Cultura

Le persone che basano le proprie scelte di vita sul lancio dei dadi

Ispirate dal romanzo del 1971 'L'uomo dei dadi', varie persone in tutto il mondo si affidano ai dadi per prendere le loro decisioni.
Dadi Luke rhinehart
Illustrazione di Lily Lambie-Kiernzione.

I serbi avevano circondato la città di Mostar. Rintanati in un edificio, i soldati adolescenti della HOS, le Forze di difesa croate, alleviavano la noia con l’erba, l’eroina e i colpi sparati a vuoto o verso le colline dove erano appostati i cecchini.

“Le strade di Mostar erano deserte,” ricorda il giornalista Joe Cusack. “La maggior parte dei soldati ne aveva abbastanza di massacri e uccisioni, ma non quelli della HOS.”

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Capodanno con Tito

Joe stava testimoniando in diretta la disintegrazione della Jugoslavia insieme al suo amico d’infanzia Graham Johnson, e dopo aver sentito il lamentio di una granata in volo, i due si erano buttati a terra.

Joe, che allora aveva vent’anni, rammenta ancora oggi la sensazione di gelo, mentre una macchina distante meno di 40 metri esplodeva di fronte a loro. Le orecchie gli fischiavano e, tra le risatine isteriche, uno sguardo scambiato con Graham era bastato ai due per capire che dovevano la loro sopravvivenza al “Fattore X”: la fortuna, il fato, la serendipità.

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Joe (all'estrema sinistra della foto) e Graham (all'estrema destra) in Bosnia. Foto per gentile concessione di Joe Cusack.

Diverse settimane prima, era stato proprio questo fattore a determinare la scelta di mollare il lavoro. Ispirati da un libro, un classico della controcultura intitolato L’uomo dei dadi, la coppia di amici aveva deciso di partire per la Jugoslavia con zero esperienza nel giornalismo, proprio grazie al lancio di un dado. Armati di un paio di tesserini falsi, dopo aver raccontato ai genitori che andavano in vacanza a Ibiza, si erano imbarcati in un viaggio che avrebbe cambiato loro la vita.

L’uomo dei dadi compie 50 anni proprio nel 2021 . Il suo autore, George Cockroft, che aveva scritto il libro sotto lo pseudonimo di Luke Rhinehart, è però morto a novembre del 2020, e non potrà assistere all’evento. Tuttavia, la filosofia contenuta in un questa satira controversa continua a resistere e prosperare ancora oggi.

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Il libro racconta, con fare di volta in volta nichilista, sarcastico e ripugnante, le vicende di uno psichiatra annoiato di Manhattan che cede in toto il proprio processo decisionale quotidiano al lancio di un dado. Abbandona la sua famiglia, prova a violentare la moglie del vicino, assume diverse e bizzarre identità, orchestra una fuga di massa da un ospedale psichiatrico.

Pubblicato nel 1972, il libro si è trasformato in un successo graduale, arrivando a vendere 2 milioni di copie in 25 diversi paesi nel mondo. Insignito del titolo di “romanzo del secolo” dalla rivista Loaded nel 1999, ha lasciato un’eredità duratura e discepoli in tutto il mondo. “C’è un qualcosa di totalmente mistico nel dado,” rilancia Joe, che è di Liverpool ma ora vive a Manchester. “Lanciando un dado, attingi a qualcosa che è già lì, una corrente sotterranea, come se tutto fosse già prestabilito.”

Mentre parla dall’altro lato del mondo, a Perth, in Australia, il quarantaduenne Retter mi racconta della sua esperienza e descrive una sensazione quasi identica a quella di Joe. “Di solito usavo il dado per aiutare l’universo a… aiutare me stesso,” rilancia. “Sono ateo, ma sento una qualche forma di energia nel mondo, e il dado mi ha aiutato ad accedere almeno in parte a quella fonte.”

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Da reo confesso “alcolista ad alto funzionamento”, Retter ha usato il dado per passare indenne attraverso una serie di bravate alcoliche. Il fascino del caos si è dimostrato irresistibile anche per i suoi conoscenti. Ad esempio, si ricorda di una volta in cui un tiro di dado per scegliere tra vino rosso e bianco ha dato il via a una sbronza con altre 20 persone.

In un’altra occasione, durante un viaggio nella sua città natale, il fatto di armeggiare col dado ha attirato l’attenzione di una donna. “Le ho detto, ‘Parto tra poche ore, vuoi venire a casa con me o devo chiederti il numero?’ Mi ha risposto, ‘Andiamo,’ perché ha avuto fede nella casualità del tutto, e abbiamo avuto questo appuntamento da una volta e via.”

Qualche anno fa, però, Retter ha abbandonato i dadi. “Ora ho delle persone che contano su di me, non voglio deluderle,” spiega. Ma il potere di quei due cubi ha scavato profondamente nella sua psiche. “Con il tempo non hai più bisogno del dado, sei a tuo agio a compiere scelte ‘casuali’”, ribadisce, ricordando di quando si è trasferito a Hong Kong per seguire un impulso e un lavoro uscito fuori dal nulla.

