The Big American Deal

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A12N4: Il decimo annuale di narrativa

The Big American Deal

Uno scrittore italiano e un fotografo attraversano gli Stati Uniti da sud a nord, da ovest a est, per cercare di capire l'America.

Questo racconto è tratto dal nostro numero annuale dedicato alla narrativa.

Nell'autunno del 2016, mentre l'America si preparava a eleggere Trump, lo scrittore Giorgio Vasta e il fotografo Ramak Fazel attraversavano gli Stati Uniti da sud a nord, da ovest a est. È il secondo viaggio americano dei due, dopo quello di tre anni fa narrato in Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Quodlibet Humboldt, 2016). Il testo che segue racconta il primo segmento del viaggio, da Houston a Fort Wayne. La seconda parte, da Chicago a New York, uscirà sul prossimo Fiction Issue di VICE Magazine.

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Quando alle sette di sera del 25 ottobre 2016 atterro all'aeroporto di Houston, Ramak è già lì, è arrivato al mattino da San Francisco, è andato in città e ha comprato una macchina che da qualche giorno teneva d'occhio su Craigslist, è una Saab del 2002 grigio metallizzata, l'ha pagata—l'abbiamo pagata—millecinquecento dollari; nel momento in cui batte il palmo contro il tettuccio—così, per festeggiarla, per prenderne affettuosamente possesso e allo stesso tempo, credo, per attivarla—vedo la polvere che si solleva dalla carrozzeria, piano, poca, eppure percepibilissima in questo Texas tardopomeridiano, le particelle che prima si disperdono veloci, poi galleggiano meditabonde e infine planano lente, qualcuna accendendosi dorata, e allora, esausto per le diciannove ore di viaggio da cui provengo, penso che questi pezzettini di polvere luminosa sono il tempo minuscolo e disordinato che sta per cominciare, nient'altro che il riflesso fisico del caos strategico che Ramak, con cui viaggio di nuovo a tre anni dal nostro primo percorso americano, sta già iniziando a generare—e in effetti quando entriamo nell'abitacolo Ramak mi comunica che il finestrino lato guidatore è rotto, se si prova ad abbassarlo crolla all'interno della portiera, il tachimetro non funziona ma lui ha già scaricato un'app che ci dirà a che velocità viaggiamo, e sì, è vero, il parabrezza ha qualcosa che lo appanna, una cataratta sottile e disturbante, e le luci anteriori ogni tanto si accendono e poi si spengono senza controllo, ma la macchina è ottima, It's a big deal!, ci porterà lontano, vale molto più di millecinquecento dollari, tra una decina di giorni proveremo a rivenderla a duemila, anzi no, a duemilaquattrocento dollari, forse duemilacinquecento, è il minimo, e quando dico che intanto però sarebbe utile riposarci—mi sento a pezzi, ho bisogno di dormire—Ramak mi fa vedere che il sedile è comodissimo, reclinabile, diventa orizzontale, visto che domattina abbiamo un appuntamento a Kentwood, Louisiana settentrionale, è meglio partire subito, così fra l'altro entriamo nel mood, dice, solo che io in macchina non riesco a dormire, come non dormo in aereo, non dormo in treno e non dormo in pullman, non chiudo gli occhi dove c'è altra gente, e allora resto sveglio e faccio conversazione per tenere sveglio Ramak, perché anche se pretende—al solito in modo mite—di partire subito è esausto anche lui, e dunque parliamo, chissà di che cosa parliamo ma per miglia e miglia non facciamo altro, a un certo punto però sento la testa che mi crolla sul petto e poi di lato, la guancia di colpo fredda contro il finestrino, mi forzo, riapro gli occhi e guardo fuori, dove non si vede niente, intanto Ramak guida lungo l'Interstate 10 e parla e io rispondo a caso, in dormiveglia, in sottofondo un inaspettato Schubert, domandandomi nel torpore perché accetto che questo viaggio cominci subito così, nell'esasperazione, mettendo alla prova i corpi, immediatamente andando a installarci nello stordimento, finché sento la Saab che rallenta, faccio in tempo a leggere un cartello che dice sulphur e stiamo già parcheggiando nel piazzale di un motel Red Roof Inn, quando la donna alla reception mi restituisce la