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Tecnologia

Amnesty International: l'industria del cobalto sfrutta il lavoro minorile

L'ultimo rapporto di Amnesty International rivela le reali dimensioni dello sfruttamento minorile nell'industria dell'estrazione del cobalto in Congo, la stessa che garantisce componenti chiave per le batterie dei nostri smartphone e laptop.

Che tu stia usando un telefono o un computer portatile per leggere questo articolo, ci sono ottime probabilità che la batteria che lo alimenta contenga del cobalto—Più precisamente, è quasi certo che tu stia continuando a leggere queste parole grazie ad una batteria agli ioni di litio con ossido di cobalto, ovvero un accumulatore con un catodo di ossido di cobalto e un anodo di grafite di carbonio.

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Ora le brutte notizie: secondo un reportage pubblicato ieri da Amnesty International in collaborazione con African Resources Watch, alcune grosse aziende del mondo tech acquistano le loro batterie da compagnie che si avvalgono del lavoro minorile per l'estrazione di cobalto. Avviene nella Repubblica Democratica del Congo, dove il cobalto che viene estratto finisce nelle batterie di smartphone, laptop e auto.

Di tutti i progressi fatti negli ultimi cinquant'anni di storia della tecnologia digitale moderna, rimane un inconveniente all'apparenza impossibile da risolvere: qualunque sia la condanna elettronica che hai scelto di portare con te in tasca, nella giacca o nello zaino, la durata della batteria del dispositivo continua a essere un ostacolo insormontabile.

Siamo ancorati alle reti elettriche. Non importa la marca o la qualità del tuo laptop o del tuo smartphone: nel migliore dei casi il requisito minimo per un quieto approccio con il vivere civile è una garanzia di accesso ad una spina elettrica almeno ogni ventiquattro ore. Millequattrocentoquaranta minuti al giorno, ognuno dei quali deve essere accompagnato da un dispositivo elettronico carico—spesso gli aggeggi non aiutano nell'impresa, ed è per questo che negli ultimi anni il mercato delle batterie esterne ha visto l'arrivo di una nuova età dell'oro.

Un grab del rapporto.

Forse è arrivato il momento di ridimensionare le nostre prospettive energetiche, visto che il rapporto pubblicato oggi da Amnesty International parla in modo piuttosto chiaro della provenienza di un componente fondamentale delle nostre batterie al litio.

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"Il rapporto ricostruisce il percorso del cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo: attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smart phone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili," si legge nel comunicato di Amnesty International. Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE: queste le multinazionali sotto accusa di sfruttare indirettamente il lavoro minorile per l'estrazione del cobalto.

Prima della pubblicazione, Amnesty ha sottoposto il rapporto alle multinazionali, "una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto l'evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso indagini. Nessuna delle 16 aziende è stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto."

"Non c'è alcun tipo di protezione per chi è coinvolto nell'estrazioni di questo tipo di risorse; il cobalto non è nemmeno inserito tra i 'minerali di guerra'."

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Il problema, purtroppo, non riguarda solo il piano etico, "la Repubblica Democratica del Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale, e oltre il 40 per cento del cobalto trattato dalla Huayou Cobalt proviene da quello stato," si legge nel comunicato. Ciò significa, banalmente, che un'azienda che volesse comprare del cobalto privo del sudore (e spesso del sangue) di un minore, avrebbe non pochi problemi a trovare un'alternativa competitiva.

Secondo il rapporto, in Congo la filiera del cobalto parte dalla ex provincia di Katanga, una zona nel sud del paese ricca di punti di estrazione per il minerale e in cui si trovano gran parte dei centri dedicati all'estrazione, "i minatori artigianali vendono il loro prodotti alle case di acquisto autorizzate nei pressi delle miniere, molte delle quali sono gestite da aziende estere. Queste case di acquisto vendono il minerale alle aziende di commercio internazionale, che lo raffinano in strutture presenti in Congo prima di esportarlo. Normalmente, il minerale viene poi caricato su dei camion e trasportato al porto sudafricano di Durban. Da lì, viene caricato su delle navi con destinazione Cina, per la fase finale della raffinazione e la vendita ai fabbricatori di componenti."

Le regolamentazioni e le leggi vigenti in Congo non regolano né proteggono i minori che potrebbero essere obbligati dalle famiglie a lavorare in queste miniere, e un'esposizione prolunga alle polveri di cobalto può causa malattie respiratorie fatali. Il rapporto di Amnesty mostra come la maggior parte dei minatori, rinchiusi per moltissime ore ogni giorno nelle miniere, "non abbiano nemmeno l'equipaggiamento di protezione base, come guanti, vestiti da lavoro o mascherine."

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Il rapporto include un'analisi delle risposte delle multinazionali alla richiesta di commenti sulla questione, "In realtà è molto difficile tracciare le origini dei materiali a causa delle clausole di riservatezza dei fornitori e la complessità della catena di dell'industria," afferma Samsung—"Prendiamo questa faccenda molto sul serio e abbiamo condotto un'inchiesta interna. Fino ad ora, non siamo riusciti a trovare prove che confermine il fatto che i nostri prodotti contengano del cobalto estratto a Katanga, in Congo," Sony—"In questo momento stiamo analizzando dozzine di materiali diversi, incluso il cobalto, al fine di identificare i rischi umanitari e ambientali legati a essi oltre che le opportunità disponibili per generare un cambiamento, efficace, estendibile e sostenibile all'industria," Apple.

Ho parlato con Riccardo Noury, portavoce nazionale per Amnesty International, per cercare di capire come è emerso il problema del lavoro minorile nell'industria del cobalto in Congo, "Nel sud del Congo ci sono le principali miniere di cobalto e sulla base dei dati forniti da UNICEF migliaia di bambini vengono lì impiegati nelle miniere: 40.000 bambini lavorano nel sud del Congo, il collegamento successivo è piuttosto logico, e la pervasività del problema è testimoniata anche dalle 87 interviste a minatori e ex-minatori incluse nel rapporto," mi spiega.

L'altro interrogativo riguarda la metodologia: se sono i buchi legislativi, le condizioni economiche e l'omertà a permettere il proliferare di questo tipo di filiera, allora l'idea di un'indagine sul territorio non deve essere andata esattamente a genio ai locali, "Che io sappia non ci sono stati problemi di questo tipo, altrimenti sarebbe già stato espresso nel comunicato stampa: il tema non è tanto quello della difficoltà a raccogliere le testimonianze a livello base: è facile arrivare alla forza lavoro, è difficile arrivare alle multinazionali; sono troppi quelli che dicono non lo so, quelli che negano l'evidenza e quelli che ignorano il problema."

Infine, ho cercato di approfondire proprio questa voragine legislativa, "Il problema parte sin dalle autorità locali in Congo: c'è una carenza legislativa a livello locale, c'è anche una convenienza complessiva in termini economici che permette a questo tipo di mercato di preservarsi, c'è il discorso del sottosuolo in Congo: anche dopo la crisi del coltan, non c'è alcun tipo di protezione per coloro coinvolti nell'estrazioni di questo tipo di risorse; il cobalto non è nemmeno inserito nei 'minerali di guerra'," conclude.

Segui Federico su Twitter: @nejrottif