Attualità

I soldati tedeschi che hanno disertato per unirsi ai partigiani italiani

Anche se è poco noto, la guerra di Liberazione dell'Italia è stata combattuta anche da migliaia di disertori del Terzo Reich. Ne abbiamo parlato con lo storico Carlo Greppi.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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La copertina del saggio di Carlo Greppi Il buon tedesco. Illustrazione di Maurizio A.C. Quarello, per gentile concessione di Laterza.

La tendenza nazionale all’autoassoluzione ha radici profonde, e il mito che la rappresenta più di ogni altro è quello del “buon italiano” contrapposto al “cattivo tedesco”.

Secondo questa versione, i crimini e le atrocità commesse durante la Seconda guerra mondiale non sarebbero da imputare al fascismo in quanto tale, ma piuttosto all’influsso malefico dei nazisti; e questo perché la popolazione italiana sarebbe naturalmente bonaria, tollerante e incapace di fare davvero del male.

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Come ha ricostruito lo storico Filippo Focardi nel saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano—e come ha dimostrato la recente storiografia sul colonialismo italiano—questa leggenda è del tutto artificiale. Nasce già a guerra in corso, veicolata principalmente dalla propaganda alleata, per poi venire adottata da molti soggetti diversi fino ai giorni nostri.

La storiografia più recente, specialmente quella sugli orrori rimossi del colonialismo italiano, l’ha però smontata pezzo dopo pezzo. I ricercatori dell’“Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia” hanno inoltre contribuito a demolire un’altra credenza comune, che attribuisce unicamente ai nazisti la responsabilità dei massacri della popolazione civile in Italia dal 1943 al 1945: oltre a collaborare con i tedeschi, i fascisti hanno agito in piena autonomia nel 18 percento delle stragi.

Se lo stereotipo del “buon italiano” è stato parzialmente ridimensionato, quello del “cattivo tedesco” non ha però avuto la stessa sorte—e infatti ciclicamente rispunta nel dibattito politico. Ma qualcosa si sta muovendo anche su questo fronte, e il saggio Il buon tedesco dello storico Carlo Greppi (curatore della collana Fact Checking di Laterza) è senza dubbio un contributo fondamentale.

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Uscito il 21 ottobre del 2021, dopo un difficile lavoro di ricerca durato parecchio tempo, il libro racconta una delle storie più avvincenti (e al tempo stesso dimenticate) della Resistenza: quella dei soldati tedeschi del Terzo Reich che hanno disertato e si sono uniti alle brigate partigiane.

“Nell’ultimo anno abbondante il progetto ha acquisito una priorità assoluta, è diventata quasi un’ossessione,” mi spiega Greppi in una conversazione su Zoom. “È un tema che ha percorso trasversalmente la Resistenza italiana e quelle europee, eppure manca nella storiografia più generale. Quella locale, tuttavia, aveva affrontato diverse di queste storie; e più scavavo, infatti, più trovavo.”

La vicenda più paradigmatica—nonché probabilmente la più nota e celebrata—è quella di Rudolf Jacobs, il protagonista attorno al quale ruota il libro dello storico.

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Rudolf Jacobs (sinistra) a Lerici, provincia di La Spezia, tra il 1943 e il 1944. Foto d'archivio dell'Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea.

Nato a Brema nel 1914 da una famiglia medio-alto borghese, durante la Seconda guerra mondiale Jacobs è un giovane capitano della marina militare tedesca (Kriegsmarine). Viene dislocato in Italia nell’autunno del 1943, in Liguria, con il compito di coordinare i lavori per la fortificazione delle coste spezzine a Punta Bianca.

La Resistenza, che in zona si era iniziata a organizzare già il giorno dopo l’armistizio dell’8 settembre, lo nota per il suo comportamento compassionevole: Jacobs requisisce infatti le derrate alimentari agli accaparratori che volevano rivenderle sul mercato nero e le distribuisce gratuitamente alla popolazione; inoltre, si preoccupa che gli operai che lavorano per i tedeschi siano pagati adeguatamente.

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Il capitano nutre già parecchi dubbi nei confronti del regime hitleriano, che accrescono con il disastroso andamento della guerra e sfociano in un’esplicita avversione. Alla fine dell’estate del 1944 matura la decisione di passare al “nemico,” su cui influisce la convinzione che la sua famiglia—la moglie e i due figli—fosse ormai morta nei bombardamenti alleati su Amburgo (in realtà erano ancora vivi).

Grazie ai contatti procurati dal Partito Comunista di Lerici, il 3 settembre Jacobs diserta e si unisce ai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi “Ugo Muccini,” che nel corso della guerra di Liberazione arriverà a contare quasi mille effettivi (tra cui diversi stranieri).

A incontrarlo sul ponte sul fiume Magra c’è Piero Galantini, “Federico” come nome di battaglia, e altri partigiani. Jacobs inizialmente svolge un lavoro di intelligence, ma vuole partecipare attivamente alle azioni. Il 3 novembre guida una pattuglia di dieci partigiani in un’operazione ad altissimo rischio: attaccare la sede delle Brigate Nere (le squadre fasciste anti-partigiani della Repubblica Sociale Italiana) nell’albergo Laurina di Sarzana.

