ristoranti e greenwashing
Foto di artitwpd via Adobe Stock
Cibo

Iniziare a riconoscere il greenwashing nella ristorazione

Attenzione allo spreco, alla provenienza dei prodotti, ai prodotti vegetali. Gli slogan green non bastano a definire un ristorante sostenibile.

“Faccio fatica a parlare di sostenibilità, perché ciò che gira intorno alla ristorazione di base non lo è”

Se anche voi avete sentito pronunciare la parola “sostenibilità” in tutti i settori merceologici esistenti e pensate che ormai abbia perso qualunque significato, vi capisco. Non a caso negli ultimi anni si parla di greenwashing, ovvero il marketing, accompagnato da pratiche vere o presunte, utilizzato da un’azienda per convincerci che “loro” stanno facendo di tutto affinché i loro prodotti o servizi siano a impatto zero. Ma non è questa vera sostenibilità, o almeno non sempre.

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Il Rapporto Brundtland parla di sviluppo sostenibile quando un’azienda/attività soddisfa “i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.” Questo significa non sfruttare oltre il nostro pianeta e non produrre esternalità negative, fra cui l’inquinamento è la più famosa.

Il discorso del greenwashing vale ovviamente per le multinazionali, come per le attività più piccole: probabilmente vi sarete imbattuti anche voi in qualche intervista a chef o ristoratori che dichiaravano di fare una cucina sostenibile o a impatto zero. Dall’oggi al domani intere cucine sembrano essersi votate allo spreco zero e agli ingredienti provenienti da aziende a loro volta sostenibili.

È sempre vero? Ovviamente no.
Come riconoscere marketing e pratiche reali? Non è facile.

Proprio qualche settimana fa gli echi di uno scandalo americano sono arrivati anche qui da noi: Blaine Wetzel, chef e proprietario del Willows Inn sull'isola di Lummi nello stato di Washington, sosteneva che tutti i prodotti utilizzati nel suo menu fossero coltivati sull'isola. Alcuni ex dipendenti hanno invece rivelato che Wetzel avrebbe sempre mentito sulla provenienza degli ingredienti che arrivavano dalla terra ferma, alcuni anche dalla grande distribuzione. In più nella cucina pare ci fosse un ambiente tossico e maschilista. Insomma non la favola sostenibile - a livello ambientale e umano - che raccontava lo chef.

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Vegetariano non è per forza sostenibile

Ad oggi nel nostro settore le probabilità di avere un inventario di magazzino sostenibile tendono a percentuali alte, ma non complete

“La sostenibilità è complessità” mi dice Silvia Moroni, aka Parla Sostenibile su Instagram, “riguarda le persone, l'ambiente e l'organizzazione sociale. È una bellissima, soddisfacente e unica opportunità che abbiamo per vivere in armonia con gli altri, con il pianeta e con la nostra coscienza”.

Silvia è una gastronoma laureata all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. In passato ha lavorato in un allevamento di capre, nella produzione di formaggio e nelle vendemmie, ha collaborato con Slow Food e il Banco Alimentare, e ora fa la consulente e nel frattempo tutti i giorni cerca di spiegare online la sostenibilità alimentare.

Secondo voi è fattibile per un ristorante con più di 20 coperti auto prodursi tutto il necessario, anche fossero solo i vegetali?

Partiamo dalle basi: bisogna sicuramente stare attenti alla gestione degli sprechi, alla raccolta differenziata, all'approvvigionamento di prodotti “buoni, puliti e giusti”, così li definisce Silvia citando Slow Food, e poi “all'attenzione alla stagionalità e a una buona digitalizzazione che ottimizzano la trafila e gli acquisti. E poi una buona comunicazione aiuta a far comprendere il valore e la qualità di un offerta”.

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La riduzione della carne dai menu è un altro punto nevralgico. Sappiamo ormai benissimo come la sua produzione abbia un enorme impatto sul pianeta; è uno dei mercati responsabili dell'emissione di gas serra nell'atmosfera, producendo il 14% di quelle globali, più del sistema dei trasporti. Quindi limitarne l'uso può essere il punto di partenza. Ma veg non è automaticamente sinonimo di sostenibilità assoluta e chi vi dice il contrario sta facendo consapevolmente o meno greenwashing.