carta d'identità Ramak me la sfila, la scruta, la soppesa, me la restituisce, poi ci salutiamo, percorro un corridoio infinito, apro la porta, la camera è sporca e puzza, pulisco dove posso e mi metto a letto, le lenzuola sembrano usate, sono usate, resto più o meno vestito, copro il cuscino con la federa che Ramak mi ha suggerito di portarmi da casa, non mi addormento ma sparisco nel sonno, al risveglio sono trascorse poco più di quattro ore, non sono neppure le cinque del mattino, scosto la tenda e guardo il parcheggio pieno di pick-up, le luci elettriche che si irradiano puntiformi in un principio di alba, Ramak che già in piedi si aggira per il parcheggio con un bicchierone di caffè in mano, allora mi lavo nel bagno sudicio, mi vesto, passo dalla lobby a prendere il mio bicchierone ed esco sul piazzale dove Ramak sta facendo conversazione con un uomo seduto su una sedia a bere una Bud Light, è ancora in tenuta da lavoro, il giubbotto fosforescente con la scritta Robinson Construction, ALABAMA cucito sul berretto, gli occhi chiari, le guance rosse, il naso diviso in due da una cicatrice, è brillo e loquace, si chiama Glenn Kennedy e fa il turno di notte in una fabbrica di settemila operai a sette miglia da qui, Seven thousand, dice, seven miles, e subito ci racconta della Somalia e dell'Afghanistan, di una pallottola nella schiena e di una decina di fratture al viso (niente guerra, quella volta, solo una questione di donne), tira su l'orlo dei pantaloni rivelando sulla gamba sinistra una sequenza di lacerti bianchi rossi e blu, frammenti scomposti della bandiera americana, poi ci dice che lui ha tre regole: Fool and his money will soon departed, recita la prima; You can't make chicken salad from chicken shit, recita la seconda, e poi si tamburella la fronte con un dito dicendo che con quel muscolo si fa dieci volte di più di quanto mai si potrà fare con questo—e con il dito si indica il bicipite—, detto ciò recupera la birra, sorride e beve un sorso, mentre l'altro braccio gli pende inerte lungo il fianco, tra le dita una sigaretta che poco a poco si consuma, passa un minuto, ne passano due, stiamo tutti in silenzio, fino a quando Glenn si riprende e si mette a parlare delle figlie, estrae il cellulare, ci mostra le foto, racconta che non le vede mai, si sentono solo via Facebook, a quel punto lo salutiamo e quando stiamo per ripartire lui ci raggiunge e ci dice che tempo fa è andato al funerale di un suo amico, un veterano che aveva combattuto in Vietnam, a seguire il feretro c'erano solo nove macchine, davanti alla tomba la musica veniva fuori da un registratore, Glenn si era sentito male e si era detto che al suo funerale vuole una colonna di macchine lunghissima e qualcuno che suoni la tromba dal vivo, io non so che dire e lo rassicuro, andrà senz'altro così, dico, salendo in macchina penso di aver detto una sciocchezza, non si parla della morte di qualcuno, neppure se quel qualcuno ne sta parlando, mentre Ramak fa manovra mi giro a guardare Glenn, Drive safe, fa lui e poi scompare, più tardi a Baton Rouge mangiamo gamberi e patate bollite in una baracca stretta gestita da una coppia vietnamita, c'è anche un ragazzo afroamericano, il viso lungo e inerte, la chiostra dentaria pronunciata, le braccia sottilissime, poi ancora due ore di strada—il finestrino che trema, il parabrezza velato—e a Kentwood Ramak inserisce un indirizzo nel navigatore, per un po' guida in silenzio e quando sotto un portico di legno vediamo una donna senza una gamba che sollevando una stampella fa segno che ci siamo Ramak parcheggia ed entriamo in casa di Antoinette Harrell, così si presenta la donna, che ci precede e ci fa sedere intorno a un tavolo, solo che quando lei prende a parlare mi rendo conto che non so dove siamo, guardo le stampelle appoggiate alla parete, guardo Ramak e cerco di ricordarmi che cosa mi ha detto, se mi ha detto qualcosa, non ricordo nulla ma dalla conversazione in corso ricostruisco che abbiamo avuto il contatto di Antoinette da una studentessa della scuola di San Francisco dove Ramak insegna fotografia, Antoinette ha cinquantasei anni ed è una