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Tecnologia

Ho studiato in Danimarca e parlare di università senza tasse non è una cazzata

A prescindere dal battibecco politico in atto, la questione è valida.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Questa settimana — nel dibattito politico che sta prendendo forma dopo l’annuncio delle imminenti elezioni previste per il 4 marzo prossimo — l’attenzione è stata catturata quasi interamente da una dichiarazione fatta da Pietro Grasso. Il presidente del Senato e leader del nuovo partito Liberi e Uguali ha infatti pubblicato un tweet in cui proponeva l’abolizione delle tasse universitarie.

L’idea ha provocato reazioni contrastanti, con una generale confusione su cosa implicherebbe davvero non pagare le tasse universitarie in Italia: per alcuni, sarebbe un modo per avvantaggiare ulteriormente le classi più abbienti — perché “tanto” gli studenti in maggiore difficoltà economica godono già di borse di studio che li sollevano dai debiti scolastici —, per altri un modo per impoverire ulteriormente gli atenei, già oggetto di numerosi tagli nelle manovre economiche di recente memoria.

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A prescindere però dal contesto politico particolare — o, meglio, a prescindere da battibecchi infuocati e retroscena squallidi da propaganda che è facile immaginare — riflettere sull’eventualità di un’università senza tasse da pagare non è l’ultima delle cazzate, anzi: è necessario, se vogliamo allinearci al migliore dei futuri pensabili.

Come riporta il sito Roars, l’Italia rientra in quei paesi dove l’istruzione universitaria non ha costi medi esorbitanti, ma dove ottenere borse di studio non è affatto scontato. “La scarsa disponibilità di borse di studio tende a rendere gli studenti dipendenti dal supporto economico familiare o da[lla necessità] di un lavoro [parallelo agli studi]. Rende anche difficile accedere a livelli di istruzione superiore, in particolare per gli studenti più svantaggiati,” si legge sul rapporto National Student Fee and Support Systems in European Higher Education della Commissione Europa del 2017.

Ho preso la mia seconda laurea in un’università in Danimarca. Poiché sono cittadina europea, non ho pagato un centesimo di retta e parte dei materiali necessari alla preparazione degli esami mi è stata fornita dall’istituto stesso. La prima cosa che il mio rettore ha detto presentandosi è stata: “voi studenti siete un investimento.”

Questa affermazione è forse alla base del motivo per cui nel rapporto della CE la Danimarca si piazza agli antipodi dell’Italia, con un welfare che copre interamente le tasse universitarie e offre un sussidio a moltissimi dei suoi studenti.

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La nostra società sta mutando rapidamente. Grossa parte del cambiamento in atto riguarda le forme di impiego e proprio qui sta il punto: se proviamo a guardare allo studio universitario come una forma di lavoro — o anche solo come, appunto, un investimento che un Paese fa sui propri cittadini — eliminare le tasse non sembra più così stupido.

In diversi paesi si discute finalmente dell’ipotesi di un reddito minimo — anche e soprattutto per via della rapida ascesa dell’automazione intelligente — ed è ridicolo fare congetture su un sistema economico del genere senza che uno Stato offra allo stesso tempo una preparazione universitaria esentasse ai suoi cittadini.

La paura poi che un’università gratuita incentivi qualche rampollo di buona famiglia senza fretta di lavorare a “parcheggiarsi” in una facoltà a piacere è, di per sé, frutto del buon vecchio pregiudizio secondo cui studiare è di fatto una perdita di tempo.

Almeno nell’università che ho frequentato io, era impossibile rifiutare il voto di un esame (purché sufficiente) e le opportunità per ripeterlo erano limitate a un numero preciso. Finire fuori corso era difficile, restare in corso altamente incoraggiato in svariati modi. Di nuovo: l’intero sistema era strutturato in modo tale da rendere gli studenti responsabili del proprio percorso, sollevandoli allo stesso tempo dall’impegno economico che è mantenersi agli studi.

La Danimarca ha indubbiamente un welfare molto diverso dal nostro, cosa che andrebbe presa in considerazione nell’eventualità in cui un futuro governo decidesse di implementare una proposta simile a quella di Grasso. Allo stesso tempo, sarà fondamentale parlare di fondi alla ricerca, di accessi al mondo accademico e delle implicazioni etiche dei finanziamenti delle aziende private per le università. Sono tutte domande e problematiche che vale la pena sollevare e indagare in modo costruttivo.

Ciò che non ha senso fare è pensare che questo dibattito non debba accadere. Quello scolastico è sicuramente un settore complesso e più di un modello — come quello privato costosissimo americano — si è rivelato fallimentare sul lungo periodo nel garantire la qualità di vita che offriva alle generazioni precedenti, per banali questioni di numeri sempre meno sostenibili nel mondo lavorativo.

Eppure, cominciare a pensare che il tempo passato a studiare sia tempo investito e non perso potrebbe essere un buon punto di partenza per tutti, politici e non.