. In Occidente, per quanto esistano bizzarri e legnosi esperimenti di film in animazione 2D ispirati a capolavori della letteratura sci-fi, non si può dire che la produzione di cartoni animati a tema futuristico-tecnologico sia stata florida — o, sicuramente, non paragonabile a quella a cui ha dato i natali il Giappone.

Non fraintendetemi, abbiamo una certa fissa per inventare dal nulla interfacce e dispositivi fatti di bottoni e lucine anche da queste parti; solo, non tanto in forma di cartoni animati.

Pubblicità

La storia degli anime giapponesi, invece, è costellata di pietre miliari in questo senso: dai primi mecha (anime a tema robot giganti) degli anni Settanta a serie diventate di culto un paio di decenni dopo — come Akira, Ghost in the Shell e Neon Genesis Evangelion — passando per un’infinità di titoli ambientati nello spazio o in qualche distopia fatta di androidi, esoscheletri, hacker, armi e mezzi militari ed edifici dal design folle (qualche fan del gigantesco ferro da stiro di FLCL, là fuori?), il Giappone ha saputo sempre creare mondi dotati di tecnologie coerenti a se stesse. Al punto da riuscire a suscitare negli spettatori, spesso e volentieri, quella surreale e specifica malinconia che puoi provare solo per un futuro che non hai mai visitato.

La produzione di anime di fantascienza non sembra diminuire negli anni — anzi, se fate un giro su Netflix, troverete un sacco di titoli recenti più che validi su cui fare binge-watching —, ma, per questioni di costi e rapidità, moltissimi studi ora lavorano in cell-shading. Con questa tecnica, in soldoni, si “ricopre” in 2D un modello animato prima in 3D: il risultato è ovviamente sempre una figata — ma qui, oggi, vogliamo rendere omaggio a chi immaginava e faceva funzionare a mano, foglio per foglio, scale mobili infinite, schermi di computer monolitici e interiora di robot pilotati da ragazzini turbati.

Grazie, davvero grazie.

Se conoscete qualche oscuro anime pieno di scene meccaniche allucinanti, siate carini, twittatemi il titolo!