genealogist, studia la storia degli schiavi attraverso i secoli, le loro esistenze dall'Africa all'America, la vita nelle piantagioni del Deep South, la disgregazione familiare, il peonage e la slavery, che non è mai davvero finita, Antoinette racconta tanto e con passione e poi di colpo si ricorda qualcosa, si alza e si allontana, dalla stanza accanto ci dice che il suo compito è questo: recuperare le stirpi, ricostruirne i contorni, materializzarle per salvarle dalla polverizzazione, ritorna e mi posa davanti una scatola dal coperchio trasparente, all'interno c'è una moneta smerlata, contornata da otto petali, una moneta-fiore coniata apposta per gli schiavi, i padroni bianchi avevano inventato una valuta che poteva circolare solo in contesti autorizzati e controllati, fuori da quelli non aveva valore, era un altro modo ancora in cui si esprimevano le Jim Crow Laws, le leggi segregazioniste, e poi Antoinette ci racconta che in Louisiana—e lo stesso vale in tutto il Sud—la formazione non è una tappa dell'ascensore sociale, qui i ragazzini di colore non vanno a scuola per imparare qualcosa ma nell'attesa del carcere, l'aula è un limbo che precede la cella, e poi ci racconta che in questi stati la subalternità del nero nei confronti del bianco passa anche per il linguaggio, sono tanti gli afroamericani per i quali è naturale rispondere a un bianco dicendo Yes, Sir!, d'istinto, una specie di riflesso, di atavismo linguistico, e poi Antoinette scuote il capo, I've seen too much, dice, I know too much, e intanto mi distraggo a fissare alle sue spalle, oltre la parete di vetro del soggiorno, tre galline che sfilano sul prato, prima in una direzione e poi nell'altra, e ancora e ancora, finché Antoinette e Ramak si alzano e io faccio lo stesso, si dirigono verso la porta e io li seguo, Antoinette in testa con le stampelle poi Ramak poi io, mentre di là dal vetro le galline ci guardano allontanarci, entrare tutti e tre nella Saab e lasciare Kentwood, lungo la strada ci fermiamo a osservare degli uomini che trafficano intorno a mezza casa viaggiante, la struttura è spezzata longitudinalmente, gli uomini la stanno agganciando a un tucker, poco più in là c'è l'altra metà, vorrei chiedere in che modo le due parti verranno saldate ma non c'è tempo perché si riparte, passiamo accanto a una serie di baracche di legno e siamo a Fluker, dove tutto quello che c'è è umido e guasto, immerso in una specie di disastro calmo, davanti a una baracca Antoinette ci fa cenno di fermarci, scendiamo, sotto il portico ci sono due vecchi seduti su altrettante poltrone marce, uno di loro ha una maglietta con la scritta i'm not antisocial, i'm antistupid, ci raccontano del lavoro alla fabbrica locale, quella dei Kent, a sei dollari l'ora, devono lavorare lì perché non hanno mezzi per raggiungere la fabbrica più lontana, Antoinette sta facendo in modo che da qui passi un pullman, ancora però non si sa se ci riuscirà, mentre parliamo una bambina si stacca dalle amiche con cui stava giocando sotto un albero barbuto e si avvicina, ha gli occhi sottilissimi, anche lei come le altre indossa camicetta e gonnellino, non dice niente e si china a guardare da sotto in su dentro la stoffa dei pantaloni di Antoinette, la gamba che non c'è, Antoinette le sorride, scuote il moncherino, il tessuto ondeggia, intanto arriva un ragazzo con la felpa giallo fosforescente e una bottiglia nel sacchetto marrone, non dice nulla e va a sedersi anche lui sotto il portico, la conversazione ammutolisce, ci salutiamo, May I stay…? dice la bambina rivolgendosi ad Antoinette che è appena rientrata nell'abitacolo della Saab, With me? domanda Antoinette, With you, Antoinette la abbraccia e le dà appuntamento al lunedì successivo, quando tornerà da quelle parti, andiamo via e senza che io capisca come ci ritroviamo a seguire una macchina, al volante c'è un uomo, Antoinette ci dice che si chiama Chris, raggiunto un campo Chris si ferma, scende, indossa una tuta blu, ha gli incisivi superiori dorati, una matita dietro l'orecchio, un bastone da passeggio, lo seguiamo ed entriamo a casa sua, dove lo spazio è compostamente