Per una settimana ho lasciato che  Gmail rispondesse ai miei colleghi al posto mio
Illustrazione di Pierre Thyss.

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Attualità

Per una settimana ho lasciato che Gmail rispondesse ai miei colleghi al posto mio

Attenzione: il sistema scoraggia ogni istinto di ribellione.
Paul Douard
Paris, FR

Come accade a circa il 50 percento dei lavoratori a cui un giorno sono state promesse delle responsabilità, il mio principale compito quotidiano è rispondere a decine di mail inutili. Sull'orlo dello sfinimento, un giorno ho deciso che ne avevo abbastanza e che dovevo liberarmi da questo fardello orribile. Come Stanley Milgram o Philip Zimbardo, ho deciso che anche io avrei fatto progredire le scienze sociali svolgendo degli esperimenti psicologici su esseri umani innocenti, in questo caso i miei colleghi.

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Da qualche mese una nuova funzione di Gmail ha catturato la mia attenzione: si tratta della cosiddetta "Smart Reply", o risposta rapida. Alla fine di ogni mail, il sistema ti mostra tre possibili risposte tra cui scegliere. A quel punto, non devi fare altro che cliccare sulla risposta prescelta per risparmiarti la fatica di rispondere a ogni persona che ti chiede di fare cose, controllare cose, rivedere cose. In base al contenuto del messaggio, il sistema propone delle risposte pertinenti, che in genere vanno da "Ok, capito!" a "Perfetto, grazie mille," passando per il classico "Ricevuto, grazie."

Il mio esperimento diabolico è deciso: per una settimana non userò altro che il risponditore automatico di Gmail per interagire con i miei colleghi.

La prima giornata di utilizzo intenso mi sconvolge, è davvero facilissimo comunicare con tutti grazie al sistema automatico. La maggior parte delle mail che ricevo necessitano solo di risposte semplici tipo "Sì," "No," e "Ok". Il sistema mi permette di risparmiare tempo e aumentare la concentrazione. Già mi vedo, tra qualche mese, un vate della produttività. Con i colleghi anglofoni è ancora più semplice, la desolante povertà della loro lingua mi permette di rispondere sempre "Ok" e sembrare comunque una persona intelligente. Tra l'altro mi pare che il sistema non alteri poi molto le mie risposte abituali, già abbastanza fredde e automatizzate di loro.

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Dopo tre giorni interi, l'unica a rendersi conto che c'è qualcosa che non va è la mia collega Gwendoline, quando rispondo "GRAZIE MILLE!" alla sua domanda "Dove mangi oggi a pranzo?" Dal canto mio, inizio a sentirmi strano. Senza rendermene conto, una vaga gioia di vivere si insinua dentro me. Il sistema di risposta automatico, infatti, è esclusivamente positivo. Non è possibile dare una risposta sgarbata, cinica, né tantomeno disobbedire. Dire di no è praticamente impossibile, e i punti esclamativi si sprecano—pronti a manifestare l'entusiasmo dilagante per questo lavoro da sogno. Il sistema scoraggia ogni istinto di ribellione.

A forza di cliccare su risposte simpatiche e disponibili come "Certo, lo faccio subito," e "Grazie mille," mi sento praticamente obbligato a essere un collega migliore ed entusiasta, addirittura felice. La gente inizia a venire alla mia scrivania per raccontarmi del fine settimana in famiglia, come se avessi dimostrato interesse a instaurare un'interazione sociale. La situazione sta diventando inquietante.

La conseguenza peggiore di questa tragedia è rendersi conto che a forza di rispondere sempre "Sì" a tutti, il tuo lavoro aumenta. E così mi ritrovo con tantissima roba da fare: sono lo sfigato che sparecchia la tavola da solo in vacanza con gli amici. Faccio davvero di tutto, aiuto a montare la mensola IKEA del mio vicino di scrivania, scendo a fumare—anche se io non fumo—e accetto di andare a una serata universitaria per scrivere un reportage. Il mio libero arbitrio? Sparito, così come la mia dignità. Mi sentivo ingannato, schiavo del sistema. Ma tutti mi sorridevano.

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Arrivato al quinto giorno, un'incommensurabile tristezza mi assale. Mi arrendo: nessuno si è accorto della differenza tra me e un algoritmo di Google. L'entusiasmo con cui mi si rivolgono i colleghi è la prova schiacciante che preferiscono il robot a me. Fatta questa considerazione, però, mille domande tremende mi tormentano. Se il mio lavoro consiste nel rispondere a monosillabi a richieste banali, forse è un lavoro da idiota? E se i miei colleghi si aspettano solo questo tipo di risposte da me, forse mi considerano un idiota? Il dilemma mi fa sprofondare in un vortice di dubbi esistenziali.

Al sesto giorno dell'esperimento guardo i miei colleghi con diffidenza. Forse anche loro sono tutti robot Google? Non mi fido più di nessuno. Evito il loro sguardo per paura di essere trasformato all'improvviso in un fascio di fibre ottiche e microchip.

Per fortuna Pierre Thyss viene in mio soccorso. Non solo è colui che ha creato l'illustrazione per questo articolo, ma è anche uno dei pochi che frequento al di fuori dell'ufficio, dove il clima è decisamente più rilassato e piacevole. Ed è così che una sera mi dice "Senti, mi stai rispondendo in modo un po' strano ultimamente, tutto bene?"

Ora non sono più solo tra le fila della resistenza.

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