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Tecnologia

'Lo chiamavano Jeeg Robot' ci insegna che non abbiamo bisogno di Hollywood

Giulia Trincardi
Milan, IT

Ieri sera è uscito nelle sale italiane Lo chiamavano Jeeg Robot, film diretto da Gabriele Mainetti e ambientato tra i fenomeni umani e i mostri di cemento di Tor Bella Monaca, nella periferia di Roma. È un film "di supereroi," che riesce però, per gran parte del tempo, a prendere una distanza interessante dal genere in questione, rivelando qualcosa di significativo sul cinema italiano di oggi.

Da qui in poi, siete a rischio spoiler.

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Lo chiamavano Jeeg Robot racconta la storia di un delinquente di borgata — Enzo Ceccotti, interpretato da Claudio Santamaria — , il quale per scappare dalla polizia dopo aver rubato un orologio, si butta nel Tevere contaminato da rifiuti tossici non meglio identificati. Dopo una notte di vomito nero e febbre altissima, i liquami del fiumi gli procurano dei super poteri. La sua vita deraglia da un binario di solitudine e micro-crimine quando, in seguito a un recupero di ovuli di droga andato male, si ritrova a prendersi cura della figlia del suo complice, Alessia (Ilenia Pastorelli) — una ragazza disturbata mentalmente e ossessionata dal cartone animato Jeeg Robot —. Così, finisce trasversalmente coinvolto nelle vicende dei mandanti dello scambio di droga, un criminale di mezza tacca egocentrico e psicopatico (lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli) e un clan camorrista napoletano.

Lo Zingaro (Luca Marinelli). Immagine via

Il contesto è chiaro e dipinto alla perfezione: siamo a Roma, ai giorni nostri, l'"eletto" è tutto tranne che uno predestinato dalla nascita alla salvezza dell'umanità e i "cattivi" non sono forze aliene, semi-divinità o tentacolari organizzazioni naziste, ma delinquenti di zona con la fissa per le canzoni italiane trash che "vogliono fa' er botto" e passare dalle rapine al traffico di droga, e camorristi che fanno esplodere bombe alla vecchia maniera con un timer su un pacco di tritolo e un cellulare da 10 euro.

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Per buona parte del film la regia di Mainetti e le interpretazioni dei suoi attori principali regalano un sospiro di sollievo meraviglioso al loro pubblico: unendosi al coro delle ultime produzioni "rivelazione" italiane (Gomorra e Romanzo Criminale, per dirne alcune), Lo chiamavano Jeeg Robot lascia intendere che non ci sia alcun bisogno di fare le cose "come a Hollywood" per produrre un film che sappia raccontare qualcosa e, allo stesso tempo, intrattenerci con un sacco di botte girate bene.

Il mondo di Lo chiamavano Jeeg Robot è un mondo di bancomat con le sacche di inchiostro che ti mandano in merda un ottimo colpo, è un mondo di ignoranti buoni e cattivi.

Legato a questo discorso di distanza dai campioni americani dei film di super eroi, è interessante il fatto che Mainetti abbia scelto Jeeg Robot — anime giapponese andato in onda per la prima volta in Italia nel 1979 — come riferimento culturale da cui attingere, anziché un super eroe della Marvel o della DC.

Per quanto i fumetti e gli eroi americani abbiano sicuramente fatto parte della cultura di formazione italiana, non si può sottovalutare l'influenza che la televisione ha avuto nel nostro quotidiano e i cartoni animati giapponesi hanno costituito, per anni, una grossa fetta di ciò che assorbivamo. I miei personaggi di riferimento, per esempio, non sono mai stati Cat Woman o Spiderman. Quando giocavo a interpretare un eroe, diventavo Sailor Moon, Crystal dei Cavalieri dello zodiaco e Capitan Harlock. Non Superman, ma Jeeg Robot.

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La carriera registica di Mainetti, non a caso, è cominciata con due corti che lavorano sulla falsa riga di Jeeg Robot: il primo, Basette, è un omaggio amaro alle mirabolanti avventure di Lupin III, mentre il secondo, Tiger Boy, proietta il carisma del protagonista di L'uomo tigre su un combattete di incontri clandestini nella periferia di Roma, ma lo fa attraverso gli occhi di un bambino che emula il puglile per riuscire ad affrontare un incubo personale grave.

Il lavoro che Mainetti fa sulla figura del supereroe, è interessante e autentico. Per quanto diverso da prodotti come il meta-fantastico Scott Pilgrim o il cruento Kick-Ass, Lo chiamavano Jeeg Robot è associabile a questi due film per il tentativo di portare il genere "supereroi" su una strada sperimentale e nuova. È assolutamente distante, invece, dai colossi hollywoodiani del genere, nello specifico dalla mega produzione degli ultimi anni relativa all'universo Marvel.

Mentre Hollywood si è dedica alla trasposizione cinematografica dei super eroi Marvel adattandoli pienamente al nostro quotidiano tecnologico, producendo blockbuster che ri-raccontano i personaggi con lo stesso codice di valori che li ha formati in principio e senza fare alcun lavoro di meta-critica del super eroe, Mainetti non ha alcun interesse a raccontare una storia su Jeeg Robot — nello stesso modo in cui il cortometraggio Basette non è un semplice corto "cosplay" su Lupin III.

