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"Sono stati morti" in troppi

Intervista a Maurizio Cartolano, autore del documentario "148 STEFANO Mostri dell'inerzia", sul caso Cucchi e oltre.

Nel corso di questa settimana è stata emessa la sentenza di primo grado per gli imputati nel cosiddetto “caso Cucchi”, ovvero quello che dovrebbe chiarire le responsabilità che hanno portato il 31enne romano a morire mentre era sotto la tutela dello Stato. La verità, senza stare qui a fingere troppe imparzialità “giornalistiche” che non ci appartengono, è che Stefano è stato ammazzato di botte, con buona probabilità da parte della stessa polizia carceraria che è stata invece salvata da questo primo giudizio.

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Ancora una volta una sentenza che conferma come lo Stato non abbia la minima intenzione di fare chiarezza su episodi in cui i membri di un organismo tecnicamente preposto al servizio e alla protezione dei cittadini finisca per rendersi colpevole di una brutalità cieca e gratuita, che sorpassa anche l’autoritarismo repressivo per finire in un’atmosfera di scontro caotico, diretto e immotivato. Ma a fare ancora più schifo è anche il bigottismo patetico con cui si tenta di scavalcare un cadavere persino meno importante degli altri: quello di un presunto tossico che in quanto tale si sarebbe volontariamente privato di diritti e dignità.

In questa occasione abbiamo scelto di interpellare Maurizio Cartolano, regista del documentario 148 STEFANO. Mostri Dell’Inerzia, non tanto per parlare del film quanto di tutti i fatti che gli stanno dentro e intorno, della dimensione umana e sociale che questi possono assumere, e di come un documentario possa contribuire a formarla.

VICE: Come è nata l’esigenza di fare questo documentario e come hai iniziato a lavorarci?

Maurizio Cartolano: Ho iniziato a pensare a questo lavoro per un motivo molto semplice: l’indignazione. Sono stato indignato davanti a un fatto di cronaca che ho vissuto non come professionista ma come semplicissimo cittadino che si trova di fronte a un fatto di evidente travisamento di qualunque senso civile—cioè, era chiaro fin dall’inizio che la faccenda di Cucchi doveva essere in qualche modo insabbiata. Siccome sappiamo tutti che nel nostro Paese esiste un sistema che tende a far sì che quando qualcuno di debole, che magari ha avuto a che fare con la droga, è in una situazione di reato, metà della popolazione ha questo sentire assurdo, confermato anche dall’ex-ministro Giovanardi, che se gli accade qualcosa se l’è cercata.

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C’è anche chi non la pensa così: il fatto che sia stato trovato in condizione di reato non giustifica quello che è successo al povero Stefano mentre era sotto la tutela dello Stato. Percosse con evidenti fratture vertebrali, deperimento organico… fino alla morte, avvenuta in un ospedale carcerario. Io mi schiero semplicemente dalla parte di chi pensa che questo non sia assolutamente degno di un paese che si possa definire civile. Ecco, questo è stato l’inizio. Le ragioni sono tantissime ma l’inizio del lavoro è stato questo.

Mi collegherei subito a quello che hai detto sulla mentalità italiana in fatto di droga e tossicodipendenza. Di cosa pensi che sia figlia questa forma di non-empatia?

Nel documentario ne parlo: esiste un problema di stigma. Chi assume sostanze stupefacenti vive in una condizione di stigma che si manifesta con un rifiuto immediato. È una cosa molto difficile da analizzare, ma c’è comunque sempre un pregiudizio stigmatizzante alla base. A Stefano è successo questo, è stato sfortunato.. anzi, dire “sfortunato” di una persona che ha perso la vita è forse fin troppo ingiusto.

