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Tecnologia

Quando il dolore diventa virale

La passione del web per la sofferenza spesso ha dei risvolti molto pericolosi
Immagine: Shutterstock

Come in molti racconti, tutto inizia con un bambino malato.

Tra le ultime notizie ci sono due storie che provano quanto sia “virale” il potenziale del dolore. La prima vicenda è quella di Victoria Wilcher, la bambina di tre anni sopravvissuta all'attacco di un pitbull, a cui è stato chiesto di uscire da un KFC perché le sue cicatrici “spaventavano i clienti”. Il racconto si adatta perfettamente ai social media: accosta il tuo odio contro l'enorme catena di fast food alla vittima bambina e condividi tutta tua indignazione su Twitter e Facebook. È emersa poi una seconda versione della storia: dopo alcune indagini è stato chiarito che l'intero racconto non era che una bufala.

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Qualsiasi fossero le intenzioni dei genitori, probabilmente sapevano che la figlia avrebbe attirato l'attenzione del web. La sua storia coincide con un'altra, molto più inquietante: quella di Garnett Spears, un bambino di cinque anni morto lo scorso gennaio per avvelenamento da sodio. Sua madre ha tenuto un blog sull'esperienza di affrontare la malattia del figlio da single, facendo post online fino al giorno della morte del ragazzino. Recentemente la donna è stata convocata in tribunale con l'accusa di averlo avvelenato, un reato di omicidio di secondo grado probabilmente motivato dalla sindrome di Munchausen per procura.

Le persone fanno molte cose strane per attirare l'attenzione su internet. Insegnano al proprio gatto a suonare la tastiera. Mettono su Instagram gli scontrini di ciò che hanno bevuto. Ma le due vicende citate fanno parte di un'altra categoria di prodezze che circolano in rete: quelle che influiscono direttamente sul corpo. Si collocano in un trend recente di pratiche che includono bufale sul cancro, i racconti di riabilitazioni fittizie, e gravidanze isteriche favorite dalla rete. Tutto questo è incoraggiato dall'avvento della solidarietà virtuale, l'epoca del crowdfunding e dell'attivismo con un click. Titoli di testa di Upworthy e giustizia sociale twittata.

E dato che Internet prospera grazie al fattore shock, con post e reazioni che non verificano la fondatezza di niente, la sindrome di Munchausen per procura viene praticamente incoraggiata. Questo tipo di auto-realizzazione patologica è così diffuso che gli è stato dato un nome: sindrome di Munchausen da Internet—la ricerca dell'attenzione online attraverso la simulazione di una malattia—e sono molti gli appelli affinché venga aggiunta al DSM.

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I blog che riproducono il corso delle malattie mortali guadagnano un seguito. Clicchiamo su condizioni di vita estreme, flirtiamo con la morte e con l'orrore più assoluto per mezzo di un apparecchio elettronico.

Il blog della Spears (scarsamente visitato) è commovente da leggere. Emula attentamente la retorica della madre che tiene un blog, assume un tono allegro e stereotipato che sappiamo essere artificiale. Allo stesso modo il suo Twitter è pieno di frasi affettuose col punto esclamativo in cui dice quanto ami suo figlio: la Spears definisce se stessa come “GarnettMommy”, definendo, per estensione, se stessa con la malattia del figlio. Adesso è accusata di aver inventato la figura del padre di Garnett, che sarebbe morto in un incidente d'auto, di aver inventato un altro figlio morto prima della nascita di Garnett e di di aver “preso a prestito” il figlio di un'amica per impersonare il fratello di Garnett. Alcune testimonianze riportano che la donna è stata vista scattare foto da condividere su Facebook a Garnett sul letto di morte giorni prima che morisse, e la gran parte dei dibattiti riguardo la donna sono d'accordo nel definirla una “social media )mommy)”, ossessionata dallo sfruttamento del figlio per attirare l'attenzione.

Il caso porta a considerare quanto sia estesa la richiesta di compassione online, e quanto il dolore fisico sia diventato una sorta di merce di scambio per Internet. Quanto spesso ci viene chiesto di pregare per delle persone, per dei luoghi o dei fatti sui social media? Quante volte al giorno su Facebook vengono fuori storie di persone o animali che hanno la meglio su problemi di natura fisica?

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Due anni fa seguivo il Tumblr di una ragazza che soffriva di anoressia, le cui foto in ospedale mentre era tenuta in vita artificialmente sono state ripostate migliaia di volte. Ha tenuto poi il diario della guarigione nei mesi seguenti, la sua battaglia per rimparare a mangiare e sentirsi sicura del proprio corpo: dopo circa un anno sembrava di nuovo felice, e ha iniziato a postare frasi motivazionali e foto della sua colazione. Senza la tragedia e la sofferenza era noiosa, quindi ho smesso di seguirla.