mescolato, i mobili e gli elettrodomestici sono scostati dalle pareti, radunati al centro delle camere, le pareti sono spellate, si vede quello che c'è dietro, telai di legno e lana di vetro, Chris racconta che mesi fa c'è stata l'ennesima inondazione, A lot of rain, dice, per strada si sono viste anche alcune bare galleggianti, trascinate fuori dal cimitero, mentre racconta Chris allunga il bastone e indica al di là della finestra, i campi che si erano trasformati in una distesa di fango e le abitazioni sparse, l'inondazione ha modificato tutto, dice, nel senso che le costruzioni erano orientate in un altro modo, l'acqua le ha sradicate e ridepositate a casaccio, adesso tutte le nostre case sono disorientate, dice, e poi indica l'interno, la punta del bastone che rintoccando piano si sofferma su quello che c'era e non c'è più, come se quel bastone avesse la capacità di far percepire ciò che è sparito, di recuperarlo, restituirlo e riorientarlo, quando qualche minuto dopo rientriamo in macchina Antoinette raccomanda a Chris di andare ad ascoltare, da lì a qualche giorno, Michael Jackson, e appena lo dice mi ricordo che prima lungo la strada ho visto diverse bandierine colorate con su scritto proprio questo nome, chiedo ad Antoinette in che senso Chris deve andare ad ascoltare Michael Jackson e lei mi risponde che terrà un comizio, Michael Jackson?, domando e lei allora prende il cellulare, chiama e venti minuti dopo ci fermiamo in uno sterrato di ghiaia, al centro c'è un uomo altissimo accanto a una macchina nera, una via di mezzo tra un microtrattore e un'Ape aggressiva, sulla fiancata c'è scritto POLARIS RANGER e subito accanto MICHAEL JACKSON, Antoinette racconta all'uomo altissimo chi siamo e che cosa stiamo facendo, lui sorride, allunga la mano, Michael Jackson, dice, candidato sindaco di Tangipahoa, che, spiega Antoinette, è il posto dove siamo, dunque questo sterrato di ghiaia, il campo da basket che si vede più in là, ancora oltre qualche casa, un silos, e mentre cala la sera e l'aria poco a poco si raffredda Michael Jackson, quarantasette anni, ci racconta di aver giocato a football americano, wide receiver dei Baltimore Ravens, lasciato lo sport ha deciso di occuparsi del suo luogo d'origine, soprattutto perché qui, dice, un cambiamento non c'è mai stato, non viene rifiutato, semplicemente non si sa cosa sia, non appartiene alle cose che accadono perché non appartiene al pensiero, se ha deciso di fare politica è perché vuole cercare l'imprevisto, anzi vuole inventarlo, generare la discontinuità, dice così e poi si guarda intorno, lo sterrato, le case, il campo da basket, questo pezzetto di Louisiana piatto e omogeneo, si gira verso di noi, I'm standing for growth, dice a voce bassa, quando stiamo per andare via tira fuori dal cruscotto quattro figurine che lo ritraggono con la maglia dei Ravens, le autografa con un pennarello e ce le regala, poi siamo di nuovo nella Saab, il finestrino accanto a Ramak trema, il parabrezza è offuscato o è offuscato il mio sguardo, in qualche modo però arriviamo a Jackson, capitale del Mississippi, l'insegna del Motel 6, la lobby, il bancone, le carte di credito, Ramak che di nuovo studia la mia carta d'identità, la camera derelitta, le lenzuola strappate, il copriletto cosparso di macchie scure, il water che di nuovo, come due notti fa, pulisco a lungo con la carta igienica bagnata (immaginando che serva e non sia solo nevrosi, l'azione apotropaica che pretende di respingere il senso di contaminazione che è il presupposto di ogni Motel 6), copro il cuscino con la federa e di nuovo sparisco nel sonno, la mattina del 27 faccio la doccia e ripenso alla sera prima, l'ingresso in una Jackson vuota e silenziosa, il locale ostile in cui ci siamo fermati a mangiare, uno spazio irreale già a partire dalla disposizione dei tavolini e dei divanetti lisi, alle pareti le foto pubblicitarie degli anni '70 di quello stesso luogo, sempre lo stesso ragazzino di colore impegnato a mangiare, come noi decenni dopo, scampoli di carne arrostita conditi con salse piccanti, dopo la doccia scendo a bere il caffè in un bicchiere di carta