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Il lavoro che Mainetti fa sulla figura del supereroe, è interessante e autentico.

L'adattamento in questo caso — dove forse è più corretto parlare di citazione anziché adattamento—è meta-critico ed esplicito: prendere Jeeg Robot e fare un film su il giovane Hiroshi Shiba che combatte contro la regina Himica non avrebbe avuto alcun senso. Sarebbe stata un'appropriazione culturale indebita: non vogliamo vedere i cartoni giapponesi in mano agli occidentali, è il motivo per cui un film in live action di quel capolavoro che è Cowboy Bebop non è ancora andato a buon fine, e perché il film americano su Akira è una tragedia annunciata. Quello che fa Mainetti, invece, è prendere il significato che hanno avuto per lui quei cartoni e quegli eroi (e anti-eroi) e raccontarcelo tra le periferie e il disagio dell'Italia che è cresciuta guardando Jeeg Robot, come dice Alessia, "su Tele Capri".

Il mondo dipinto non è un mondo iper-tecnologico alla Avengers, dove organizzazioni militari segrete e miliardari pieni di soldi e dall'intelligenza superiore creano un cuscinetto di fantasia che alimenta un discorso completamente diverso, patinato e scollegato dalla nostra realtà, modellato molto più sull'intrattenimento che su una domanda etica legata all'archetipo del supereroe. Il mondo di Lo chiamavano Jeeg Robot è un mondo di bancomat con le sacche di inchiostro che ti mandano in merda un ottimo colpo, è un mondo di ignoranti buoni e cattivi, di uomini che "non lo so come si fa" con le donne, di bombe messe dalla camorra e di criminali ossessionati dalla fama televisiva prima e di quella su YouTube dopo — criminali la cui vanità è uno splendido tributo all'ossessione per l'estetica vuota della cultura di massa italiana.

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I riferimenti al genere ci sono, ovviamente, come quando lo Zingaro chiede a Enzo, legato come un salame al letto, "Ma tu chi cazzo sei? Ti ha morsicato un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da 'n altro pianeta?" Ecco Spiderman, Batman e Superman, tutti in una frase. I supereroi dei fumetti, nella Roma di Enzo, sono solo questo: supereroi dei fumetti. Esattamente come Jeeg Robot è un cartone animato che una ragazza vittima di violenze umane terribili usa come scudo per difendersi, imponendo una sovrastruttura di significati semplice a un mondo complesso che la terrorizza. La scena in cui questa dinamica diventa chiara, quando Enzo e Alessia sono sul divano e lei ha una crisi di panico violenta, scatenata da un accenno di interesse sessuale da parte di Enzo, è girata con maestria registica e una poetica di dettagli umani meravigliosa: Alessia è immersa nelle immagini proiettate sul muro di Jeeg Robot, mentre Enzo è una sagoma scura e sconosciuta che la sovrasta.

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Il finale è ciò che lascia un po' più perplessi, come se il regista non abbia voluto fidarsi fino in fondo del suo pubblico (a cui, di tanto in tanto, imbocca un po' troppo forzatamente certi passaggi narrativi). L'esigenza di inserire un finale "epico" sembra distrarre la produzione da ciò che funzionava benissimo fino a quel momento; trasformando un cattivo caricaturale quanto basta in un fenomeno da baraccone e chiudendo con un monologo sul significato di super eroe—che strizza l'occhio a quelle trite grandi responsabilità di Spiderman—il film si dimentica di come il fatto che Enzo non sia assolutamente un super eroe sia la cosa più interessante di tutta la faccenda.

La scena dell'inseguimento iniziale, che, senza alcun dialogo di supporto, ci fa capire tutto perfettamente, è antitetica rispetto a questo finale che vuole rassicurarci a tutti i costi del fatto che Enzo abbia accettato il testimone dell'eroe, vuoi per amore o per consapevolezza personale. Quando lo Zingaro risorge armato di super poteri e sfregio in stile Due Facce, per quanto il film continui a regalare scene soddisfacenti, improvvisamente perde la magia che lo aveva animato fino a quel momento, come se avesse sentito l'esigenza di chiedersi "e da qui, Hollywood come farebbe?" e rifacendosi, improvvisamente, allo schema della genesi del super eroe auto-referenziale che ha bisogno di un super-cattivo equivalente, anziché a quella auto-ironica, dissacrante e assolutamente autentica che aveva imbastito durante la prima metà della storia, su personaggi esagerati ma realissimi.

Ugualmente, il film di Mainetti resta un prodotto estremamente interessante per il cinema italiano, un segnale del fatto che ci troviamo finalmente, forse, nel post-digestione degli stimoli culturali subiti finora, stimoli che ora possiamo fare nostri interpretandoli anziché emulandoli. Lo chiamavano Jeeg Robot esplora l'archetipo del supereroe in un paese che non ha mai prodotto supereroi propri—ma che ha assorbito molteplici immaginari lontani—e lo fa recuperando il caotico quotidiano delle periferie italiane, fucine di disagio e storie umane da raccontare.