“Ti libera dalle catene dell’obbligatorietà e dai vincoli del dovere. Mentre le persone intorno a te si affidano a studi e valutazioni e per prendere decisioni, tu puoi far subentrare la filosofia dei dadi e decidere al volo.” Allo stesso tempo, ritiene di essere stato in parte alla mercé dei dadi e della loro influenza, al punto da arrivare a preoccuparsi anche solo all’idea di un gioco da tavolo tra amici: perché il dado esige di essere lanciato e obbedito, è questa la regola numero uno di chi si consacra a questa filosofia.

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“Ci sono state volte in cui non volevo fare quello che mi veniva indicato dal dado,” ammette Retter, “ma sentivo che, se non avessi obbedito, mi sarebbero poi capitate solo le opzioni più difficili. Mi ricordo di essermi seduto e aver parlato al dado, ‘Mi dispiace molto, scusami, ma potresti presentarmi una scelta più semplice?’” E ribadisce: “Quando mi hai chiesto di fare quest’intervista sapevo che, se non avessi accettato, e fossi tornato a utilizzare il dado, la cosa mi avrebbe annientato. Non si trattava nemmeno di negoziare o mediare il risultato, semplicemente sapevo che altrimenti il dado mi avrebbe fregato alla grande.”

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Fotografia di Michael Schultz Mike / Alamy Stock Photo

Araz, un art director di 44 anni di Gothenburg, si è trasferito a Londra negli anni Novanta proprio a causa del lancio di un dado. E lì è rimasto per 12 anni, è diventato padre e ha frequentato un dottorato. Anche lui è un lanciatore non più praticante, dopo che ha stabilito di smettere nel 2013—ovviamente tramite il lancio di un dado. La cosa è andata avanti sin dall’adolescenza e, secondo lui, col tempo si è trasformata in una vera e propria dipendenza.

“Per qualche tempo son rimasto in contatto con George Cockcroft, e lui mi ha avvertito che si tratta di un circolo vizioso,” spiega Araz. “Come per la maggior parte delle dipendenze, se scegli di smettere da un momento all’altro di solito non finisce molto bene. Ma se invece scegli di prenderti una pausa, magari estesa, funziona molto meglio. L’opzione che mi ero dato io era quella di prendermi una pausa qualora fossi riuscito a lanciare un cinque: e così è stato.”

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“All’inizio i dadi non avevano un impatto così profondo su di me, ma poi la situazione è cambiata e ho cominciato ad accogliere il cambiamento nella mia vita. Se guardo anche ora alla mia scrivania, posso vedere sette diversi tipi di dado. Ti colorano la vita, diventano parte di te… però confermo che sto ancora prendendomi una pausa.”

Araz usava i dadi per spingere le proprie decisioni verso scelte piuttosto edonistiche e gaudenti, come quando ha deciso da un momento all’altro di prendere un aereo per Berlino per andare a far serata al Berghain. Per poi ovviamente violare la politica del club sul divieto di fare foto. “Tecnicamente, ora sono esiliato a vita,” racconta ridendo. “Ma non ho rimpianti. I dadi per me sono stati una parabola discendente, ma una parabola positiva in ogni caso.”

“Mi ricordo che in un’altra occasione mi sono introdotto nel cimitero di Harrow per suonare i bonghi. Mentre scavalcavo, con i bonghi in una mano e un grosso crocifisso in un’altra, alcune persone su un bus mi hanno visto e non hanno detto o fatto nulla. Ho capito quanto agli altri non interessi ciò che fai, fintanto che non fai del male a nessuno.” Araz spiega poi quanto il lancio dei dadi porti spesso con sé un momento di chiarezza assoluta, mentre i tuoi veri desideri ti vengono rivelati dalla smania di un risultato ben preciso.

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Si tratta di un’esperienza confermata dalla ricerca, dice Eva Krockow, una psicologa che si sta specializzando nei giudizi e nei processi decisionali. Da parte sua, non apprezza le scelte psicopatiche del protagonista del libro, ma conferma che i dadi, il lancio di una moneta o altri meccanismi simili che portano a compiere “scelte aleatorie”, possono essere usati in maniera mirata per ridurre il carico cognitivo e semplificare le decisioni.

“Nella società moderna è un problema il fatto di avere così tanta scelta,” afferma. “Pensiamo sia una cosa desiderabile e auspicabile, ma in realtà non riusciamo a gestire questa situazione. Alla fin fine, può anzi rivelarsi ben poco soddisfacente. E possiamo introdurre un po’ di casualità nelle scelte più piccole e meno importanti perché in realtà non hanno particolare importanza all’interno del grande disegno universale.”

L’eco di scelte così piccole e apparentemente senza conseguenze può impiegare anni, o una vita intera, a manifestarsi. E possono persino essere così sottili da passare sotto silenzio. Joe e Graham, evidentemente, hanno invece preso una decisione enorme tramite i dadi, quella di lasciare Liverpool per rilanciarsi come reporter di guerra. Oggi, a quasi 30 anni di distanza, sono entrambi giornalisti investigativi di successo, producono documentari e hanno scritto libri andati molto bene.

“Quando sono tornato dalla Bosnia non ero più la stessa persona,” sottolinea Joe, che oggi ha 53 anni. “Se non fossi partito, credo che ora abiterei un appartamento fatiscente nelle case popolari di Liverpool. Le leggi che governano il caso sono addobbate da imbrogli e cavilli. L’universo fa quel che vuole e tu devi accettarlo. Io ero il perdente con le occhiaie e sempre senza soldi. Ma sono arrivato dove sono grazie al lancio di un dado.”