porosa che sembra, anzi è, polistirolo, quando stiamo caricando la Saab compare un uomo in sella a una Harley Davidson enorme, un dinosauro nero, sulla targa la scritta KOGA, ci avviciniamo, l'uomo ha capelli e barba bianchi, gli occhi azzurri (gli dico che somiglia a John Houston, mi risponde che gli hanno detto che somiglia a Santa Claus e a Uncle Jesse di Hazzard, John Houston non sa chi sia), ha settantun'anni, è un ex edile e si chiama Glenn—un altro, di nuovo, per noi il mattino non ha l'oro in bocca ma un Glenn che sboccia all'ingresso dei motel—, è partito ieri dal Kentucky, ha già percorso quattrocento miglia e tra poco proseguirà per Nashville, ma in realtà non ha nessun programma, forse starà via due mesi o forse no, e soprattutto, dice, non sta andando da nessuna parte, aveva solo voglia di fare un giro, ogni tanto ne sente il bisogno, in questi casi prende e va, del resto non deve chiedere il permesso, alla partenza o all'arrivo non c'è qualcuno che lo aspetta, quando Ramak gli domanda se può fotografarlo Glenn si mette in posa, scrive su un pezzo di carta il suo indirizzo e-mail e indicando la targa della moto ci spiega che koga sta per Kiss Old Glenn Ass, appena ripartiamo mi sistemo il tablet sulle ginocchia e mentre Ramak guida prendo appunti ma dopo un poco mi inclino a sinistra, mi raddrizzo, continuo a scrivere ma di nuovo pendo a sinistra, torno diritto e ancora una volta mi piego di lato, sento la nausea che monta, sollevo gli occhi e vedo Ramak che continua a sterzare costringendo la Saab a girare su se stessa passando da una corsia all'altra della carreggiata, vorrei dirgli che per capire qual è la direzione giusta sarebbe meglio fermarsi e fare mente locale ma sto zitto, lui ci avvita ancora un poco sull'asfalto, lo sguardo ispirato che scruta qualcosa oltre il parabrezza, e poi cambia la marcia e prosegue lungo il rettilineo, torno a scrivere ma mi distraggo a pensare che tre anni fa di questi tempi viaggiavo con Ramak dalla California alla Louisiana, non ci si era mai visti prima e per due settimane ho avuto a che fare con una persona che da sola, tramite cialtroneria nonché un continuo impulso a esasperare, mi ha spinto a raccontare il viaggio non come un reportage fedele ai luoghi e ai fatti ma come una finzione narrativa, dopo quei quindici giorni dell'ottobre 2013 Ramak è diventato un personaggio, nel senso che scrivendo il libro di cui è il protagonista ho passato il tempo con un Ramak immaginato, immaginario, reale e messo in scena, invece da qualche giorno ho di nuovo a che fare con la persona e non è semplice, della persona-Ramak non sono io a decidere i comportamenti, struttura e tono, la persona-Ramak è autonoma e spesso esasperante (lo è anche il personaggio ma, essendolo nella finzione, questa sua tendenza viene messa a frutto), la persona-Ramak è ossessiva, gira a vuoto, si fissa su questioni poco o per nulla rilevanti, appena sembra che qualcosa sia stato acquisito lui ricomincia, passa il tempo a ricominciare, non segue mai un metodo intellegibile ed è come se non possedesse una memoria a breve termine, non ritiene, non mantiene, si perde e ci perde, eppure—e forse proprio per queste ragioni—è stato il motore del viaggio di tre anni fa ed è di nuovo la trazione anteriore di questo, e tanto quel viaggio quanto questo sono anche una specie di studio empirico sulla differenza tra persona e personaggio, o forse sul venir meno, a volte, di quella differenza, e dunque quando la macchina rallenta e parcheggiamo davanti a un cartello che recita TOUGALOO COLLEGE chiedo alla persona-Ramak seduta accanto a me dove ci troviamo e uscendo dall'abitacolo qualcuno che non è più la persona-Ramak ma non è ancora il personaggio-Ramak mi risponde topografico che ci troviamo nella contea di Madison, poche miglia a nord di Jackson, allora esco anch'io dalla Saab e domando a quest'ibrido perché ci siamo fermati proprio a Tougaloo, e sono certo che almeno nelle mie intenzioni mi sto ancora rivolgendo alla persona-Ramak, ma la risposta che mi arriva—This place is really a big deal!