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Tecnologia

Perché dovrebbe importarci della causa vinta da Mediaset contro Facebook

Il 15 febbraio il Tribunale di Roma ha dato ragione a Mediaset, che ha definito la sentenza come una "svolta," auspicando l'arrivo della nuova direttiva sul copyright.
mediaset vs facebook copyright
Sede di Mediaset a Cologno Monzese, immagine: Wikimedia Commons -
Logo di Facebook, immagine: Pexels

La settimana scorsa, Mediaset ha vinto una causa contro Facebook per violazione del copyright e per diffamazione iniziata quasi dieci anni fa. La sentenza, emessa il 15 febbraio 2019 dal Tribunale di Roma, è stata definita in una nota del 20 febbraio pubblicata dal Mediaset come ”una svolta nella giurisprudenza italiana a tutela del copyright.” Il comunicato, inoltre, sottolinea come si tratti della prima sentenza italiana che riconosce la responsabilità di un social network per una violazione avvenuta anche solo attraverso i link e si conclude con l'auspicio che la direttiva europea sul copyright nel digitale venga approvata.

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Il modo in cui Mediaset ha presentato la sentenza è ciò a cui dobbiamo prestare davvero attenzione qui. Con la riforma europea del copyright alle porte — il cui testo è appena stato approvato anche nel trilogo tra Consiglio, Parlamento e Commissione europei — il caso Mediaset rappresenta infatti una strana anticipazione di come cambieranno le responsabilità delle piattaforme. Ma partiamo dall'inizio.

Nel febbraio 2010, l'attrice Valentina Ponzone — che interpretava la sigla della serie animata Kilari in onda su Italia 1 — ha scoperto la pagina Facebook ”Valentina Ponzone nei panni di Kilari è assolutamente ridicola.” Sulla pagina, erano stati pubblicati foto, video e commenti che la insultavano. La pagina prendeva di mira anche Mediaset per aver scelto come interprete della sigla della serie animata un personaggio giudicato inadeguato.

Come succede spessissimo su Facebook, chi ha postato le foto sulla pagina non possedeva i diritti delle immagini, né tantomeno dei link che rimandavano a spezzoni della serie caricati su YouTube. RTI — Reti e Televisioni Italiane, società del gruppo Mediaset — è intervenuta inviando cinque lettere di diffida a Facebook per ottenere la disattivazione immediata della pagina, dei link e delle informazioni inserite. Tuttavia, la pagina è stata rimossa soltanto a gennaio 2012.

Secondo quanto si legge nel testo della sentenza, la linea di difesa adottata da Facebook ha compreso la richiesta di trattare il caso presso il Tribunale della California, di escludere la propria responsabilità in relazione alla sua natura di hosting provider passivo, di segnalare la mancanza di un ordine di rimozione emesso da un'autorità pubblica — e non attraverso lettere di diffida. Facebook ha anche sostenuto che il semplice rimando via link a contenuti già accessibili liberamente, anche in assenza del consenso del titolare dei diritti, non ne violava i diritti.

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Infine, nei confronti dell'attrice, Facebook ha negato la natura illecita delle condotte contestate, invocando il diritto di critica e di satira — oltre a eccepire l'inesistenza dei danni lamentati da Valentina Ponzone contestandone anche l'ammontare.

"Non si può parlare veramente di svolta nella giurisprudenza italiana a tutela del copyright."

La causa, in cui si intrecciano questioni delicate — come lo shaming diretto verso personaggi pubblici, l'utilizzo sui social di materiale di cui né gli utenti né i social possiedono i diritti, e i processi di rimozione di contenuti su segnalazione rallentati dall'attesa dell'intervento di un'autorità esterna — e nel cui merito non ci interessa entrare, è stata vinta da Mediaset, che ha ottenuto risarcimenti economici per la società e l'attrice. Ma il fatto che l'azienda italiana abbia definito la sentenza "una svolta," fa sorgere qualche domanda.

”Non si può parlare veramente di svolta nella giurisprudenza italiana a tutela del copyright. Per quanto riguarda la tutela dei detentori di diritti su materiale audiovisivo, questa sentenza è in linea con altre sentenze che sono state emesse in Italia,” ha spiegato al telefono a Motherboard l'avvocato Fulvio Sarzana — che ha seguito alcuni dei più famosi leading case italiani in materia di diritti fondamentali e nuovi media.

