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Le sigarette che fumiamo inquinano più di quanto pensiamo, anche prima di essere buttate

Se anche voi, come me, fumate, è arrivato il momento di chiederci se dobbiamo smetterla per salvare il pianeta.
Giulia Trincardi
Milan, IT
rafal opalski unsplash pausa sigaretta
Persona che fuma. Foto di Rafał Opalski via Unsplash

Ciao, fumatori. Dobbiamo parlare.

L’estate è di nuovo qui e—come ogni anno—si parla molto di mozziconi di sigaretta abbandonati in giro, soprattutto in spiaggia. Questo mese, la foto di un becco a cesoie americano (una sorta di gabbiano molto grazioso) che propina in pasto al proprio cucciolo l’avanzo di una sigaretta ha fatto il giro del mondo—e a buon merito: è un’immagine piuttosto straziante, che simboleggia perfettamente l’impatto dell’uomo su ciò che resta della natura.

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Eppure, ho appena fumato una sigaretta prima di mettermi a scrivere questo pezzo. Certo, non l’ho buttata in spiaggia (portatevi un posacenere in giro, su, è davvero facile), ma l’ho fumata. Questo è stato un anno di generale presa di coscienza sulle questioni ambientali per moltissime persone e, almeno per me, la riflessione si sta estendendo anche all’impatto che—dalla produzione allo smaltimento—hanno le sigarette.

Il punto è: non mi interessa convincere nessuno a smettere di fumare (sarebbe piuttosto ipocrita), ma ho il sospetto che, almeno in parte, il motivo per cui tanti di noi non smettano di fumare ha dei paralleli significativi con il motivo per cui per molti la crisi climatica non sta stimolando una rivoluzione costruttiva, bensì il più totale immobilismo. E di questo dobbiamo parlare.

Ma partiamo prima da un po’ di dati su quanto effettivamente c’entrano le sigarette con il cambiamento climatico.

Il fumo fa male, lo sappiamo tutti. Non è invece altrettanto risaputa (o ribadita) l’impronta ambientale dell’industria del tabacco. Uno studio condotto dall’Imperial College London e pubblicato su Environmental Science & Technology nel 2018, ha riassunto i dati relativi per esempio a quanta acqua e terreno consuma e a quante emissioni di CO2 rilascia in atmosfera.

Nel 2014—anno su cui si concentra lo studio—sono stati prodotti 6.000 miliardi di sigarette nel mondo, ricavate da 6,48 milioni di tonnellate di tabacco secco, a loro volta derivate da 32,4 milioni di tonnellate di tabacco verde (cioè la pianta coltivata, non ancora lavorata). La coltivazione delle piante di tabacco annuale, specifica lo studio nell’introduzione, produce 84 milioni di tonnellate di CO2, che equivalgono allo 0,2 percento delle emissioni globali.

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Per essere prodotta, “è stato dimostrato che una sigaretta in media consuma 3,7 litri d’acqua,” spiega lo studio, e richiede il consumo di combustibili fossili equivalenti a 3,5 grammi di petrolio. Non sembra molto, finché non moltiplicate queste cifre per i 6.000 miliardi di sigarette prodotte in media all’anno che citavamo prima.

L’altro aspetto significativo evidenziato dallo studio è il consumo di suolo: “il consumo totale di terreno coltivabile [usato per la coltivazione del tabacco nel 2014] corrisponde a 4 milioni di ettari” e comporta ogni anno un enorme consumo di acqua e di pesticidi, nonché processi di deforestazione. “La catena produttiva globale del tabacco ha immesso [nel 2014] oltre 19 milioni di tonnellate di 1,4-diclorobenzene equivalenti,” spiega il documento, “e immesso quasi 500.000 tonnellate di 1,4-DB eq nei corsi di acqua dolce e negli ecosistemi marini.” Il 1,4-DB è un composto antiparassitario ora illegale, ma la dicitura “equivalenti” viene usata come unità di misura per parlare di un insieme di sostanze che sono altamente tossiche per gli esseri umani.

Infine, per quanto la produzione di tabacco sia presente in molti paesi (Italia compresa), lo è in misura massiccia soprattutto in Cina, India, Brasile e parte delle nazioni dell’Africa sud-orientale—dove rappresenta una fonte economica superiore ad altri tipi di coltivazioni. In Tanzania, per esempio, vengono disboscate zone sempre maggiori per coltivare tabacco, perché il suolo povero di nutrienti non sopporta più di un paio di cicli di questa pianta molto esigente. In totale, considerato anche il legno bruciato per ricavare energia per i trasporti e la cura della pianta, solo in Tanzania, nella zona circostante Kipembawe, sono abbattuti oltre 4000 ettari di boschi ogni anno. E, per quanto dall’alto sia difficile determinare per cosa siano utilizzati gli appezzamenti ricavati tramite disboscamento e visibili nella zona, dalle immagini satellitari è certo che il processo si sia aggravato negli anni.