—è già del personaggio-Ramak che recuperata Rolleiflex e il resto dell'attrezzatura si dirige verso gli uffici del campus, recupero a mia volta penna e taccuino e gli corro dietro, prima di entrare si ferma e mi chiede di dargli la mia carta d'identità, la tiro fuori, lui la prende, entriamo e quando una segretaria gentilissima ci viene incontro Ramak le mostra il mio documento parlando così veloce che non capisco cosa dice, la segretaria annuisce e ci chiede di aspettare, cinque minuti dopo stiamo seguendo Jordan, lo studente-ambasciatore al quale è stato affidato il compito di farci visitare il college, Jordan ha vent'anni e nel tempo libero fa lo stand up comedian, portandoci in giro tra gli edifici dove tra gli altri sono passati anche Martin Luther King e Robert Kennedy ci dice che Tougaloo è un historically black college fondato nel 1869 nella stessa area in cui c'era una piantagione, gli studenti sono duemila e arrivano dal Mississippi ma anche da Chicago, dal Ghana, dalla Cina, dalla Corea del Sud, intanto siamo nell'open space della biblioteca, The Civil Rights Library and Archives, qualche studente seduto ai tavoli, alle pareti la carta geografica dell'Africa, tre divani e un vecchio mappamondo, una Holy Bible aperta sotto una teca, varchiamo una soglia e siamo in un'aula, è in corso una lezione, cinque studenti e una docente piccolissima e riccia, si parla di Toni Morrison e di stereotipi razziali, quando mezz'ora dopo Jordan ci saluta perché deve andare a lezione restiamo a leggere i post-it colorati incollati a una parete della caffetteria—MY BLACK IS REVOLUTIONARY, MY BLACK IS WONDERFUL, MY BLACK IS SMART, MY BLACK IS POWERFUL—e in quel momento una ragazza afroamericana che indossa una t-shirt con la scritta MORE THAN FLY calzoncini e scarpe da basket ci si avvicina e chiede a Ramak della Rolleiflex, Ramak le porge la macchina fotografica e le spiega come funziona, cinque minuti dopo siamo seduti a un tavolino della caffetteria a pranzare con Chesha Lewis, studentessa cestista, la voce leggera e la bellezza seria, un modo di esserci quietamente radicale, la guardo e finalmente, timidamente, mangiando legumi scotti decolorati un poco mi innamoro, così, con discrezione, con modestia, ma è quello che mi basta, finito il pranzo seguiamo Chesha in un secondo giro di Tougaloo, parliamo con i suoi colleghi e poi raggiungiamo uno dei dormitori, percorriamo un corridoio di cemento, salutiamo dei ragazzi seduti su una panca a chiacchierare, saliamo per due rampe di scale che sanno di detersivo, Chesha ci precede per domandare il permesso alle sue colleghe, torna indietro e ci introduce nel dormitorio femminile, una fuga di spazi dove si alternano gli atri che conducono alle camere e i bagni, che sono dei corridoi con i lavabo da una parte e le docce dall'altra, proprio dalle docce sbuca una ragazza con l'asciugamano stretto intorno al corpo, ci vede, ci sorride e saltellando sulla punta dei piedi corre in camera, davanti agli specchi c'è un'altra ragazza che si trucca sotto le luci al neon e un'altra ancora che, il phon accanto al lavandino, ha in testa il turbante dell'asciugamano (un vero vortice di stoffa, non turbante ma turbinio), intanto Ramak parla con Chesha che parla con le sue colleghe, spiega chi siamo e che cosa facciamo, le ragazze accettano di farsi fotografare, una dice We're gonna be famous!, un'altra commenta Yeah, in Italy, quando un'ora dopo Ramak e io siamo seduti al tavolino di un locale che si chiama Gladys, a Lexington, a bere caffè e a mangiare una fetta di torta, ripenso alla quantità di sole che un'ora fa, a Tougaloo, illuminava Chesha in piedi con i palmi contro il davanzale di cemento che dal piano del dormitorio si affaccia sul campus, tantissimo sole, largo e strepitante, un'estate improvvisa al centro della quale Chesha guardava assorta il verde delle aiuole, gli alberi, i vialetti, gli edifici bianchi e rossi, raccontando di Black Lives Matter e del suo blog, Shot by Sha, e di che cosa nel futuro inarrestabile sarebbe accaduto a lei e al mondo, la voce sempre chiara e forte, lo spazio che le scintillava negli occhi, ma nel frattempo Ramak davanti a me si è messo a parlare