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Tecnologia

Cosa resta di Internet dopo lo scandalo di Cambridge Analytica?

Ci siamo aggirati per le rovine del web insieme all'attivista iraniano Hossein Derakhshan.
Riccardo Coluccini
Macerata, IT
Immagine: Motherboard Italia

Il caso Cambridge Analytica ha definitivamente mostrato al mondo intero il livello di pervasività della struttura per la raccolta dei dati messa in piedi da Facebook. Il social network, mentre ci garantisce la cura algoritmica delle nostre bacheche, continua costantemente a raccogliere dati sulle nostre attività e preferenze.

Questa rete di sorveglianza si estende a tutti i siti web che, cercando di ottenere guadagni dalle inserzioni pubblicitarie, permettono agli inserzionisti di tracciare ogni nostra attività online.

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I titani della Silicon Valley hanno centralizzato il controllo dell’informazione.

L’idea originaria del web, inteso come spazio decentralizzato in cui le informazioni possono viaggiare liberamente, sembra definitivamente tramontata. I titani della Silicon Valley hanno centralizzato il controllo dell’informazione.

In occasione della conferenza internazionale State of the Net, che si è svolta a Trieste il 14 e 15 giugno scorsi, in cui esperti di internet si sono ritrovati per parlare dello stato di salute della rete, abbiamo avuto l’opportunità di discutere con Hossein Derakhshan, collaboratore presso la Harvard Kennedy School’s Shorenstein Center e ricercatore associato al MIT Media Lab, riguardo la trasformazione che internet sta attraversando.

La seguente intervista è state editata per necessità di chiarezza e lunghezza.

Hossein Derakshan durante il suo panel a State of the Net. Immagine: State of the Net

MOTHERBOARD: Qual è stata la tua reazione allo scandalo di Cambridge Analitica? Qual è la portata di questo scandalo?

Hossein Derakhshan: Ad essere onesti, credo sia stato molto meno importante di come l’hanno dipinto i media perché credo non fosse nulla di sconvolgente o radicalmente inaspettato. Tutte le aziende che offrono servizi su internet lo hanno fatto in questi anni: hanno condiviso le informazioni personali degli utenti con terze parti, alcuni nel rispetto dei termini di servizio accettati dagli utenti, altri, forse, illegalmente. Da un punto di vista etico, non è stato nulla di nuovo e lo stesso vale dal punto di vista legale. Ma politicamente credo sia stata una novità, dal momento che alcune persone ora credono che Facebook abbia effettivamente pesato sui risultati delle elezioni americane. E per colpa di questo approccio americo-centrico, ora pensiamo che questo sia il problema centrale quando in realtà, già in passato, ci sono stati casi di influenza in altri sistemi politici in altre parti del mondo, ma nessuno ne parla.

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Quindi, credo ci sia chiaramente un’esagerazione riguardo la novità, l’impatto e il significato di questo caso.

"Questi algoritmi tendono a relegarci nella nostra sfera di comfort riducendo la discussione. E questo va contro il significato di democrazia."

Durante la primavera araba i social media erano visti come una forza per il bene ma ora ci troviamo nel punto diametralmente opposto in cui crediamo siano una minaccia. Stiamo assistendo ad un cambiamento nella percezione dei social media, ma come siamo finiti a questo punto?

Una parte di questo trend è legato ai media americani ma un’altra parte è effettivamente collegata ad un cambiamento che abbiamo osservato negli scorsi anni: si è passati da un certo tipo di spazio decentralizzato e non-lineare che veniva utilizzato per le discussioni pubbliche — e che ancora non era molto regolato dagli algoritmi — a uno in cui questi algoritmi controllano ogni aspetto delle nostre vite. E come risultato, quindi, sono diventati uno spazio poco adatto alle discussioni pubbliche e al confronto. Questi algoritmi tendono a relegarci nella nostra sfera di comfort riducendo la discussione. E questo va contro il significato di democrazia.