E sebbene il vegetala non faccia da solo un ristorante sostenibile è per alcuni un passo importante. La Colubrina, ristorante milanese guidato da mamma e figlia, da qualche anno ha introdotto la cucina vegetale nel proprio menù. “Provati da una crisi economica ci siamo ritrovati di fronte a un bivio: chiudere l’attività o rinnovarci e rimboccarci le maniche. In quel periodo abbiamo studiato e approfondito la questione degli allevamenti intensivi, della sofferenza degli animali e il danno ambientale, terrestre e marittimo. Guardando il mondo con occhi un po' diversi abbiamo deciso di introdurre sul menu qualche piatto vegano per testare la risposta della nostra clientela, all’epoca completamente onnivora,” mi racconta la chef Franca Marrone.

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LA COLUMBRINA Risotto integrale biodinamico ai  mirtilli , mantecato con  cremoso di anacardi fermentato.jpg

Risotto ai mirtilli mantecato con formaggio fermentato vegano. Foto per gentile concessione del ristorante.

Piano piano hanno implementato sempre più portate alternative, eliminando i piatti tradizionali o trasformandoli, come nel caso del Risotto ai mirtilli mantecato con formaggio fermentato vegano o Dadolata di tempeh e funghi shiitake con ragù di pomodorini confit e piselli. “Abbiamo riunito onnivori e vegani ad un unico tavolo,” continua la figlia Consuelo Giovanetti . “Il futuro che immaginiamo è basato sull’educazione gastronomica, dove ristoratori e cuochi hanno il coraggio di osare e portare innovazione per il bene del nostro pianeta”.

Se andiamo a frugare nelle cucine vegetariane troveremo diversi alimenti che provengono da lontano: caffè, cacao, avocado, soia, frutta secca e la lista può continuare. È sostenibile? Confessa Franca: “Ad oggi nel nostro settore le probabilità di avere un inventario di magazzino sostenibile tendono a percentuali alte, ma non complete”. Apprezzo l'onestà: fare del proprio meglio, ammettendo però ancora delle scivolate, difficili da evitare.

Attenzione a “Made in Italy = Sostenibilità”

Questa è la trappola numero uno insieme alla dicitura “prodotti made in Italy.” Nazionalità e sostenibilità possono essere due cose molto diverse.

I consumatori che desiderano essere virtuosi al 100% sono invogliati dallo storytelling del chilometro zero. Lo leggiamo ormai in moltissimi locali insieme a slogan green di ogni genere. È possibile per un ristorante con più di 20 coperti auto-prodursi tutto il necessario, anche fossero solo i vegetali? Questa è la trappola numero uno insieme alla dicitura “prodotti Made in Italy.” Nazionalità e sostenibilità possono essere due cose molto diverse. E non solo in Italia come abbiamo visto con il caso del ristorante Willows Inn.

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“Un ristorante si può definire sostenibile se si pone e raggiunge l’obiettivo di produrre pochissimi sprechi, utilizzare materie prime coltivate nel proprio orto o allevate in maniera etica, riducendo l’impatto energetico e ambientale delle proprie azioni” inizia Stefano Sforza, chef di Opera a Torino. Stefano non propone una cucina vegetariana, ma ha deciso di accogliere l'appello del WWF con la campagna #IoCambioMenu eliminando dalla carta i piatti con l’anguilla, la rana pescatrice, cernia bruna e pesce spada, specie che si sono aggiunte al lunghissimo elenco degli animali in via d’estinzione.

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Lo staff di Opera a Torino. Foto per gentile concessione del ristorante.

“Da Opera gli ingredienti sono selezionati, oltre che per le caratteristiche organolettiche, anche in base all’etica che i coltivatori e gli allevatori pongono verso il frutto del proprio lavoro. Per esempio i vegetali provengono dal nostro orto o da contadini locali, mentre la carne da produttori della provincia di Cuneo” mi racconta Stefano.

Immaginarsi il futuro della ristorazione non è facile anche se la direzione sarà quella di “ridurre i piatti in menu e valorizzare maggiormente alcuni ingredienti. Per abbattere davvero gli  sprechi bisogna utilizzare gli ingredienti in ogni loro parte e sviluppare una maggior consapevolezza verso il consumo di alimenti di origine animale,” chiude lo chef.

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Lo spreco zero non esiste

“Lavoro con animali di grosse pezzature e uso tutte le sue parti come testa, coda ed interiora. Con un pesce devono mangiare più persone possibili”

A tal proposito faccio una chiacchierata anche Jacopo Ticchi della Trattoria Da Lucio a Rimini. “Faccio fatica a parlare di sostenibilità, perché ciò che gira intorno alla ristorazione di base non lo è. Ci impegniamo nella scelta del pesce, utilizzando solo quello dell'Adriatico ed evitando così viaggi intercontinentali, ma non basta,” mi confessa Jacopo. “Noi cerchiamo da lavorare grosse pezzature ed utilizzarne tutte le sue parti come testa, coda ed interiora. Con un pesce devono mangiare più persone possibili”.