con due uomini sulla sessantina—le barbe bianche, i berretti da baseball, scarpe da trekking e stivali—di crisi dell'agricoltura, della sparizione delle piantagioni di fagioli e granoturco (a quanto pare restano solo le arachidi e il cotone), della terra che nel giro di qualche anno è diventata dura come il cemento, non puoi più scavarla, se ci provi ti si spacca il piccone, e via via le loro voci si fanno sempre più alte, il tono lapidario, una prepotenza delle bocche che fa svanire l'ultima percezione della voce di Chesha spingendoci ad andarcene e a raggiungere un posto che si chiama Lexington Homes, decine di trailer bianchi parcheggiati all'interno di un piazzale grandissimo, capannoni e nessuno in giro, Lì dentro costruiscono le temporary homes, mi dice Ramak ed è già fuori dalla Saab diretto verso l'ingresso della fabbrica, davanti a una porta a vetri mi chiede di nuovo la carta d'identità, gliela passo, lui spinge un battente e quando l'usciere in divisa gli si para davanti gli mostra per un istante il mio docu- mento, sempre veloce e sicuro, essenziale, informale, l'usciere si allontana e torna col vicedirettore, Ramak mostra anche a lui la mia carta d'identità—il guizzo della mano, il rettangolino chiaro plastificato che in un lampo si materializza davanti agli occhi dell'uomo e poi scompare—e allora il vicedirettore ci fa accomodare in un ufficio, prendiamo posto intorno a un tavolo ovale, fa chiamare suo figlio, che già da qualche anno lavora lì con lui e indossa una maglietta sentimentale con la scritta home is wherever i'm with you, e insieme ci raccontano che il loro principale cliente è la fema, la Federal Emergency Manager Association, una specie di Protezione Civile americana che in occasione di disastri naturali offre un ricovero transitorio agli sfollati, dalla loro fabbrica in media vengono fuori—dal telaio agli arredi—sei case al giorno, ma ai tempi di Katrina sono arrivati a produrne anche undici, quello che però è interessante, dice il vicedirettore-figlio, è che da qualche tempo ci sono sempre più clienti privati, persone che avendo visto contrarsi la loro capacità d'acquisto non hanno alternative e decidono di vivere in una casa dai prezzi accessibili, inoltre il vantaggio di questi appartamenti low cost dalle pareti in cartongesso e gli interni modulari è che possono venire recapitati dappertutto, basta fornire l'indirizzo e le mobile homes si mettono in viaggio, detto questo il vicedirettore-figlio si alza in piedi e noi con lui, salutiamo il vicedirettore-padre e trascorriamo l'ora successiva girando per gli hangar, tra il legno polverizzato dove i nostri passi lasciano le impronte e le faville iniettate nell'aria dalle saldatrici, penetrando in nubecole di colle e di vernici, in bolle di rumori metallici (crepitii meccanici, strepiti e fischi), tra operai tutti e solo afroamericani, e girovagando sono stupito dal disordine, pensavo di entrare in un impianto iperdisciplinato e invece tutto ciò che c'è qui sta nel caos, ma forse il caos è l'unico modo in cui la materia combinandosi può dare forma alle cose, e del resto non è meno caotico e incomprensibile quello che Ramak si mette a fare un'ora più tardi quando guidando lungo una strada ai lati della quale si allargano i campi di cotone, all'altezza di un posto che si chiama Tchula scorge un mastodontico trattore verde e giallo in moto attraverso i campi e senza smettere di fissarlo infila la Saab in un sentiero di terra battuta che penetra nel bianco molecolare delle piante, superiamo decine di balle ricoperte da un tessuto giallo e rosa e inseguiamo la macchina raccoglitrice che prelevando il cotone dagli arbusti e ingoiandolo al suo interno se ne va sempre più lontana, lenta e irraggiungibile, finché il sentiero culmina in un cul-de-sac e allora Ramak si ferma e scende e scruta immaginando un passaggio, torna a fissare il trattore sempre più piccolo all'orizzonte, riprende fiato, È un harvester della John Deere, dice e lo dice come Achab quando avvista Moby Dick, un brillio d'ossessione nello sguardo, Vale milioni di dollari, aggiunge, poi contempla lo spazio e dopo