Però si può parlare di una sfortuna nella sfortuna: lui era un ex-tossicodipendente, nessuno ne ha mai fatto mistero, aveva vissuto in una comunità in cui si era ripreso dalla dipendenza. Lavorava con il padre come geometra, aveva una casa sua e non aveva problemi di soldi. Finisce arrestato, va in caserma e per loro torna immediatamente lo Stefano di prima, un tossico stigmatizzabile. Nessuno si accorge che nel frattempo si è fatto una vita normale. Questo fa sì che durante il processo per direttissima—è scritto anche negli atti—il pubblico ministero non lo guardi neanche in volto. Era già stato pestato il giorno dopo dell’arresto, perché tanto il concetto era che lui fosse uno dei tanti tossici che finivano in carcere. Non era vero, non c’è stato modo di andare oltre questo luogo comune che ha fatto sì che la sua situazione degenerasse fino al pestaggio e al fatto che gli venisse proibito il trasferimento in un ospedale normale. Lo hanno tenuto in un ospedale carcerario al riparo dagli occhi del pubblico, cioè ovviamente dei familiari. Il paradosso è che lo Stato invece di proteggerlo ha protetto quelli che avevano commesso un reato nei suoi confronti. Non so se si è capito…

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Certo che sì.

Ecco, esiste un livello in cui lo Stato, chiamato a giudicare se stesso, diventa omertoso. Questo provoca una reazione molto scontata nel senso comune, che è quella di dire che se non si trova il colpevole che ha preso a calci un ragazzo molto esile fino a spezzargli la schiena, è tutta l’istituzione ad essere colpevole. Non è un caso che i medici siano stati gli unici condannati in questo processo, come peraltro sapevamo già tutti, perché sono una categoria indifendibile. I cittadini a quel punto penseranno che è tutta la polizia penitenziaria ad essere colpevole. Se invece si trovassero nomi e cognomi dei colpevoli, finalmente riusciremmo ad assolvere il nostro compito.

Io non ho fatto questo documentario perché sono contro lo Stato, al contrario penso che ci sia uno Stato che difende i cittadini tramite le forze dell’ordine, che esista un’istituzione sanitaria che difende con le cure la comunità: voglio difendere lo Stato onesto e lo posso fare solo se si trovano i colpevoli. La sentenza che c’è stata certifica proprio questa omertà: i carabinieri non sono neanche nell’inchiesta, la polizia penitenziaria non ha toccato nessuno, la colpa è solo dei medici che sono indifendibili.

Locandina di 148 Stefano

Ma episodi di abusi del genere negli ultimi sono davvero fioccati, soprattutto nei confronti di ragazzi giovani, magari anche in condizioni effettive di reato. Pensi che manchi un vero e proprio senso della dignità e dei diritti del colpevole, o in generale di chi si trova ad avere a che fare con le forze dell’ordine?

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Nel caso di Stefano e degli altri, Aldrovandi, Ferrulli, Uva, c’è un problema che coinvolge la società civile: un tentativo evidente di non comunicare i fatti. Senza la notizia il fatto non esiste, e questo è stato fatto in tutti i casi. C’è un grosso problema di ricezione del crimine molto prima che si possa fare giustizia, le notizie non arrivano perché si fa in modo che non se ne parli. Questo limita evidentemente la possibilità di presa di coscienza dei cittadini. Io penso semplicemente che all’interno delle forze dell’ordine ci siano luoghi dove si commettono dei crimini, e credo che sia fondamentale combatterli. Molto passa dall’opinione che ci si forma nei confronti di questi fatti: io faccio un documentario, dura 60 minuti, racconto dei fatti in una certa maniera e la presa di coscienza che la gente può avere, se io sono in grado di comunicare quello che ho pensato, può trasformarsi in azione.

Ci si trasforma sempre in partigiani di una parte e dell’altra, su internet soprattutto, ma è difficile che la chiacchiera si traduca in azione concreta. 

Purtroppo le cose non sembrano trovare una maniera facile di risoluzione. Per fare un altro esempio, prima del caso di Stefano avevamo vissuto quello della morte di Federico Aldrovandi. In quel caso la verità non è venuta fuori grazie ad un’azione di indignazione civile, ma per puro caso: una testimone oculare che era extracomunitaria e per questo aveva paura di parlare, a distanza di anni ha detto di avere visto tutto. A quel punto poi il caso ha preso quella piega “fortunata”. Durante il processo stavano dicendo che era morto per avere sbattuto volontariamente la testa contro un palo e contro la macchina della polizia. Come si fa a trovare una presa di coscienza comune quando i fatti vengono occultati in questo modo? Federico non era neanche nelle condizioni di finire stigmatizzato come Stefano.

