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Tecnologia

'Shooting a Revolution': più guardiamo la guerra, più diventa irreale

Donatella Della Ratta ci ha spiegato come la tecnologia ha fomentato la violenza nella 'guerra più youtubizzata di sempre': il conflitto siriano. Ne ha scritto nel suo libro: 'Shooting a revolution: visual media and warfare in Syria'.
Immagine: grab dal trailer di 

In inglese la parola shooting sta sia per “filmare” che per “sparare” e viene spesso utilizzata nei giochi di parole. Nel caso dell’ultimo libro di Donatella Della Ratta, dal titolo Shooting a revolution: visual media and warfare in Syria, il doppio significato coincide con l’oggetto della ricerca: il rapporto tra violenza e internet in quella che è stata definita “la guerra più youtubizzata di sempre”.

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Donatella Della Ratta, attivista, esperta di Medio Oriente e docente alla John Cabot University di Roma, ha vissuto a lungo in Siria ed è stata coinvolta da vicino nelle prime fasi della ribellione al regime. Come capo della comunità di lingua araba di Creative Commons, gestiva un hacker space a Damasco che le ha permesso di entrare in contatto con quelle comunità nerd — gruppi di techie, comunità open source, wikipedians — che sono state poi tra le prime a opporre resistenza ad Assad.

La loro fiducia nel potere della tecnologia è stata alla base di una forma di ribellione che li ha spinti a filmare e caricare sulle principali piattaforme tutto ciò che accadeva durante manifestazioni di protesta e conseguenti repressioni. La loro speranza, tra le altre cose, era che quella documentazione potesse scuotere le coscienze politiche a livello internazionale. Ma da parte dell’Occidente non c’è stata nessun vero intervento in Siria, solo un morboso voyeurismo mediatico che è necessario analizzare.

Il libro, distribuito dalla casa editrice radicale londinese Pluto Press, si troverà sugli scaffali delle librerie dal prossimo novembre. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Donatella di recente durante un Simposio, e ci siamo fatti spiegare il contenuto del suo studio nel marasma di una tarda serata romana.

Motherboard: Sei arrivata in Siria nel 2008 per uno studio etnografico sulle soap opera. Che situazione hai trovato?
Donatella Della Ratta: Quando sono arrivata c’era un certo fervore in tutto il mondo arabo. In Siria molta della vita sociale si svolgeva su internet, perché la discussione pubblica a proposito di temi politici è molto limitata. Insieme ad altri, tra cui Bassel Khartabil aka Safadi [un noto attivista ucciso dal regime nel 2015, ndr] gestivo un hacker space in cui insegnavamo coding, non era un posto politicizzato. Ma ci si fidava solo di piccoli gruppi, amici di amici. Si parlava di politica a bassa voce perché tutti avevano paura. Tutti sapevano usare i proxy, per dirti. I più giovani erano molto talentuosi e speranzosi, credevano nel potere della tecnologia. Sai, sono aree geografiche anagraficamente molto giovani: c'è un'elevata percentuale di persone nate già con lo smarphone in mano che credevano di poter cambiare le cose.

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Il libro gioca sul doppio significato di 'shooting' in inglese. Mi spiegheresti meglio il legame tra violenza e tecnologia, nel conflitto siriano?
La mia tesi è che si tratta di un momento storico in cui l'accelerazione mediatica globale — tecnologie a basso costo, hardware pirata, eccetera — si è incontrata con l'accelerazione della violenza da parte del regime e di tutti gli altri gruppi armati in campo, locali e internazionali.. A partire da quel fatidico 15 marzo 2011, tutto avveniva su YouTube: dalle operazioni mediche a quelle militari alle torture, tutto. Questa produzione mediatica compulsiva ha contribuito alla distruzione a dare visibilità alla violenza e alla distruzione, generando un circolo vizioso di sempre più visibilità e sempre più violenza, entrambe in stato di perenne accelerazione.

Dici che le due cose si sono autoalimentate?
Sì, secondo me sì. Il primo motivo per cui molti attivisti sono stati incarcerati e torturati è che hanno filmato.