Sono tutti vestiti con le divise della Wehrmacht. Jacobs bussa alla porta chiedendo di entrare, ma i fascisti subodorano la trappola. Ne nasce così un feroce scontro a fuoco, in cui l’ex capitano tedesco ha la peggio e muore pressoché all’istante crivellato dai colpi dei mitragliatori.

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Dopo la fine del conflitto, “Federico” ricorderà che Jacobs gli diceva che “sarebbe stato felice di morire se avesse saputo che il suo sacrificio avrebbe fatto ridurre anche di un solo minuto, la durata della guerra, per risparmiare anche una sola vita umana.”

Per Greppi, la sua storia è così importante perché “Jacobs aveva solo da perderci, se usiamo brutalmente dei criteri utilitaristici.” Era infatti una “figura di spicco” tra le file dell’occupante, e si sarebbe potuto limitare all’“ordinaria amministrazione” dell’occupazione aspettando la fine della guerra, come hanno fatto molti altri suoi commilitoni.

Al contrario, continua lo storico, il militare ha fatto quel “passo decisivo” essendo “ben consapevole delle conseguenze, nonché del fatto che—anche se fosse sopravvissuto alla guerra—avrebbe pagato caro questa sua scelta.”

Naturalmente, Jacobs non è stato l’unico soldato tedesco a essere passato con i partigiani. Secondo le stime di Greppi—ricavate da altri studi, da fonti locali e dalle storie raccolte dagli istituti storici della Resistenza—parliamo di una cifra che oscilla tra le due e le tremila persone.

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Rudolf Jacobs Jr. accarezza la lapide del padre a Sarzana. Immagine tratta dalla docufiction "Tradimento" del 1985, per gentile concessione di Carlo Greppi.

Lo spettro delle motivazioni di questo passaggio di campo è piuttosto ampio. Per riassumere brevemente: si va dalla convinzione personali e politiche (e dunque da un convinto antinazismo), e si arriva fino all’opportunismo dettato dall’ormai inevitabile sconfitta del Terzo Reich negli ultimi mesi di guerra.

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Ad avviso dello storico, la scelta dei disertori partigiani tedeschi è comunque “particolarmente sorprendente” considerato il contesto in cui avviene. Si tratta infatti di soldati di un esercito occupante in un territorio ostile, che puntano le armi contro i propri connazionali.

Non a caso, sia in Germania che altrove, queste storie sono una spina nel fianco della memoria collettiva. Il partigiano tedesco Erich Heinrich “Enrico” Rahe, intervistato da Greppi, sostiene che nessuno l’ha mai ringraziato: “Non potevo dire di essere stato con i partigiani.”

E questo perché, mi spiega lo storico, “i detriti del Novecento ce li portiamo ancora addosso. Il tema del passaggio al nemico è ancora considerato, a livello di senso comune, una sorta di tradimento della patria. Anche se poi chi l’ha fatto ha combattuto per la libertà del popolo e del paese in cui stava, e dell’Europa in generale.”

Le vicende di Jacobs e degli altri disertori partigiani, infine, fanno emergere un aspetto della Resistenza che è stato riscoperto negli ultimi anni: il suo carattere multinazionale e transazionale, di cui abbiamo parlato anche su VICE ripercorrendo l’epopea della “banda Mario.”

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L’ex capitano tedesco, ricordiamolo, era di estrazione borghese e sicuramente non comunista. Eppure si è unito a una brigata esplicitamente comunista, che l’ha accolto come uno di loro nonostante le differenze ideologiche, in nome dell’unità antifascista e della voglia di lottare insieme per la libertà e per “riscrivere un mondo nuovo.”

Come ha puntualizzato lo storico e partigiano Roberto Battaglia, il partigianato italiano ha avuto la capacità di “recuperare e strappare al nemico non solo le armi, ma gli uomini.” Questa operazione non ha sempre dato i frutti sperati (i casi di finte diserzioni erano all’ordine del giorno), ma ha dimostrato la “validità internazionale della Resistenza: così forti, così imperiosi da far breccia persino nel compatto esercito tedesco.”

Lo stesso Jacobs, del resto, è morto nell’attacco alle Brigate Nere guidando una pattuglia multinazionale. A tal proposito, “Federico” ha sottolineato come il partigiano tedesco fosse convinto che il suo sacrificio “domani, in un mondo liberato dalla violenza e dall’odio, sarebbe servito a far perdonare una parte, quanto meno, delle colpe del suo paese.”

Allo stesso tempo, chiosa Greppi, uomini come Jacobs hanno incarnato nella maniera più nobile e memorabile la “dimensione internazionale della Resistenza e della pluralità di anime politiche” che l’hanno attraversata – una “pluralità democratica che è giusto, sacrosanto e doveroso ricordare da parte nostra,” anche se sono passati quasi tre quarti di secolo da quei fatti.

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