'Space Weed', il gioco italiano per NES a base di pizza e canne
Immagine: Plague Labs

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'Space Weed', il gioco italiano per NES a base di pizza e canne

Dal laboratorio artistico di Plague Labs, Michele Falcone tira fuori videogiochi, esperimenti di rom hacking, giochi da tavolo e giocattoli.

In questa Italia così confusa le certezze sono pochissime—Quello che c'è di sicuro è che se domani mi alzassi dal letto e volessi sviluppare un videogioco penserei a qualunque cosa meno che a una rom funzionante esclusivamente su NES, la console Nintendo che è arrivata in Italia nel 1987. Space Weed è esattamente questo: un videogioco interamente pensato per NES che parla di un fattone spaziale che spara a dei tranci di pizza (tra gli altri). C'è anche la cartuccia vera e propria, per capirci.

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L'esperimento è opera di Plague Labs, il, diciamo, laboratorio artistico portato avanti da Michele Hikikomori Falcone—Space Weed è stato presentato per la prima volta all'ultima edizione del Game Over Festival, ma si tratta solamente dell'ultimo di una serie sconfinata di esempi di trasformazione del medium del videogioco. Lo spirito di Plague Labs è vulcanico: Michele non è uno sviluppatore ma un'artista che, quasi incidentalmente, in questo caso ha voluto sfruttare una cartuccia del NES per esprimersi.

Il cantiere di Michele produce tavole da skateboard, giocattoli (i Teschionauti e i Weed Head e L'Uomo Melma), poster, giochi da tavolo: ha sviluppato videogiochi che parlano di suore, ha creato opere di ANSI art sfruttando pagine BBS e si è anche occupato di divulgazione, tenendo un workshop sul Rom hacking durante il Game Over. Plague Labs è un insieme di contaminazioni, tecniche e idee il cui unico scopo è produrre qualcosa di, a mio parere ingenuamente, bello.

"Plague Labs è nato 4 anni fa," mi spiega Michele, " È iniziato con delle strips a fumetti sotto lo pseudonimo di Plague Comics su una pagina Facebook e raggiunte le 50 vignette ho deciso di pubblicare delle copie cartacee," continua.

"Nel frattempo mi sono trasferito in un appartamento allora inutilizzato (in cui attualmente abito e lavoro) che appartiene alla mia famiglia e da lì l'ho reso il centro operativo delle mie produzioni—È da qui che è nata la Plague Labs ed è da qui che ho sfornato il primo ed unico volume di Plague Comics la mia prima 'pubblicazione' artistica, con un centinaio di copie distribuite," mi spiega Michele. "Plague Labs è il centro operativo di un laboratorio artistico multiforme."

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Il laboratorio di Michele si trova a Cosenza ma, mi spiega, si avvale di collaboratori residenti in tutto il mondo: dagli Stati Uniti ai Paesi Bassi. "Una buona parte delle tematiche toccate dalle opere riguardano i disturbi psichici legati all'uso, correlato o meno, di stupefacenti, passando per sindromi come quella di Asperger o malattie come la schizofrenia," mi spiega Michele. "Lo slogan del laboratorio è, appunto, 'Schizophrenia at its best'—La raccolta di fumetti recitava in copertina 'Explicit Sickness'," continua. "In sostanza, qualsiasi prodotto è collegato, in maniera diretta o indiretta, al tema della malattia o più nello specifico a quello della mutazione e dell'infettività. all'analisi dell'errore come espressione artistica.

In Space Weed c'è anche questo.

Le opere di Plague Labs non sono in tutto e per tutto legate al mondo del (video)gioco: non hanno lo scopo di inserirsi in una scena precisa, di riempire un buco di mercato o di seguire una determinata corrente artistica—Si tratta più di un laboratorio atto a catalizzare una varietà infinita di contaminazioni, "Gioco a circa 100 videogiochi diversi la settimana e raramente gioco per più di dieci minuti ad ogni singolo gioco," mi spiega Michele. "Sono una sorta di casual gamer, o piuttosto un bambino che entra in sala giochi (ho in casa un cabinato MAME e ne sono fierissimo) con la paghetta della settimana e se la brucia tutta lì," continua.