qualche secondo, come se lo sguardo si fosse tradotto in voce, What a big deal! esclama, si gira a guardarmi e un secondo dopo ha già recuperato Rolleiflex lampada e asta dal portabagagli e sta correndo nel cotone, io resto fermo, lo osservo rimpicciolire e di nuovo, come tre anni fa, sento imbarazzo ed euforia, pena e gratitudine, al cospetto di questo cinquantunenne inverecondo che per ragioni insondabili corre dietro a tutto ciò che incontra, travolgendo arbusti, saltando e inciampando, svellendo dai rametti le capsule di cotone e frollandole sotto le scarpe, e continuo a guardarlo mentre prova a fermarsi e a stringere la Rolleiflex al petto sollevando l'asta e la lampada per fotografare l'harvester indifferente, ma per il fiatone traballa e comunque il mietitore è troppo lontano, allora si stringe tutto addosso e riparte, scompare nel bianco, riappare, l'attrezzatura metallica che gli scroscia sul petto e su un fianco, e correndo—inseguendo?, scappando?—è già arrivato a Glendora, centosessantuno abitanti e il treno che per tre minuti ogni ora fischia e sferraglia, i ragazzi che la sera giocano a domino in un juke joint, e poi è a Clarksdale, dove al Ground Zero Blues Club si ascolta un buon blues sintetico, e arrancando in una piccola tempesta di palline lucenti Ramak slitta nel 28 ottobre, dove a Memphis, all'interno di una piramide alta cento metri, sono esposti centinaia di articoli per la pesca—non solo canne mulinelli e mangimi ma anche un peluche a forma di cernia, un luccio buca delle lettere, un cinghiale imbalsamato e una rana di ferro altissima—, così come Winchester dal calcio intarsiato e pistole Beretta rosa e fucsia, e sulla terrazza panoramica che domina la piramide Dave—baffoni biondi arricciati verso l'alto, la maglietta nera con il disegno di un fucile e la scritta 2ND AMENDMENT—tiene in braccio suo figlio Luke, lo tira su, lo riprende, e intanto Ramak ha raggiunto St. Louis nell'esatto momento in cui sotto la U capovolta del Gateway Arch sta trottando un calesse trainato da un cavallo con gli zoccoli ricoperti di brillantini argentati, senza smettere di correre Ramak si china a guardare queste zampe stroboscopiche e vorrebbe persino fotografarle ma il cavallo non sta fermo e allora continuando a naufragare nel cotone Ramak allunga il passo e sbuca dentro la sera del 29 ottobre dove al Wrigley Field di Chicago i Cubs e i Cleveland Indians giocano la loro ennesima finale, fuori dallo stadio ci sono gli Apache che protestano e c'è un fantasma alto e bianco con gli occhiali, ci sono i poliziotti travestiti da orsi, tre ragazzi travestiti da hot dog, due ragazze travestite da trancio di pizza, e poi c'è Yesterday, un negozio di memorabilia, e c'è Tom, il proprietario ottantacinquenne che quando risponde al telefono dice Yesterday e poi basta, tace, aspetta, e a quel punto, mentre io me ne sto ancora fermo accanto alla Saab a guardare e a immaginare, Ramak, inseguendo il grande mietitore e sparpagliando intorno semi foglie e lanugine, è arrivato in Indiana, a Fort Wayne, è il 30 ottobre e lui percorre un vialetto di cemento che divide in due il prato e si ferma davanti a una costruzione a un piano, il portico di legno, il tetto a due spioventi, le aiuole curate da cui affiorano cespugli color ruggine e aceri rosso sangue, la rimessa direttamente collegata al corpo centrale della casa in cui dal 1976 Ramak ha abitato con sua madre, suo padre e sua sorella, poi nel tempo le partenze, il divorzio e poco a poco se ne sono andati tutti via, nel 2009 la casa è stata venduta e al 4201 di Brooklawn Drive adesso abita qualcun altro che Ramak non conosce, così questo cinquantunenne bussa alla porta, attende, gira intorno alla struttura, cerca di guardare attraverso un vetro ma l'interno è buio, torna indietro, bussa ancora, appoggia l'orecchio al legno, aspetta dieci secondi, venti, trenta, non si sente nulla, allora percorre l'impiantito, posa per terra la Rolleiflex e il resto dei suoi ferri, batuffoli di bambagia disseminati ai suoi piedi, si siede sotto il portico e continua a invecchiare.

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