Non mi sento colpevole per aver smesso di seguirla, e neanche di aver iniziato a seguirla all'epoca—fondamentalmente si tratta di un blog di “guarigione”, di una comunità che continua a esistere su Tumblr anche dopo i provvedimenti sui contenuti pro-anoressia. La verità è che solo i blog che riproducono la malattia in tutta la sua gravità attirano un seguito.

Clicchiamo su condizioni di vita estreme, flirtiamo con la morte e con l'orrore più assoluto attraverso un mezzo elettronico. Seguiamo queste persone per essere testimoni della sofferenza: tutto ciò che avviene dopo è irrilevante.

Il fascino che il dolore e la sofferenza esercitano su di noi fa sì che diventino un'esca per i click, un nuovo tipo di “cultura della ferita.”

Internet tenta sempre di rendere se stesso fisicamente tangibile, comprendendo tutto, dall'istruttore di palestra che ti assicura che anche lui prova dolore, ai selfie in ospedale, ai sex toy Arduino e i teledildonic allo stesso modo in cui una blogger di makeup su YouTube prova i prodotti sul suo polso per renderli in qualche modo più “reali”, così il dolore fisico deve essere scritto sulla carne. Le meme di YouTube come la cinnamon challenge e le NekNomination sono abbastanza trascinanti perché c'è la vera e reale possibilità che finiscano (e effettivamente finiscono) terribilmente male. Corpi costruiti grazie a Internet come la Barbie Umana o Zyzz, vittima di abuso di steroidi, sono meme viventi troppo estreme per sopravvivere nella vita reale, per sempre sull'orlo del collasso perché sostenuti solo dai post.

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La sofferenza rende gli abitanti di Internet più reali e umani. I membri dei forum sulla salute) mettono la loro diagnosi e i dosaggi dei medicinali accanto al proprio nome: la malattia diventa un hashtag personale. Visti i costi dell'assistenza sanitaria in America e lo stigma a cui una diagnosi può portare, non sorprende che la malattia funzioni come un nuovo genere di tribalismo sociale. Le storie che parlano delle conseguenze della malattia, come The Big C, Colpa delle Stelle o anche Breaking Bad collegano indistricabilmente la malattia all'eroismo.

Questo tema asseconda anche la nostra ipocondria. È stato scritto molto sul fascino ipnotico di Web MD, un buco nero di ipocondria virtuale, che porta i lettori a credere ogni volta di avere tre tipi di cancro diversi e la gotta. Sono caduta in questa trappola anche io per buona parte dell'anno in cui prendevo antidepressivi, passavo più tempo a cercare gli effetti collaterali dei miei farmaci che a concentrarmi sul mio benessere.

I racconti delle malattie sono una versione alla luce del sole del porno con torture, una momentanea fitta di dolore “reale” provata dall'azione irreale di cliccare. Il fascino che il dolore e la sofferenza esercitano su di noi fa sì che diventino un'esca per i click, un nuovo tipo di “cultura della ferita”. Vediamo le esagerazioni di Internet scritte sul corpo nell'esempio dei fan di Justin Bieber autolesionisti e nella popstar che si rade i capelli per auto-punirsi, facendo diventare Internet un luogo di scambio di sofferenza. Concentrandosi soprattutto su vittime giovani e donne, questo antico istinto emerge ovunque, dalle prostitute francesi malate di tubercolosi, ai figli condannati, a racconti della miseria e film di successo centrati sul cancro. Si conferma la massima di Edgar Allan Poe, secondo cui “la morte di una bella donna è, senza dubbio, l’argomento più poetico nel mondo.”

Internet non può sapere ciò che accade sotto la vostra pelle, e i social media raramente raccontano l'intera vicenda della vita di una persona. Che ne avessero l'intenzione o no, mettendoli online i genitori di Victoria Wilcher e Garnett Spears hanno reso i corpi dei loro figli proprietà comune. Il blog della madre di cui sopra è particolarmente inquietante: racconta del bambino in una fiction di malattia terminale, diventando tanto “più autentico” quanto più il soggetto si avvicinava alla morte.

Nella fascinazione di Internet per la malattia, più le sofferenze si avvicinano alla fine, più il soggetto diventa famoso. La guarigione segna una finale soddisfacente al racconto della malattia, ma la morte è l'ultima perturbazione, e offre una popolarità in cui il medium digitale si confonde con la spiritualità.

Di solito usiamo i social media per rimodellare noi stessi, ma coloro che fingono di essere malati terminali sui social media spostano questa opportunità data dalla rete in un territorio pericoloso. Fa diventare Internet interiore, convertendo il bisogno di esagerazioni e di cambiamenti rapidi in danno fisico e personale. La malattia è l'originario argomento “virale”, perché la sofferenza farà sempre notizia.