Prima di tornare in Romagna Jacopo ha lavorato quattro anni al Joia di Milano da Pietro Leemann e mi conferma che “i prodotti con cui si sostituiscono le proteine animali per equilibrare la dieta, come frutta secca e frutti esotici, non fanno parte del nostro territorio di conseguenza il discorso della sostenibilità decade automaticamente”.

Ripetiamo quindi che vegano non è necessariamente sostenibile. “Il pesce che utilizziamo non è allevato e non proviene da una pesca a strascico, ma questo non basta. La richiesta del mercato è troppo alta: dovrei andare io a pescare con la mia canna ma...”.

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“Il solo gesto di prenotare aiuta a prevedere, da parte della cucina, il consumo dei clienti, evitando sprechi inutili”

In tutto questo discorso il packaging gioca un ruolo importante: ormai sembra quasi superfluo spiegare perché è importante limitare l’uso della plastica monouso e fortunatamente diversi ristoranti hanno trovato nuove soluzioni, anche diverse dalla carta e cartone, notoriamente biodegradabili.

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Trattoria da Lucio. Foto per gentile concessione del ristorante.

Altatto con il sevizio delivery A casa tua ha affrontato il problema da un altro punto di vista: “È un’ idea originale che nasce dai nostri viaggi in india, dove il tiffin, scatola di metallo utilizzata per portare a scuola o a lavoro il cibo, è adoperatissimo. Abbiamo cercato di riproporla qui a Milano, semplicemente ispirandoci alle buona pratica del vuoto a rendere che nel nostro paese sta scomparendo,” mi racconta Sara Nicolosi, una delle due fondatrici. “Quindi c’è stato un investimento iniziale ma così abbiamo ammortizzato i costi.”

Purtroppo, durante i vari lockdown, lo smaltimento dei packaging è stato un problema, diventando una delle maggiori cause di inquinamento. “Abbiamo deciso che volevamo servire i pasti senza creare spazzatura. È stato l'obbiettivo più importante che abbiamo raggiunto quest'anno,” mi confessa Cinzia de Lauri, l'altra metà di Altatto. Sicuramente una scelta radicale e poco pratica, ma le consegne a domicilio di ristoranti sedicenti “sostenibili”, piene di materiali monouso e magari difficili da riciclare, dovrebbe essere un ulteriore campanello d’allarme.

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Da Altatto hanno dato consistenza alla parola sostenibilità anche in un altro modo: una piccola carta basata sulla micro stagionalità e su un’accurata selezione dei fornitori. Un cambio di paradigma dove non è la ricetta di uno chef  a determinare il carrello spesa, ma l'offerta dei produttori a ispirare gli chef: “Ed ecco che un dashi verrà realizzato con i topinambur e guarnito con una rapa anziché con il daikon. Su alcune spezie dobbiamo però trasgredire, tradizionalmente fin dai tempi di Marco Polo compiono lunghi viaggi,” conclude Sara.

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La delivery no waste di Altatto. Foto per gentile concessione del ristorante.

Cosa fare nel concreto quando vai al ristorante

Riconoscere un ristorante che abusa della parola “sostenibilità” non è facile per un consumatore. Partire da una lettura attenta del menu, può essere però un inizio. Tanti ingredienti diversi e considerati problematici - salmone e avocado, ad esempio - possono essere degli elementi che ci fanno drizzare le orecchie. Nel dubbio chiedete sempre al cameriere che vi sta servendo delucidazioni: l’avocado potrebbe essere siciliano e il salmone potrebbe venire non da allevamenti intensivi, no? O al contrario potrebbe arrivare tutto della grande distribuzione.

E in generale prenotate sempre il vostro tavolo: è un semplice gesto che può evitare gli sprechi inutili, garantendo prodotti freschi di giornata e facendo capire alla cucina quanto cibo preparare.

Poi ovviamente ci sarebbe un altro capitolo da aprire, quello sull’etica che riguarda i contratti e i dipendenti, perché non esiste solo la sostenibilità ambientale ma anche quella sociale. Ma servirebbero molto più spazio e molto più tempo per parlarne.

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