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Tecnologia

Breve storia degli easter egg nei videogiochi

La storia degli easter egg è costellata di riferimenti mega-nerd, supercazzole e rivendicazioni degli sviluppatori.
Immagine: grab via YouTube

Ricordo di aver incontrato Ernest Cline, l'autore dell'ultimo cult di Spielberg 'Ready Player One', intorno al 2011, durante la presentazione del suo romanzo a Bologna; e ricordo anche di essermi fatto fatto fare un autografo su di un foglietto che, tanto per cambiare, ho perso dopo pochi giorni. In quell’occasione chiesi allo scrittore di un’eventuale trasposizione cinematografica, lanciandogli l’idea di chiamare Kevin Smith alla regia. Cline non ne pareva convintissimo — e per fortuna, vista l’attuale tragedia artistica di Silent Bob.

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Nei pochi anni che sono trascorsi dall’uscita del libro ad oggi, la cultura del videogioco, grazie e soprattutto all’effetto retromaniaco — sì, proprio quello di Simon Reynolds, ma declinato per ogni ambito culturale e non solamente per la musica — è divenuta sempre più un affare di massa, iconico e generazionale, al punto tale da convincere Steven Spielberg a girare un film che parlasse di questo.

Ci sono decine di differenze tra il romanzo e il film, ma la miccia narrativa rimane la stessa: il protagonista deve scovare un easter egg che lo sviluppatore di un immenso universo virtuale ha inserito nella propria creazione, e chi lo trova per primo riceve la proprietà aziendale del software stesso. OASIS è il nome dell’universo digitale nel quale miliardi di persone hanno trovato un rifugio dalla disgustosa realtà di un ventunesimo secolo distopico, non così tanto lontano dalle previsioni attuali sul nostro triste antropocene.

Sia il libro che il film introducono la questione dell’easter egg in modo da farsi capire anche ai profani, fenomeno che per usare la definizione di Wikipedia è “un contenuto, di solito di natura faceta o bizzarra e certamente innocuo, che i progettisti o gli sviluppatori di un prodotto, specialmente software, nascondono nel prodotto stesso (come un uovo di Pasqua nascosto in giardino, secondo la tradizione anglosassone)”.

L’ultimo atto del film di Spielberg gira attorno alla caccia della terza chiave, risolvere l’enigma riguardante Adventure, un vecchio videogioco dell’Atari. L’easter egg di James Hollyday è la firma dell’artista sull’opera OASIS ma non solo; è la camera celata che nasconde gli archetipi dell’infanzia, diciamo una finestra intima tra le stringhe del codice e nella quale l’artista può lasciare un messaggio o un riferimento a una comunità specifica, quella fatta di persone che condividono un sapere culturale.

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La storia dell’easter egg nei videogiochi, contro-codice nel codice, enigma invisibile e alieno al mondo al quale appartiene, ricorda un po’ quei simboli pagani e/o massonici infilati tra gli interstizi dei monumenti del periodo medievale: pensiamo ad esempio alla ruota di Baal (un dio fenicio) tenuta in mano da un vescovo cattolico in una delle miniature di Notre Dame o al labirinto disegnato sul pavimento della Cattedrale di Chartres.

Ma la storia che porta al primo easter egg noto, quello di Adventure, ha delle motivazioni diverse dal puro diletto esoterico. Negli anni ‘70 a dominare il primo grande mercato videoludico è l’Atari, società statunitense fondata agli inizi del decennio; una cosa che non andava giù a buona parte dei programmatori dipendenti dell’azienda, consapevoli di essere ideatori di un prodotto che fosse più simile a un fumetto che ad un semplice software senz’anima, era l’impossibilità di avere il proprio nome scritto sui menu della schermata principale, così come sulla cartuccia o la scatola. L’Atari e altre software house, per una serie di questioni (come la riservatezza sui nomi dei primi game designer), dominavano il settore con l’anonimato forzato.

Warren Robinett, lo sviluppatore di Adventure, è uno cresciuto ascoltando i Beatles, ha una laurea in Informatica e un master in “Informatica applicata all’arte”. Ed è sull’onda dei suoi ascolti giovanili che trova l’ispirazione. Sono gli anni in cui comincia a girare la leggenda della morte di Paul McCartney e della sua sostituzione con un sosia. A quanto pare John Lennon bofonchia “Paul is Dead”, o almeno è quello che si dovrebbe sentire eseguendo il brano I am the Walrus al contrario.

