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Tecnologia

Ecco Octobot, il robot morbido e autonomo di Harvard

Squish.
Immagine: Ryan Truby, Michael Wehner, and Lori Sanders/Harvard University

Dei ricercatori dell'Università di Harvard hanno sviluppato un robot morbido completamente autonomo. Il cosiddetto octobot (importante: italianizzabile in polpobot) descritto recentemente nel journal Nature è, a quanto pare, il primo della sua specie. Il bot sembra uno strano ragno trasparente. e un giorno potrebbe viaggiare liberamente nei nostri corpi, impegnato a diagnosticare malattie e problemi in arrivo.

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I robot, per come normalmente li concepiamo, sono macchine rigide e "statiche". Hanno cavi, staffe e circuiti integrati. Il robot umanoide, per quanto la retorica sul genere si sprechi, sotto la superficie non sarebbe altro che un'accozzaglia di tecnologie che potrebbero perdere olio o fare scintille. La biologia, la naturalezza, è qualcosa di molto più profondo.

Questa premessa pone delle limitazioni piuttosto serie quando si tratta di interagire con sistemi effettivamente biologici, che in generale sono molto morbidi e soffici. Ma creare robot di questo tipo è una bella sfida. Gli ingegneri, però, sono riusciti a tirare fuori delle soluzioni sorprendenti—dai soffici pesci robotici e caterpillar bot rotolanti—ma che soffrono tutti del limite della presenza di un sistema di controllo robotico rigido e/o di una fonte di energia. Si tratta di ibridi robot morbidi, al massimo.

"In ognuno di questi casi, questi robot o sono necessariamente collegati ad altri sistemi oppure devono trasportare dei sistemi rigidi per la gestione e il controllo dell'energia, diventando così degli ibridi di sistema morbidi-rigidi," scrive Robert Wood, fondatore dell'Harvard Microbiotics Lab e autore principale dello studio.

In generale, i robot morbidi si muovono e vengono manipolato attraverso delle variazioni di pressione. Puoi immaginare un robot morbide di qualunque tipo come una serie di piccole camere collegate da dei canali. Quando viene richiesto l'utilizzo di una certa appendice, un "sottolivello" di camere vengono pneumaticamente gonfiate, generando così il movimento desiderato. Il set di movimenti e di attuazioni che possono essere messe in atto è fondamentalmente infinito.

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E così è: questi robot, nei liberi imposti dalla loro energia e dai loro sistemi di controllo, sono liberi. I robot morbidi hanno bisogno di una fonte, per questa pressione, ed è a questo punto che saltano fuori le novità. Semplicemente, l'octobot genera da sé la pressione necessaria a farlo funzionare. È integrato. Si tratta di un carburante monopropellente—un composto chimico che, quando viene esposto a determinate condizioni, si rompe e rilascia energia molto rapidamente sotto forma di gas caldi.

"La rapida decomposizione [dei monopropellenti] in gas quando esposti a un catalizzatore offre una strategia alternativa per fornire energia a sistemi robotici morbidi che risolve la necessità di batterie o di fonti di energia esterne," scrivono Wood e il resto del team.

Nel cuore dell'octobot c'è un circuito microfluidico soffice. Immagina un chip informatico munito di valvole, anziché switch logici. Il compito del circuito è di ricevere un flusso di monopropellente e di distribuirlo alle camere necessarie per gonfiarle e generare il movimento. Qui sotto un video esemplificativo:

Per ora si tratta dell'unico movimento disponibile. "La realizzazione di un robot morbidi autonomi richiede l'integrazione materiali e funzionalità diverse, come nel caso dell'attuazione, dell'energizzazione e dei processi logici," scrivono gli ingegneri italiani Barbara Mazzolai e Virgilio Mattoli, in un commento separato su Nature. "L'octobot rappresenta il sistema più base a dimostrazione della funzionalità di questo approccio."

In altre parole è una prova del concetto. Ciononostante, è anche un bel punto di partenza per far viaggiare l'immaginazione. Oltre che le sue applicazioni in ambito sanitario, immaginiamo questi morbidi robot scivolare agili in missione ricerca e soccorso, in missioni di esplorazione e in miriadi di operazioni industriali in cui il pericolo rende indispensabile sfruttare le loro appendici soffici. L'octobot di Harvard, probabilmente, non sarà particolarmente utile in queste situazioni, ma possiamo immaginarci un futuro octobot, più sofisticato, capace di effettuare azioni più complicate e dunque attuare compiti più pratici.