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Non che non ci abbiano provato…

Certo, ci hanno provato, ma non aveva questo tragico bollo che tutta l’opinione pubblica, compresa quella che sta ai vertici istituzionali, tende a usare troppo facilmente. Giovanardi ha detto che era un tossico, che aveva l’AIDS—non è vero—che se l’è cercata e la sua vita lo ha portato ad essere ridotto a uno zombie. Sentenze che nemmeno il tribunale dell’inquisizione.

Poi c’è chi ha accusato la famiglia di stare marciando sulla vicenda, cavalcarla per secondi fini.

Penso sempre che questi strumenti si colleghino al tentativo di non informare; quando tu non puoi più evitare di informare, manipoli l’informazione. Ricordo che Alfano all’epoca disse “io mi occuperò personalmente di questo caso"—la mia parte politica farà il suo che diventerà il vostro. Questo puntualmente non accade, non se ne parla più e poi quando se ne parla se ne parla male. La famiglia viene usata perché se temi che possa dire delle verità fai in modo di colpevolizzarla. Nel documentario è accennato che nel processo gli imputati, molto spesso, sembravano loro e non chi lo aveva ucciso. Succedevano delle cose paradossali tutte funzionali ad allungare i tempi di riflessione della gente e fare in modo che tutto cadesse nel dimenticatoio. Per dire: Stefano aveva un cane a cui era molto legato. È anche la prima inquadratura del documentario, il cane di Stefano. Durante il processo qualcuno prese la parola chiedendo dove fosse questo cane. Immagina l’importanza di quella domanda all’interno del processo. I genitori e la sorella basiti risposero “Be', lo abbiamo dato alla zia.” Al che: “Ah, ecco, Stefano ha detto che il cane era la cosa più cara che aveva e voi lo avete abbandonato, ve ne siete fregati del cane come ve ne siete fregati di Stefano.”

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È stato difficile rapportarsi con la famiglia Cucchi, farli parlare delle loro esperienze?

Con la famiglia ho tuttora un rapporto molto stretto, anche i produttori del documentario, ci sentiamo regolarmente, anche prima della sentenza. Fin dall’inizio abbiamo avuto un rapporto di grandissima fiducia. Ci siamo mossi ovviamente con cautela, cominciando a parlare prima con Ilaria poi con i genitori in maniera assolutamente informale. Abbiamo capito subito che il loro bisogno di verità era già diventato parte del nostro documentario. Quando gli si nomina la possibilità di fare qualcosa per Stefano, loro immediatamente dicono sì e ci si dedicano in tutti i modi. Ho capito subito che chiunque li avesse conosciuti avrebbe sentito il bisogno di fare qualcosa per loro, sono una famiglia straordinaria, molto unita.

Fare un documentario più di inchiesta, giornalistico non era molto nel mio stile e sarebbe “scaduto” in fretta, perché il processo era appena iniziato, per cui ho deciso di farlo su un piano che la conoscenza della famiglia Cucchi mi ha istantaneamente ispirato: quello emotivo. Davanti a Ilaria, Rita e Giovanni che parlavano di Stefano ho capito che una storia già era quella, una dimensione personale emozionale. Non ci sono domande in campo, io non sono in campo: tutte le persone che hanno vissuto questa vicenda la raccontano liberamente. È solo una delle storie di Cucchi che si possono raccontare.

Leggendo la cronaca però sembra che la mentalità e le modalità delle forze dell’ordine non siano quasi mai difendibili, sembra difficile mantenere fiducia nello Stato, perlomeno in assenza della volontà dello Stato stesso di intervenire sull’argomento.

Ma guarda che in realtà le forze di polizia europee hanno un codice deontologico scritto e pubblico. Basterebbe che fosse rispettato e non ci sarebbe bisogno di stare qui a discutere del perché queste cose succedono. Sappiamo con fermezza che la polizia non deve uccidere a calci spezzando la schiena o a ginocchiate come nel caso del povero Federico. Queste cose nel codice ci sono scritte, basterebbe che fossero rispettate. Dovrebbero essere ribadite e basterebbe che quando queste cose succedono fossero perseguite. Non c’è bisogno di inventare delle nuove leggi, non so se mi spiego.

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