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Tecnologia

Daito Manabe ci ha spiegato l'importanza di empatizzare con la tecnologia

Abbiamo incontrato il DJ e guru del design per parlare di arte e cultura, incubi e e politica.
Giulia Trincardi
Milan, IT
Daito Manabe, foto per gentile concessione dell'artista.

Quando pensiamo alla tecnologia, la prima definizione che diamo d’istinto è quella di strumento. La tecnologia è qualcosa — qualsiasi cosa — che usiamo. In un certo senso, però, è illusorio pensare che la relazione di potere tra l’uomo e la tecnica in senso ampio sia ancora così netta: siamo ormai, a nostra volta, uno strumento — soprattutto da quando è diventato chiaro a tutti quanto è prezioso il cumulo di dati che produciamo e che ci definisce.

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Ma se da un lato facciamo ancora fatica a comprendere la portata storica delle rivoluzioni dell’ultimo secolo, dall'altro l’inconscio collettivo dà già forma materiale ai nostri sentimenti nei confronti della tecnologia tramite l’arte — dalle opere più sperimentali e d’avanguardia, alla produzione del mondo dell’intrattenimento. Questa forma, però, varia inevitabilmente da cultura a cultura: mentre quella Occidentale appare incastrata in un immaginario profondamente distopica e raggelante — in cui la tecnologia è spesso fredda nemica dell'uomo — altri esempi, come la cultura giapponese, raccontano un rapporto più olistico, empatico e fluido tra esseri umani e tecnologia.

Daito Manabe è un artista, ingegnere, DJ e designer giapponese che ha collaborato con artisti e realtà di tutto il mondo e che ha fatto del significato delle nostre relazioni con la tecnologia il fulcro del proprio lavoro. Dal mapping interattivo nei video di Nosaj Thing, ai droni che prendono parte attiva negli spettacoli di danza di 24 Drones, passando per la collaborazione per il video di "Mouth Mantra" di Björk — che mescola organi umani e deformazioni in 3D —, Manabe porta sempre sullo stesso piano lo strumento tecnologico e l'uomo, creando un dialogo emotivo alla pari tra le due parti.

Manabe è stato ospite all'evento Meet The Media Guru che si è tenuto questa settimana BASE, a Milano, per parlare proprio del rapporto emotivo tra esseri umani e tecnologia. Motherboard lo ha incontrato in questa occasione per parlare di cultura, arte e politica e di come sia troppo facile per gli esseri umani pensare al futuro e alla tecnologia in maniera negativa.

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MOTHERBOARD: Hai lavorato con artisti di tutto il mondo. Nella tua esperienza, il modo in cui ci poniamo nei confronti della tecnologia cambia da cultura a cultura?

Daito Manabe: Penso che il Giappone sia un paese con una relazione molto particolare con la tecnologia. Per esempio, quando una persona cerca di accendere la televisione ma non ci riesce, in Occidente le persone pensano che sia colpa del telecomando o del televisore stesso. Mentre in Giappone, le persone pensano che — forse — è colpa dell’essere umano.

Questo perché le persone hanno una fiducia totale nella tecnologia: si potrebbe dire che, per i giapponesi, sia una religione. Non viene mai messa in dubbio.

Cambia anche il modo in cui un artista si pone nei confronti della tecnologia come strumento per le proprie opere, quindi.

Per quanto mi riguarda, in passato, ho realizzato un progetto in cui usavo l’elettricità per controllare i muscoli e di recente sto lavorando a un progetto in cui trasmetto elettricità al cervello, in modo da controllare il volere o la mente. E l’ho fatto perché, molto semplicemente, mi incuriosiva l’idea.

Come dialoghi con le persone con cui collabori in questo senso?

Mi considero una persona brava a rispondere alle richieste degli altri, quello che forse possiamo riassumere come il ruolo del designer. Sono bravo in questo, più che nell’imporre ciò che voglio io.

Per esempio, ho lavorato con musicisti hip-hop ma anche con altri tipi di musicisti — ogni volta, passo moltissimo tempo a fare ricerca e a intervistare le persone, solo per capire cosa vogliano esprimere.

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In molte delle tue opere utilizzi i droni e sei qui a Milano per discutere dei legami emotivi che la tecnologia può veicolare o suscitare di per sé. Eppure, il discorso dominante attuale, soprattutto proprio sui droni, è negativo: in Occidente in particolare, ruota intorno a temi come sorveglianza e violazione della privacy. Quali pensi che sia il ruolo che giocano artisti come te nel cambiare la narrativa sulla tecnologia e sulla nostra relazione con essa?

Di base, per il cervello umano è molto più facile avere incubi che fare bei sogni. Lo dico perché, allo stesso modo, è difficile fare provare agli esseri umani emozioni positive o piacere. È necessario un lungo processo di ricerca e conoscenza nel profondo. D’altro canto, far soffrire le persone o far provare loro sentimenti negativi è piuttosto semplice.

Per cui, ovviamente, quando i droni sono apparsi nella nostra società, il primo immediato pensiero è stato “quali azioni terribili è possibile compiere con i droni?” E la stessa cosa vale anche per altre tecnologie, come l’intelligenza artificiale. Per cui, in questo senso, quella che ho scelto personalmente è la missione più complessa di tutte: suscitare emozioni nelle persone tramite l’uso della tecnologia.

In questo senso, non sto usando la tecnologia per ragioni più comuni, come facilitare la vita delle persone o fare soldi.

Quando qualcuno mi pone domande come questa, penso improvvisamente a come potrei usare queste tecnologie per fare cose cattive.

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Oh no, mi dispiace!

[Ride] È troppo facile per me pensarci.

È una cosa molto comune nella cultura occidentale, tendiamo a pensare al futuro come al più terrificante e distopico possibile. Sembra impossibile immaginarne uno che non sia catastrofico e negativo.

Il Giappone ha una società molto pacifica, con nessuno dei problemi attuali dell’Occidente, come l’emergenza umanitaria dei migranti, per esempio. Forse dovrei considerare maggiormente queste situazioni o fare qualcosa. Di recente parlavo con amici in Europa e mi sembra che anche l’Italia abbia i suoi problemi al momento a livello politico…

Già, diciamo che non è un momento facile.

È naturale che il ruolo dell’arte sia diverso in Europa e in Giappone. E in questo senso sono consapevole che le forme d’arte giapponesi siano accettate davvero solo nella società giapponese.

Nei festival sulla Media Art in Europa ci sono molte opere con tematiche sociali o politiche, e sono spesso quelle che vincono i premi in palio. Ci sono alcuni artisti che cercano di spostare il proprio lavoro su queste tematiche per questa ragione. Personalmente, mi interrogo molto su cosa dovrei fare in queste situazioni. Ma so che che per me non ha senso farlo solo per vincere un premio e che mi interessa di più concentrarmi su ciò che voglio davvero realizzare.

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