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A Warren probabilmente interessa poco della veridicità di quel messaggio, ma è il concetto di segreto infilato in un fenomeno di massa, chiamatelo gioco esoterico o come pare a voi, che gli fa accendere la lampadina in testa. Insomma, avrebbe fatto una cosa simile per Adventure, inserendo un messaggio segreto all’interno di una stanza celata alla quale si poteva accedere solo dopo aver ottenuto una chiave che, altro non era, che un pixel grigio; un quadrato grigio che tutti gli appassionati di storia dei videogiochi conoscono come “the dot” — il punto. All’interno di quella camera si sarebbe trovata la frase “Created by Warren Robinett”.

Chi non conosce il cane nella "stanza dei bottoni" del finale di Silent Hill 2?

Il primo easter egg della storia non è un giochetto per nerd ma la dichiarazione d’indipendenza di una nuova classe di artisti e artigiani: gli sviluppatori dei videogame, ai quali non andava giù l’idea di lavorare sottopagati, senza possibilità di autorialità, e nessuna possibilità di ricevere delle royalties su delle vendite che, come nel caso di Adventure, raggiungevano il milione di copie. Il primo a scoprire il segreto di Robinett — o almeno il primo ad essere stato documentato — è un ragazzetto di quindici anni di Salt Lake City; si chiama Adam Clayton e qualche anno dopo lavorerà allo sviluppo di Dark Chambers per l’Atari 2600.

Clayton manda una lettera all’Atari scrivendo qualcosa del tipo “Ehi, figata quella camera segreta. Ce ne sono delle altre?”, e quando la sezione management dell’azienda se ne accorge, l’aria che tira tra gli uffici si fa pesante. L’easter egg di Adventure finì nelle camere da letto degli adolescenti di mezzo mondo e oggi lo leggiamo come uno dei momenti che aprì alla crisi della prima era videoludica. Da allora la storia del medium si è costellata di easter egg di ogni tipo, e alcuni di questi sono famosi tanto quanto il gioco che li ospita: chi non conosce il cane nella “stanza dei bottoni” del finale di Silent Hill 2?

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A dispetto di una gran quantità di easter eggs fatti per far sorridere e divertire il videogiocatore, aprendo le porte del ridicolo e a situazione imbarazzanti — come nel caso delle mucche in Diablo 2 o del coniglio pasquale in Saints Rows 2 — alcuni game designer hanno preferito sfruttare l’ ee per donare alle proprie creazioni ombre e misteri semantici dove tutto ha le forme logiche del gameplay e dello storytelling. Stiamo parlando di apparizioni inquietanti, di fantasmi del codice, di personaggi distorti o di enigmi inspiegabili. L’easter si fa simbolo massonico in una terra che per definizione è uno spazio-tempo di binari — invisibili certo, ma pur sempre binari — da percorrere, dove tutto è rassicurante in quanto surrogato indolore del reale.

Come i pezzi di formaggio di Perfect Dark, videogioco uscito nel 2000 per Nintendo64 e sviluppato dall Rare. Non è mio interesse raccontarvi la trama del gioco, vi basti sapere che è la storia sci-fi di un agente segreto che finisce per addentrarsi nell’Area 51, e ci sono di mezzo alieni e presidenti americani da salvare.

Ai tempi i videogiocatori cominciano a rendersi conto che, sparsi per l’area di gioco, ci sono dei pezzi di formaggio (tipo emmental); sono un po’ ovunque, come all’interno delle prese d’aria, scaffali o all’interno di fragili muri da distruggere o addirittura affondano nei water. Ventidue pezzi di formaggio sparsi per ogni livello di gioco e che in apparenza non avevano nessun senso di esistere, se non quello di essere un giochino subdolo lasciato volutamente dagli sviluppatori. Non è l’unico mistero di Perfect Dark e un articolo di Kotaku fa una piccola indagine sul caso. Tra i fan la questione del formaggio era diventata una vera e propria ossessione che si è risolta solamente un paio di anni fa.

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Immagine: screenshot

Immaginatevi di essere un ragazzino dei primi anni novanta e fortunato possessore del Mega CD, un accrocchio da assemblare al proprio MegaDrive e che permetteva di leggere compact disc. Potete quindi permettervi di giocare a Sonic CD, il terzo capitolo della saga del riccio blu. Qualcuno vi ha detto che se nella schermata del titolo eseguite con correttezza una certa combinazione di tasti del pad entrate nel menù del sound test. Nella nuova schermata dovete inserire una determinata stringa alfanumerica e poi premere start. Una schermata con una scritta in giapponese e tanti Sonic che al posto del rassicurante faccione indossano una maschera dal volto deformato. Non manca una musica creepy, tanto per distillare a chi stava di fronte il monitor la tipica inquietudine nipponica. La scritta, tradotta in inglese, sembra un inno al divertimento (“Infinite fun”) e accompagnata dalla parola che romanizzata si legge e scrive Madzin, o Majin. Per anni si è pensato fosse un riferimento a uno spirito maligno - majin in giapponese significa qualcosa del tipo dio demone - e un subdolo giochino per terrorizzare bambini e magari disturbarli. Madzin era il soprannome che aveva da bambino Masato Nishimura, uno dei programmatori, il quale confessò dopo qualche anno l’autorialità dell’easter egg.

Uno dei giochi più giocati e amati degli ultimi anni, Skyrim, nasconde una quantità incredibile di missioni secondarie, segreti e ovviamente easter egg. Dove vanno a finire gli npc morti? È quello che si sono chiesti gli sviluppatori della Bethesda quando hanno deciso di inserire una sorta di inferno per bot, il vero Oblivion del codice. Quello che dovete fare è aprire la console di gioco ed invocare il metodo che vi permette di spostare il protagonista giocabile verso un npc (ovviamente morto); verrete teletrasportati sulle coordinate del personaggio scelto, che sono quelle di un labirinto fatto di pietre e dominato dai colori verdi e violacei, tipo rave party, solo che al posto della droga ci trovereste una pila di cadaveri che, nel caso, potrete resuscitare. Attenzione, alcuni passeggiano senza logica all’interno del limbo.

La storia degli easter egg in Giappone è per lo più fatta di cose raccapriccianti. Sulla saga dei Pokemon si è sviluppata tutta una sottocultura che ha vissuto - e vive - tra i forum e le imageboard di mezzo mondo. Tipo la leggenda di Lavandonia, uno dei casi più famosi del fenomeno che una decina di anni fa ha vissuto il suo momento di gloria, quello delle creepypasta.

Non e’ un caso che gli easter egg e tutto quello che viene considerato subliminale o inspiegabile nel mondo dei videogiochi abbia un peso ambiguo quando si tratta di fenomeni presenti in giochi particolarmente colorati, fatti di melodie serene, personaggi buffi e particolarmente indirizzati a un pubblico giovane. Momenti che viaggiano su un confine, dove gli strappi dal continuum dello storytelling li possiamo leggere come una fuga verso il “non-gioco”, quella terra che per forza di cose fa parte, nello spazio-tempo, del gioco stesso - in quanto codice informatico - ma dove narrativa, mood e gameplay finiscono (per un istante) a farsi friggere. Così, la storia del fantasma di Pokemon X & Y, quello della ragazza dai capelli viola che spunta alle spalle del giocatore intento a visitare uno dei palazzi di Lumiose City - scena accompagnata da un black out e un rallenty inquietanti - regala indizi su una relazione amorosa finita nel peggiore dei modi. Forse. Ci sono indizi sparsi sulla questione, ma ci è in pratica impossibile capire la cosa, ma l’occasione diviene uno spunto per speculare e intrecciare legami al di fuori del gioco stesso nelle comunità delle imageboard.

In Animal Crossing l’easter egg come “non-gioco”, come qualcosa che sta in mezzo alle due dimensioni, esiste nella forma della maledizione del volto dei Gyroid quando si prova a resettare il gioco, in determinati momenti, senza aver prima salvato.

Nel “non-gioco” i creatori parlano nella lingua della massoneria della comunità videoludica e oltre, nel “non-gioco” vivono pezzi di storie che non stanno né in cielo così in terra, ovvero inconciliabili col mondo dentro la cartuccia quanto con quello di fuori.