Da qui, quindi, la tua idea di offrire la possibilità ad ogni utente di scegliere il proprio algoritmo?

Sì questa è la mia idea radicale. Dovrebbe esserci una legge che sancisce la separazione fra l’hardware e il sistema operativo — che in questo caso vuol dire dividere le piattaforme dall’algoritmo perché effettivamente gli algoritmi funzionano in modi simili al sistema operativo. Se le piattaforme sono obbligate a concedere l’utilizzo di algoritmi prodotti da terze parti sarebbe un buon inizio per risolvere molti dei nostri problemi.

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Per fare ciò, però, c’è bisogno di aumentare la competizione e il mercato intorno questo settore. In questo caso possiamo immaginare quindi migliaia di aziende che producono algoritmi in base a diversi valori e priorità e le persone possono comprare gli algoritmi che preferiscono da utilizzare sui propri profili Facebook e Twitter, ma persino per le loro auto a guida autonoma: ad esempio, se Google Maps, predilige i percorsi più veloci, potrebbero esserci algoritmi che avvantaggiano i percorsi paesaggistici oppure quelli in cui si produce meno inquinamento, o che passano per zone rurali spesso dimenticate.

Sappiamo benissimo che gli algoritmi non sono neutrali, e appunto per questo noi dovremmo poter decidere come gli algoritmi devono comportarsi per poter finalmente riprendere il controllo sulle informazioni.

Nel libro Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica , scritto da Steven Levy, fra i vari principi dell’etica hacker c’è quello per cui “le informazioni vogliono essere libere” e i collegamenti ipertestuali — comunemente chiamati link — sono proprio una delle fondamenta del web. In questo momento, però, ci troviamo di fronte alla morte dei link, come tu stesso hai sottolineato nel tuo post The web we have to save . Che cosa sta avvenendo?

Il web si sta trasformando nella televisione perché senza i link perde la sua vera natura decentralizzata e non lineare. I link sono molto di più che la semplice struttura scheletrica del web, sono anche i suoi occhi in grado di volgere l’attenzione al di fuori della singola pagina creando collegamenti. I social media, invece, hanno la tendenza a prediligere immagini e testi presenti all’interno delle piattaforma, portando a una chiusura.

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Se da un lato abbiamo sempre meno persone che guardano la TV tradizionale, in particolare i giovani, dobbiamo pensare però che quello stesso tempo è dedicato ai social network. E le conseguenze sono proprio le stesse della televisione e probabilmente persino peggiori: perché almeno in televisione potresti trovare dei contenuti che ti sorprendono poiché non è tutto gestito dagli algoritmi. Ma sui social network questo elemento di stupore non c’è, tutta l’esperienza è personalizzata sulla base dei tuoi gusti.

Cosa rimane del web e qual è la tua visione per il futuro?

Credo che tutto ciò che rimane del web siano ancora alcuni siti e progetti: Wikipedia, per esempio, è uno di questi.

E credo sia veramente simbolico: finché c’è Wikipedia non perdo la mia speranza. Possiamo far risorgere alcuni degli ideali originari del web. Credo che serviranno un altro paio di generazioni per sistemare la situazione perché tutto questo fa parte di un problema più ampio che considero un cambiamento della civiltà, quello che chiamo il passaggio dall’Illuminismo al Post-Illuminismo.

Al centro dell’Illuminismo vi era il concetto di educazione, ma per dare nuova spinta all’educazione dobbiamo prima fare i conti con le disuguaglianze. Non credo avremo altra via d’uscita se non creiamo una società più equa — e di conseguenza più educata. Sfortunatamente, tutte le statistiche mostrano che il mondo sta diventando sempre più diseguale e non c’è da stupirsi quindi se alcuni di questi ideali stanno scomparendo. La buona educazione ha bisogno di uguaglianza.

Segui Riccardo su Twitter: @ORARiccardo