"Per me sono la forma d'arte più completa esistente al momento: se ci pensi, perchè fare un EP, una serie di illustrazioni o un cartone animato, quando puoi unire tutto in un'esperienza più profonda?" Per Michele, il suo modo di esprimersi nelle opere è molto vicina alla corrente giapponese dei kusoge, "Kuso sta per 'merda' e Ge sta per contrarre geimu, game quindi gioco. Inutile dire di quali videogiochi stiamo parlando," mi spiega. "Prendo ispirazione da tutto, in passato sono stato tatuatore, producer techno, vj, skater della domenica—Ma la maggior parte delle volte faccio cose che sarebbero piaciute al me di vent'anni fà."

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Space Weed è figlio proprio di queste contaminazioni, "Il NES mi è stato regalato da mio cugino nel '96 (avevo sei anni) circa perchè ormai era già da un po' in auge il Super Nintendo e nessuno lo voleva più," mi spiega. "Non era vintage, era solo vecchio—Per me fu amore a prima vista: inutile dire che sempre di più, da quel momento in poi, ho desiderato fare un videogioco per quella console.

"Un po' di tempo fa, dopo aver approfondito a sufficienza alcuni linguaggio di programmazione 'high-level', ho deciso che era il momento di fare uscire 'qualcosa' su NES," mi spiega. "Scoprii ben presto il mondo del rom hacking— metà dello sviluppo di Space Weed fui invitato nella comunità di Baddesthacks.net e lì ho scoperto il folle mondo del "bad hacking" e ne rimasi completamente travolto. Al momento la comunità ospita un centinaio di membri ed io sono l'unico italiano a farne parte. Per me è un pò come una famiglia virtuale," continua.

"Un ragazzo conosciuto proprio sulla board mi ha aiutato con degli scripts di Space Weed, Dr. Floppy—Ho parlato loro di questa intervista chiedendo cosa potevo dire che rappresentasse al meglio il motivo per cui lo si fa e qualcuno ha risposto 'It's just digital graffiti', sono solo graffiti digitali," mi spiega. "Un altro, 'I bad hacks sono l'equivalente digitale di disegnare qualcosa di volgare nei bagni di un liceo,' l'attitudine è un po quella insomma."

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L'approccio di Michele ai propri lavori è molto vicino a quello, per esempio, della scena DIY musicale, "Quando si tratta di un lavoro più serio, volto magari alla commercializzazione, sia esso per Plague Labs o per un committente esterno, mi metto ad un tavolino e non vado neanche a pisciare finchè non ho finito," mi spiega. "Spesso le mie opere più goliardiche riscuotono abbastanza successo da dover essere trattate con piglio più concreto, Space Weed stesso è nato così."

"I bad hacks sono l'equivalente digitale di disegnare qualcosa di volgare nei bagni di un liceo."

"Ho un estremo bisogno di una prototipizzazione veloce: fondamentalmente molta roba nasce perchè ne sento io per primo il bisogno," mi spiega, descrivendomi il processo di creazione. "Da piccolo guardavo magari Kaws o Tokidoki e pensavo 'Caspita, mi piacerebbe diventare un designer abbastanza rinomato da avere la mia serie di giocattoli', poi crescendo ho capito che potevo farmeli da solo," mi racconta. "Di lì a poco ho adibito una stanza interamente alla progettazione dei giocattoli ed al momento è piena di plastica ed argilla polimerica dappertutto."

"Quando creo videogiochi succede la stessa cosa: sviluppo, produco ed impacchetto tutto da solo o al massimo vengo aiutato dai miei più stretti collaboratori—Nutro un interesse morboso e condiviso verso il design, l'oggettisca ed il collezionismo," mi spiega. "Che siano videogiochi, giocattoli o arte fine a se stessa il confine è molto labile. Per me ormai quasi inesistente," conclude.

Tutte le opere di Plague Labs si trovano sul suo sito, e qualcuno di tanto in tanto fa capolino anche sulla sua pagina Facebook.

Guarda FFW3: Game Breakers, il documentario di Motherboard sul mondo dei videogiochi in Italia: