FYI.

This story is over 5 years old.

Tecnologia

Porte sbarrate, chiavi e sangue: tentare di risolvere un escape game

Da dove arrivano gli escape game, l'ultimo fenomeno dell'intrattenimento nel mondo reale?
Giulia Trincardi
Milan, IT
via Trap

Siamo in tre, fermi in un vicolo buio di periferia. Stiamo cercando una persona e sappiamo per certo che è passata di qui. Sulla sinistra c'è una panchina, a terra delle foglie e più in là due porte chiuse a chiave. L'accesso da cui siamo appena passati si è chiuso con un tonfo sordo alle nostre spalle e un conto alla rovescia ha cominciato a lampeggiare pressante sulle nostre teste: abbiamo 60 minuti per risolvere quel mistero e uscire.

Pubblicità

Qualche giorno prima, il mio coinquilino mi aveva chiesto se mi andava di partecipare a un escape game. Ho giocato di ruolo per anni e i giochi di logica—molto più che quelli di botte—mi incuriosiscono da sempre, ma non ho mai fatto una partita nella vita reale. Per quanto certe sedute di D&D a cui ho partecipato abbiano saputo raggiungere un considerevole livello di realismo (grazie alla bravura del mio master, soprattutto), davanti non ho mai avuto più che carta, penna e dadi. Risolvere un mistero mettendo mano fisicamente ai suoi indovinelli ha rappresentato decisamente una novità eccitante per me.

L'azienda che ci ha offerto questa esperienza si chiama Trap ed è un franchise internazionale. La sede a Milano è stata la prima in Italia, seguita da una a Roma e dall'imminente apertura di una a Padova. Quando arriviamo, ci accoglie Bee, una ragazza dagli occhi sorridenti che, dopo averci esposto le regole del gioco e qualche premessa tecnica doverosa—non usare la forza bruta, non mettersi in tasca le chiavi trovate nelle stanze—cambia leggermente tono e inizia a raccontarci perché siamo lì. Siamo stati ingaggiati per ritrovare una bambina scomparsa la settimana precedente e avvistata per l'ultima volta mentre si infilava nella porta oltre la quale ha inizio il gioco.

Trap Milano offre due stanze, una a tema antico Egitto e una (quella a cui abbiamo giocato noi), intitolata La Tomba, il cui mood ricorda un po' un horror di inizio secolo, tra giocattoli d'antiquariato e libri impolverati. All'uscita, il responsabile mi racconta che stanno lavorando alla terza stanza—per cui hanno preso una struttura a parte, sempre a Milano—e che organizzano anche sessioni all'aperto per clienti aziendali. L'ultima è stata tra le architetture fatiscenti di Consonno, un paesino abbandonato vicino a Milano.

Pubblicità

Entrando nella sede dell'organizzazione, sembra di trovarsi sul set di un film: la parte di ufficio è bianca e minimale, con un armadio e una scrivania munita di schermi da cui gli organizzatori monitorano i giocatori dentro le stanze, fornendo—quando necessario o richiesto—qualche suggerimento; le porte di accesso ai giochi, invece, saltano subito all'occhio: un'intera parete obliqua e dorata porta al gioco della Piramide, una con un decoro di mattoni scalcinati alla Tomba. Mi fa pensare a Nightmare Before Christmas, alla scena del cerchio di alberi da cui Jack accede al paese del Natale.

I giochi sono pensati per un tipo di pubblico eterogeneo; l'Egitto è adatto a tutte le età, mentre la Tomba ha un'atmosfera un po' più inquietante e indovinelli più difficili, motivo per cui si presta a giocatori più adulti. "Non sono mancati i bambini accompagnati dai genitori, però," mi spiega Marco, il responsabile. "Alle volte si intimoriscono, più spesso sono loro che contribuiscono meglio al gioco, perché si immedesimano di più." L'aspetto "antropologico" mi interessa e, dopo la partita, ne parliamo. Mi racconta che, oltre a tanti avventori "convenzionali"—ragazzi che giocano abitualmente, combriccole di amici e famiglie—, gli è capitato anche di vedere tornare un impensabile gruppetto di signore anziane entusiaste della prima esperienza. Le reazioni sono delle più disparate, da persone che escono e "sembrano tornate bambine," a chi esce incazzato perché non ha saputo risolvere il mistero entro lo scadere dei 60 minuti. C'è chi finisce in anticipo, superando anche gli indovinelli più difficili senza aiuti, e chi decide di ignorare le serrature e prendere le porte a calci per aprirle (non fatelo, davvero).

Pubblicità

via Trap

Anche la mia partita si è rivelata particolarmente interessante dal punto di vista umano. Giocare a un escape game con persone che conosci ti permette di osservarle sotto una luce diversa: il mio coinquilino, decisamente più razionale di me, si preoccupava del tempo che scorreva e faceva cosiddetto meta-game, cercando di capire in che modo era costruito il gioco, per "fregarlo"; l'altro amico che era con noi cercava di seguire solo la logica degli indovinelli; io—forse per via delle mie precedenti esperienze—ero immersa nel misticismo della storia e mi perdevo a guardare bambole e vecchi dischi. Eravamo tre teste radicalmente diverse che dovevano trovare per forza un accordo per andare avanti nel gioco: decisamente la parte più strana dell'esperienza.