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La zona di Kipembawe in Tanzania. Le immagini di Google Timelapse mostrano come il territorio è stato modificato drasticamente dal disboscamento, parte del quale legato alla coltivazione del tabacco. Immagini via: Google Timelapse.

Ai danni ambientali vanno poi aggiunti quelli alle persone che lavorano i campi, spesso minorenni, senza le protezioni necessarie. Eppure, coltivare tabacco resta spesso l’alternativa migliore in termini economici per queste comunità, essenzialmente perché resta un prodotto altamente richiesto. Un po’ come in Colombia, per molte famiglie, coltivare le foglie di coca è l’unico modo per guadagnare abbastanza da sopravvivere.

Ma, esattamente come la cocaina—che a sua volta ha un impatto ambientale devastante—il tabacco è un prodotto privilegiato, il cui consumo avviene in larga parte nei paesi sviluppati; eppure la sua produzione pesa quasi totalmente su quelli in via di sviluppo.

Infine, una volta prodotte, impacchettate e consumate, le sigarette devono essere smaltite: dei circa 6.000 miliardi di sigarette prodotte ogni anno (circa 900 per essere umano), 4.500 miliardi hanno filtri non biodegradabili che, una volta buttati, rilasciano circa 600 sostanze chimiche diverse nell’ambiente—e se quell’ambiente è una spiaggia occupata da gabbiani graziosi o un altro pezzo di natura, il danno è ovviamente ancora più significativo, perché va possibilmente a incidere su un intero ecosistema.

Per cui, a questo punto, dobbiamo smettere di fumare per salvare il pianeta? Di certo, dobbiamo assumerci la responsabilità di un’attività che non riguarda—come già sapevamo—solo la nostra salute personale. Poi? Poi, forse dobbiamo chiederci perché fumiamo. E perché—esattamente come con il macro problema del cambiamento climatico—cambiare le nostre abitudini sembra un’impresa impossibile.

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Se ci pensiamo, in entrambi i casi, la leva più comunemente usata è il senso di colpa: il fumo fa male a te e ai tuoi cari, smetti di fumare—e guarda questa foto di una donna triste che fuma mentre una donna felice abbraccia un neonato; produci troppa immondizia, stai uccidendo il pianeta—e guarda la foto di un cetaceo morto pieno di plastica. Pur essendo a livello concettuale tutto molto condivisibile, non è una leva che funziona, essenzialmente perché—come spiegato bene in questo video di Climate Lab—la vergogna porta le persone a nascondersi, non per forza a cambiare atteggiamento.

Ciò che dobbiamo fare, piuttosto, è capire come hackerare un bisogno falso.

Almeno per me, in entrambe le situazioni—tanto lo smettere di fumare quanto l’affrontare la crisi climatica in atto—prevale al momento un senso di estremo nichilismo, per cui, nel profondo, c’è una voce catastrofista che mi dice tanto che cazzo cambia, moriremo tutti a breve, non avrai mai la pensione, goditi la vita finché puoi. E già ammettere questa cosa mi costa tantissimo, credetemi. Ma eccomi qui, che cerco di disinnescarla ogni dannato giorno. In realtà, quella voce è falsa, o, almeno, è falsa l’equivalenza per cui se le cose vanno male, è concesso abbandonarsi al nichilismo più estremo.

Ciò che dovremmo fare è domandarci quale altro sistema sia possibile, per quanto ci possa sembrare assurdo. Legalizzare l’erba o—se non altro—permettere la coltivazione e il consumo di quella a basso contenuto di THC e sostituire il tabacco con essa per le persone a cui piace proprio fumare? Perché no. Pensare a produrre in modo sostenibile sostanze oggi illegali che—tanto—le persone consumano comunque, con una specie di Slow-food della droga? Perché no. Convertirci tutti all’ecosocialismo? Perché no.

Continuare a fumare, quando il danno provocato dall’industria del tabacco va molto oltre i propri polmoni, non è un’azione vergognosa—è una azione che denuncia soprattutto una mancanza di creatività. E, in questo momento storico, la creatività potrebbe essere l’unica via di scampo alla fine del mondo. Pensiamoci.

Segui Giulia su Twitter: @juljackalope