Quindi in nessun modo il fatto di documentare ha scoraggiato la violenza, come ci si aspettava.
La convinzione con la quale i miei amici ribelli, compreso Bassel Khartabil aka Safadi, hanno filmato la parte iniziale della rivolta era che documentare le violenze avrebbe scosso le coscienze. Internet era fonte di speranza, speravano in un intervento del tribunale de L’Aia, della corte internazionale. Ma l'errore è stato proprio questo: credere che la quintessenza della tecnologia fosse liberatoria, fonte di democrazia e pluralismo.

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Ma forse è colpa di 'noi occidentali' che ci siamo limitati a guardare. Siamo complici, in questo caso.
In un certo senso sì, ma la questione è anche a monte: non c'è nessun rapporto di causa-effetto tra visibilità e azione. Approcciare la tecnologia senza strumenti critici è molto pericoloso. Ed è questo che è successo a noi in Siria: pensavamo che twittare e condividere avrebbe portato a dei risultati, ma era falso. Non è vero che "se sai, agisci." È una fantasia tecno-determinista, una falsa credenza, una fallacia.

Però nel caso di #metoo, per esempio, i social sono serviti ad attivare un effetto domino…
I protagonisti di #metoo erano attori di Hollywood, non conta. Un'élite bianca, bella, ricca, famosa, comprese le donne che sono state oggetto di violenza e soprusi. L''economia politica' dietro al fenomeno #metoo è completamente diversa da quella della guerra in Siria. Queste attrici siamo noi, o almeno sono quello che vorremmo essere noi, nonostante le violenze. Lo stesso non si può dire degli attivisti siriani uccisi in real time nella piena apatia dei social.

Com’è che è degenerata così male, in Siria?
La Siria è piena di minoranze etniche e religiose, è una polveriera in cui ognuno ha la sua versione dei fatti, i suoi interessi, valori, identità da difendere. E questo è il primo motivo per cui esiste un terreno fertile per agitare lo spauracchio della guerra civile. Il regime ha puntato molto sui media tradizionali, come la televisione, per supportare questa narrativa e coltivare queste paure di degenerazione settaria. Dall'altra parte c'erano i ribelli gli attivisti, che usavano internet. A un certo punto il regime, furbissimo, ha capito che il digitale è il campo dell’incertezza, dove tutto è photoshoppabile, rimaneggiabile. Così ha attivato la Syrian Electronic Army — una cyber unità di hacker pro-regime —ma anche migliaia di cittadini comuni simpatizzanti di Assad, impegnati a diffamare e screditare gli attivisti instigando, ad esempio, dubbi sulla veridicità dei video.

C’è stata una qualche censura da parte del governo per quanto riguarda i contenuti caricati dai ribelli?
Fino a un mese prima dell’inizio della rivolta, i social erano bloccati. Assad, molto furbamente, ha tolto il divieto sull’onda delle primavere arabe, dopo la caduta del regime in Tunisia ed Egitto. Ha consentito l’accesso libero a tutti, spingendoli a togliere i proxy attraverso i quali prima si accedeva a Facebook o YouTube, così da poterli tracciare.

Comunque il regime in sé, ufficialmente, non ha censurato le informazioni provenienti dagli attivisti, piuttosto , come ho spiegato prima, le ha screditate. La vera censura in termini digitali viene paradossalmente da YouTube e Facebook che hanno rimosso molti dei contenuti della prima fase pacifica della rivolta. Caricare tutto su piattaforme proprietarie come YouTube è stato molto ingenuo da parte degli attivisti. Si tratta di luoghi privati, non si può protestare per le loro decisioni: se i video vengono segnalati come violazioni dei termini di servizio da parte di un numero sufficiente di utenti (che naturalmente hanno un'agenda pro-regime),le piattaforme li rimuovono.

Da parte nostra c'è quasi una pornografia intorno a questa guerra: tanta curiosità e zero empatia. Perché secondo te? Stiamo diventando dei mostri?
Forse vedere troppo le cose ci anestetizza e le fa diventare irreali. Ovviamente, la questione della guerra in Siria include molte dimensioni geopolitiche, non solamente quella mediatica. Ma c’è un’inerzia specifica dovuta all’aver visto troppo. Per dirti, nel 1982 in Siria ci fu una rivolta in cui il regime uccise 40.000 persone. Tutto il popolo siriano sa del massacro, nessuno lo mette in discussione. Oggi invece nessuno crede davvero a niente: troppe immagini generano la sospensione della comprensione, all'aver condiviso troppo: paradossalmente, un'apatia 'social'.