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Secondo questa teoria, il cervello usa le leggi della fisica quantistica

I sistemi quantistici neurali comunicherebbero a distanza e contemporaneamente tra di loro, proprio come avviene nell'entanglement.
Immagine via Flickr/Nicholas Hardeman

Nel 1988 il fisico americano Matthew Fisher, vessato dalla depressione con cui convive ormai da due anni, decide di recarsi da uno specialista. Questi gli prescrive un antidepressivo triciclico, una molecola complessa che oggi non è quasi più in uso. Dopo poco tempo e con sua enorme sorpresa, Fisher si riprende completamente. Da allora, per anni, continua a chiedersi in che modo abbia agito l'antidepressivo. Interroga anche diversi esperti tra cui il suo medico, ma riceve sempre la stessa risposta: gli scienziati sono ancora lontani dal capire nel dettaglio molti dei meccanismi alla base del funzionamento del cervello, compreso quello in questione.

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Fisher continua così ad arrovellarsi sulle cause della sua guarigione, finché, a quasi vent'anni dalla fine della malattia, decide di cercare da solo una risposta ai suoi interrogativi. Nel farlo, applica le sue conoscenze fisiche al mondo delle neuroscienze. Si chiede, infatti, se la natura sfuggente di molti meccanismi cerebrali sia semplicemente dove nessuno la cerca: nella fisica quantistica.

Non è la prima volta che matematici e fisici avanzano ipotesi che intrecciano quantistica e neuroscienze. Nel 1989 il fisico inglese Roger Penrose aveva proposto un modello di elaborazione quantistica che sarebbe occorso nei microtubuli, delle strutture proteiche presenti nel nostro organismo. Penrose, però, non è mai riuscito a dimostrare la sua ipotesi.

Matthew Fisher.

Da Penrose in poi, la comunità scientifica si era rassegnata all'idea che la fisica quantistica avesse poco a che fare con il cervello. Questo perché un sistema quantistico è estremamente delicato. La sua natura è preservata dall'isolamento totale tipico dei sistemi microscopici, pena la decoerenza quantistica. Quest'ultima si verifica nel momento in cui un sistema quantistico entra in contatto con l'ambiente esterno ad esso, perdendo irreversibilmente la sua natura quantistica e ricadendo nelle leggi della meccanica classica. Anche la sola misurazione, ad esempio, è un processo che interferisce con il sistema, rendendolo inosservabile.

Così, dopo Penrose, la speranza di trovare un meccanismo tanto fragile in un ambiente così biologicamente caotico come quello cerebrale si era assottigliata ulteriormente.

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Ma Fisher non si lascia intimidire. Per prima cosa inizia a cercare una molecola utilizzata nei disturbi mentali che possa fungere da modello per i suoi studi. Le sua attenzione viene attratta quasi subito dal litio. Il litio, a differenza di tutti gli altri medicinali usati in psichiatria, rappresenta un modello estremamente facile da studiare perché non è una molecola, ma un atomo. Il litio viene usato da più di un secolo nella cura dei disturbi mentali in qualità di stabilizzante dell'umore. Ancora oggi per il disturbo bipolare viene spesso prescritto il litio-7, un isotopo.

Dopo mesi di ricerche su un suo isotopo e sul suo potenziale effetto sui ratti, Fisher ha un'illuminazione per un esperimento, salvo poi scoprire che è già stato condotto nel 1986 da un gruppo di ricercatori della Cornell. Questi avevano testato gli effetti del litio-7 e del litio-6 sul comportamento materno dei ratti. I risultati incuriosiscono ancora di più Fisher: le mamme-ratto che avevano assunto il litio-7 durante la gravidanza mostravano segni di depressione; al contrario, quelle del litio-6 esibivano comportamenti di cura dei piccoli più marcati del normale.

Il litio-7 e il litio-6 sono due isotopi dello stesso elemento. Questo vuol dire che si differenziano per il numero di neutroni contenuti nel nucleo, e conseguentemente per la loro massa. Questa differenza però diventa irrisoria nel momento in cui il litio è immerso in un ambiente acquoso come quello cerebrale. Qui infatti tende a polarizzare tutte le molecole che lo circondano, creando uno scudo di idratazione talmente esteso da rendere la differenza di massa irrilevante.