Gli escape game (o escape room), sono nati in tempi relativamente recenti, per opera di un gruppo di programmatori della Silicon Valley. Le radici—soprattutto a livello di meccanica—e i paralleli, però, sono molteplici e ben più vecchi: dai vecchi libri di mistero ai giochi di ruolo IRL, passando per i videogiochi punta e clicca, i giochi da tavolo e le classiche cacce al tesoro. Gli escape game sono dunque una sorta di ibrido culturale, che recupera una dimensione fisica, ma limitandola a uno scenario di finzione totale, come su un palcoscenico, e solo per un tempo determinato. Chi gioca accetta, almeno implicitamente, di sottrarsi alla realtà e calarsi in un mondo a parte, di cui è agente.

Pubblicità

Gli escape game (o escape room), sono nati in tempi relativamente recenti, per opera di un gruppo di programmatori della Silicon Valley.

Il punto debole—chiaramente—è la cosiddetta replayability: una volta giocata una partita e indovinato il mistero, non ha più senso giocarci. "È anche per questo che vogliamo aprire altre stanze," mi dice Marco. "Per offrire nuove esperienze ai giocatori che hanno apprezzato le prime." Inoltre, conclude, pensare a una nuova avventura e calcolarne i dettagli narrativi e tecnici è la parte migliore del loro lavoro. Trap si affida a una serie di artigiani locali per costruire le scenografie e dispone di un elettricista che mette a punto i meccanismi di certi indovinelli.

A Milano sono già proliferate diverse situazioni simili, sintomo che, se non altro, le persone sono divertite all'idea di lasciare il telefono in un armadio per un'ora e immergersi in uno mondo alternativo. Inoltre, basta fare una ricerca rapida su Google per capire che nel resto del mondo è una scena già calcata da tanti.

Un ritorno a una fisicità di gioco, oggi che la realtà virtuale fa passi da gigante e i videogiochi mainstream hanno un mercato sempre più forte, è un indizio sociale interessante su cui riflettere. Solo un anno fa, lo stesso coinquilino con cui ho partecipato all'escape game, mi ha fatto conoscere Ingress, il gioco in realtà aumentata in cui, in sintesi, giri per la città alla conquista di "portali," ovvero punti distintivi del tessuto urbano come statue, luoghi e monumenti storici.

La parte che lo entusiasmava di più di Ingress, per cui lo vedevo inforcare la bicicletta a orari improbabili della notte imprecando contro un colpo sferrato dalla squadra avversaria, era l'ipotesi di incontrare perfetti sconosciuti sul luogo del portale e stringere amicizie fugaci e di virtuale alleanza. La realtà aumentata è diversa da un escape game, ovviamente; mentre il secondo avviene in un luogo separato dalla realtà quotidiana ma tangibile—e per la cui costruzione è richiesta una certa esperienza artigiana analogica—la prima si impone come un velo transitorio sul mondo che conosciamo e vediamo sempre. Inoltre, va considerata anche una differenza di mercato: per quanto gli escape game possano rappresentare una nicchia fiorente, la realtà aumentata sembra già destinata a numeri esagerati. Eppure, in un certo senso, entrambi operano sulla base di un meccanismo simile: mutare il significato di un luogo fisico, ricrearlo, lasciandovi agire le persone in carne e ossa in modi altri dall'ordinario.

via Trap

Negli ultimi decenni, il mondo dei giochi è diventato in gran parte mondo dei video-giochi; questi ultimi si sono evoluti al punto che—forse—è sbagliato tentare di analizzare nascondino, Cluedo e Call of Duty secondo gli stessi criteri. L'unica domanda che resta costante è: perché giochiamo? La domanda, in un certo senso, è retorica. Quello che però possiamo capire anche da soli, solo guardandoci intorno, è che il nostro desiderio di gioco, negli ultimi tempi—dall'introduzione dei giochi multiplayer online, alle piattaforme puramente social come Second Life, all'esplosione dei party-game—è accompagnato dalla volontà di recuperare una dimensione sociale e fisica, che i primi videogiochi avevamo necessariamente escluso. Che questo sentimento possa essere sotteso anche al perché le persone giochino agli escape game, non è da escludere.

Arrivati all'indovinello finale, mentre i minuti volavano via, i miei compagni ed io correvamo da una parte all'altra della stanza, cercando freneticamente gli ultimi indizi. Una volta sbloccato l'ultimo meccanismo, in fondo al vicolo la porta ermetica da cui eravamo entrati all'inizio si è riaperta, mentre Bee ci sorrideva al di là della soglia. Leggermente storditi e ancora euforici per aver risolto il gioco, abbiamo fatto un passo fuori. "Vi siete divertiti?"