”Di sicuro non è la prima condanna di Facebook. In Italia, Facebook era già stata condannata per la vicenda di Tiziana Cantone con la richiesta di rimuovere video ritenuti denigratori ed offensivi. Peraltro, la parte della sentenza sulla diffamazione appare solo accennata: si rischia di rendere le grandi piattaforme arbitre di ciò che può o non può essere detto sui social network — con impatti negativi sul bilanciamento tra diritto alla libertà di espressione e diritto dei singoli individui,” ha aggiunto Sarzana.

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Secondo il comunicato di Mediaset, la decisione del Tribunale di Roma “è la prima a riconoscere in Italia la responsabilità di un social network” per una violazione avvenuta attraverso la diffusione di un link. L’importanza di questo passaggio — e la preoccupazione che suscita — è comprensibile solo collegando questa sentenza al supporto che Mediaset dichiara, nel paragrafo finale del suo comunicato, alla riforma della direttiva europea sul copyright — riforma ampiamente discussa qui su Motherboard.

Il nodo centrale della direttiva, infatti, punta a ribaltare uno dei principi fondamentali del funzionamento attuale di internet, per cui le piattaforme non sono in alcun modo responsabili per i contenuti che vengono postati dagli utenti.

La direttiva europea sull’e-commerce del 2000 stabilisce infatti che le piattaforme internet sono esentate da ogni tipo di responsabilità per i contenuti caricati dagli utenti a patto di collaborare alla rimozione degli stessi — qualora vengano indicati come illegali. Allo stesso tempo, però, le piattaforme devono dimostrare anche di non effettuare alcun tipo di cura editoriale dei contenuti caricati dagli utenti — punto su cui vi è un’accesa discussione nel caso di Facebook e del suo algoritmo del newsfeed.

Con la nuova riforma del copyright questa protezione salta. È come se ci trovassimo nella situazione in cui le compagnie telefoniche fossero responsabili per quello che i propri utenti dicono al telefono.

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Con la nuova riforma del copyright questa protezione salta. Tutte le piattaforme — non solo i social network, ma anche servizi come Dropbox e Slack — diventano responsabili per le violazioni dei contenuti caricati dagli utenti. È come se ci trovassimo nella situazione in cui le compagnie telefoniche fossero responsabili per quello che i propri utenti dicono al telefono. E per evitare violazioni, si chiede quindi che venga attuato un monitoraggio costante di tutte le telefonate.

Possiamo estendere la metafora: è come se ogni singolo negozio che si trova nelle nostre piazze dovesse controllare il contenuto delle nostre borse e tasche dei pantaloni per garantire che non stiamo introducendo un mixtape regalato dalla persona amata, un libro che ci ha prestato un nostro amico, o una foto scattata in un museo. Infine, è come se i comuni fossero responsabili di ciò che portiamo nelle nostre auto e fossero costretti a controllarci ogni singola volta che percorriamo le loro strade.

Tutto questo è assolutamente privo di proporzionalità e più vicino alla sorveglianza totale e non un vero e proprio strumento per difendere e proteggere il diritto d’autore — diritto strozzato fra i mille intermediari, major, case di distribuzione che vivono anche grazie ai guadagni dei veri creatori, e su cui la riforma europea non esprime linee chiare, rimandando all’implementazione nazionale della direttiva.

Nel contesto che si verrà a creare nel caso in cui la riforma dovesse essere approvata con questi principi, se le piattaforme internet non metteranno in piedi dei sistemi per eliminare e bloccare per sempre il successivo caricamento di contenuti che violano il diritto d’autore, rischieranno di andare incontro a sanzioni.

Infine, scardinare il principio di non responsabilità delle piattaforme rischia di aprire la strada a ulteriori pericoli, facilitando l’applicazione di filtri per censurare altri tipi di contenuti — dal terrorismo ai contenuti pornografici alle semplici forme di dissenso — e questo sta già avvenendo con il regolamento europeo sui contenuti terroristici online.

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