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Perché 'Annihilation' è la metafora di un'esperienza psichedelica

Ecco cosa abbiamo capito del film tratto dal romanzo di Jeff Vandermeer appena uscito su Netflix.
Giulia Trincardi
Milan, IT
Screenshot da: YouTube

Attenzione: questo articolo contiene spoiler minori sul film Annihilation.

Appena ho finito di vedere Annihilation — il film diretto dal regista di Ex Machina Alex Garland, tratto dall’omonimo romanzo di Jeff Vandermeer e uscito il 12 marzo su Netflix — ho guardato l’arancia che stavo per mangiare e ho pensato, “io sono l’arancia, l’arancia è me.”

La mia illuminazione non suona come trip psichedelico per caso: Annihilation riesce a riportare il genere fantascientifico su una dimensione di profondo annullamento interiore, simile a quello che — lo dice anche la scienza — sono in grado di indurre sostanze come LSD, DMT, ketamina e MDMA. Il film spinge i propri personaggi — e, di riflesso, lo spettatore — a frammentare i confini della propria identità fino al suo annientamento. Lo stesso Garland lo ha definito come “un viaggio dalla periferia alla psichedelia.”

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La trama di Annihilation ruota intorno alla biologa ed ex soldatessa Lena — interpretata da Natalie Portman. Lena, dopo un breve e dissociato ricongiungimento con il marito che pensava morto in missione, parte per esplorare la stessa misteriosa area contaminata in cui l’uomo è rimasto intrappolato per un anno, e per capire cosa l’abbia ridotto in fin di vita. La zona denominata come Area X è descritta come un disastro ecologico causato da un misterioso meteorite, una degenerazione che rifrange il DNA di qualsiasi cosa inglobi, mutando la composizione genetica — e l’identità — di ogni forma vivente.

Dopo un debutto debole al botteghino negli Stati Uniti e in Canada, Annihilation è stato bollato come “troppo cerebrale” per avere successo nei cinema del resto del mondo e relegato per direttissima allo streaming. Anche la critica è rimasta divisa, in parte per le libertà che Garland si prende rispetto all’opera letteraria originale. Si tratta, senza dubbio, di un film concettuale: invece di trasporre una tematica politica o sociale attuale in metafore estetiche e azione — come fanno molti prodotti recenti di fantascienza —, esternalizza in un’ambientazione dai toni psichedelici un discorso interiore primordiale.

È la nostra definizione di esistenza che viene messa in discussione. Percepiamo noi stessi come individui, dotati di un’identità coerente a se stessa. In altre parole: io sono solo io, tu sei solo tu. Ma se i confini dell’individualità scompaiono — se mutano con tale violenza e rapidità da confondersi con il resto del vivente — cosa resta?

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Il cancro non vuole uccidere, tutto ciò che fa è mutare.

Il termine “annihilation” in italiano può essere tradotto sia come “annientamento,” che come “annichilimento.” La prima parola intende la distruzione di qualcosa di esterno al soggetto, la seconda, invece, la “perdita di ogni volontà e capacità di reazione […], che costituisce la specifica modalità psichica con cui viene sperimentato, fin dall’infanzia, l’istinto di morte.”

Per quanto sia stato tradotto come Annientamento nella versione italiana, Annihilation è un film che parla più profondamente di auto-distruzione e istinto di morte: i suoi personaggi espiano il proprio senso di inadeguatezza alla vita in una deliberata scelta suicida — recandosi in un luogo di non ritorno. Le scene d’azione non mancano, ma tanta della regia è volta a estraniare lo spettatore, con scene quasi videoartistiche, dalla necessità dei film di fantascienza di avere un nemico concreto da sconfiggere per ristabilire un presunto status quo.

Le protagoniste del film varcano il limite esterno dell'Area X. Immagine via YouTube

È invece proprio la rinuncia allo status quo, alla propria identità definita che permette in particolare alla protagonista di relazionarsi con l’ambiente che la contamina e sopravvivergli. Lena sa di non poter tornare indietro per la stessa strada che ha percorso — tanto fisicamente quanto esistenzialmente.

Annihilation è un film su tante cose: è un film sulla depressione, sul cancro, sull’imprevedibilità genetica, sulla “violenza fornicatrice” (come l’ha definita in un documentario Werner Herzog) della natura — che, notoriamente, terrorizza lo scrittore Vandermeer. È un film sulla creazione della vita — tema esplorato con un cast primario completamente al femminile, senza ricadere nel fastidioso mezzuccio caro al genere sci-fi della gravidanza mostruosa — e, persino, sull’impossibilità di trasporre un romanzo in un film senza mutarlo.

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Ma il film di Garland ci insegna anche che la nostra concettualizzazione razionale dell’esistenza è una gabbia che ci impedisce di percepirne il fluire eterno e interconnesso. Nell’interrogatorio che Lena subisce una volta sfuggita all’Area X, un militare le chiede cosa volesse l’entità con cui è entrata in contatto.

“È venuto qui per un motivo, stava mutando il nostro ambiente e distruggendo ogni cosa,” le dice l’uomo. “Non credo volesse niente,” risponde lei. “Stava creando qualcosa di nuovo.” La volontà è un prodotto diretto della consapevolezza che ha l’uomo di esistere — e la volontà di annientare non è che l’interpretazione arbitraria umana del primordiale e cieco istinto di sopravvivenza di qualsiasi forma vivente. Il cancro non vuole uccidere, tutto ciò che fa è mutare. Mentre l’uomo è l’unico grumo di DNA consapevole di essere DNA.

Il miasma psichedelico permette a Lena e agli altri personaggi intrappolati nell’Area X di intravedere oltre i confini della propria identità biologica e razionale. Similmente a un altro prodotto di fantascienza esistenziale — la serie animata giapponese Neon Genesis Evangelion, in cui il protagonista viene chiamato a “fondersi” con gli altri personaggi per raggiungere una versione migliore dell’umanitàAnnihilation apre le “porte della percezione” individuali al tutto, ricordandoci che la natura non è mai uguale a se stessa e che, pur non più coscienti, continuiamo a esistere anche nella bestia che ci divora.