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Ma allora, se non è la massa, qual è la differenza tra i due isotopi in grado di spiegare il differente effetto ottenuto sui ratti? Secondo Fisher è lo spin.

Lo spin è una quantità che concorre a definire lo stato quantico delle particelle. Il numero di spin, detta nella maniera più semplice possibile, definisce anche quanto un nucleo atomico è reattivo ai campi magnetici ed elettrici. Lo spin nucleare più basso possibile è uguale a 1/2, numero che fa sì che il nucleo sia quasi impermeabile. Né il litio-7 né il litio-6 possiedono questo spin. Il litio-7 ha uno spin pari a 3/2, numero che lo rende particolarmente instabile in ambienti acquosi che ne causerebbero immediatamente la decoerenza quantistica. Il litio-6 invece ha uno spin uguale a 1. Malgrado ciò, nella particolare soluzione acquosa e salata tipica del cervello, assume le caratteristiche di un nucleo con spin pari a 1/2, rendendosi di fatto impermeabile alle interferenze esterne fino a cinque minuti, un tempo notevole quando si parla di sistemi quantistici.

Una volta ipotizzato che lo spin nucleare possa essere la chiave di lettura per capire alcuni fenomeni neuroscientifici, Fisher si trova ad affrontare un altro problema.

Il litio è un elemento che compare in quantità minime nell'organismo. È assurdo pensare che la computazione quantistica avvenga soltanto con il litio. Ci deve essere un altro elemento, molto più comune negli organismi biologici, che abbia lo spin uguale a 1/2.

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Esiste, è il fosforo. E dopo estenuanti misurazioni di coerenza (la durata massima di un sistema quantistico prima che sopraggiunga la già citata decoerenza) di varie molecole fosforiche in ambienti biologici, trova quella ideale: la molecola di Posner.

I sistemi quantistici neurali potrebbero immagazzinare quibit di informazione e comunicare a distanza e contemporaneamente tra di loro.

Quest'ultima ha un tempo di coerenza di 10^5 secondi, un intero giorno. Ma soprattutto, questa molecola potrebbe essere coinvolta nelle reazioni chimiche che genererebbero l'entanglement e dunque il sistema quantistico.

L'entanglement è un fenomeno cruciale per capire l'importanza dell'ipotesi di Fisher. Immaginiamo di avere due particelle che interagiscono tra di loro per un certo periodo di tempo; nel momento in cui vengono separate, ipotizziamo di lanciarle in direzioni opposte. La particella numero uno, durante il suo tragitto, incontra un campo magnetico e devia bruscamente la direzione.

Secondo la meccanica classica questo evento non dovrebbe avere alcun effetto sulla particella numero due. Eppure per il fenomeno dell'entanglement accade il contrario: la particella numero due, contemporaneamente alla sua gemella, devia malgrado l'assenza di ostacoli con un moto opposto rispetto all'altra, violando il principio di località che afferma che due oggetti distanti tra di loro non possono influenzarsi a vicenda contemporaneamente.

Applicando questo fenomeno ai neuroni, si capisce la portata dell'ipotesi di Fisher. I sistemi quantistici neurali potrebbero immagazzinare quibit di informazione (l'analogo quantistico dei bit) e comunicare a distanza e contemporaneamente tra di loro all'interno di un sistema impermeabile e a lunga durata. Questo meccanismo sarebbe un ottimo candidato per spiegare, per esempio, l'immagazzinamento di memoria a lungo termine. Ancora, lo spin potrebbe essere la ragione per cui il campo magnetico generato dalla TMS (stimolazione magnetica transcranica) modifica gli stati cerebrali.

Insomma, per ora c'è molta speculazione, e l'impressione è che Fisher stia costruendo un castello di carte affascinante ma fragile, pronto a cadere non appena una delle variabili da lui proposte si dimostri fallace. Ma l'idea che il cervello adoperi a vari livelli e in varia misura tutte le leggi fisiche, chimiche e biologiche a sua disposizione, per quanto apparentemente fantascientifica, non sembra più così peregrina.