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Tecnologia

Archeofattanza: quand'è che l'uomo ha iniziato a drogarsi?

A giudicare da questa ricerca, assumiamo droghe almeno dal 7.000 a.C.

L'uso di droghe si nasconde tra le origini del tempo. Ancora prima di iniziare a coltivare piante, parlare o scrivere, gli esseri umani hanno iniziato ad assumere sostanze psicoattive. Un po' per guarire dal dolore e dalle malattie, un po' per entrare in contatto con le divinità ed elevare lo spirito, un po' per cercare un artificio per essere felici, abbiamo sempre fatto tesoro delle scoperte legate alle proprietà psicotrope delle sostanze con cui entravamo in contatto.

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Presso i primi popoli nomadi, infatti, le droghe erano strettamente legate alle esperienze religiose: venivano usate da sciamani e profani per raggiungere stati mistici, abbandonare il corpo e incarnarsi in altri stati. Per molte popolazioni contemporanee è ancora così: l'assunzione di droghe non ha alcuna valenza negativa dal punto di vista morale, anzi, è parte integrante della cultura tradizionale— mentre per noi cosiddetti occidentali le cose sono molto più complicate.

Per dare un'idea di quanto il rapporto dell'uomo con gli stati alterati sia ancestrale, secondo alcuni teorici le sostanze psicoattive sarebbero alla base di traguardi importantissimi per l'umanità: la coltura dei cereali, ad esempio, avrebbe avuto un forte impulso dalla voglia irrefrenabile dell'uomo preistorico di ottenere della birra — le proprietà nutritive di grano e affini sarebbero state scoperte solo dopo. Per quanto possa sembrare paradossale, quindi, gli alcolici sarebbero nati ancora prima del pane.

Giorgio Samorini, ricercatore indipendente interessato da sempre a tutto ciò che riguarda l'universo delle droghe, è autore di diversi libri sull'argomento. Uno dei più recenti risultati dei suoi studi sull'archeologia delle fonti inebrianti è una tabella in cui ha raccolto le date delle più antiche testimonianze di assunzione di droghe. Lo abbiamo contattato via mail per saperne di più sull'oggetto dei suoi studi e per farci spiegare i dati della tabella — che confermano quanto sia antico l'amore per la fattanza.

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Motherboard: Di cosa ti occupi? Come mai sei così interessato al mondo delle droghe?

Giorgio Samorini: I miei interessi per le droghe sono di lunga data, me ne occupo ormai da 40 anni. Ho iniziato dopo le letture etnografiche giovanili, in cui ho notato la stridente differenza di approccio alle droghe fra la cultura occidentale e le altre: mentre da noi la droga è quasi solo sinonimo di "induttore di problemi", presso le popolazioni tradizionali le fonti inebrianti, lungi dall'essere vissute come un problema, ricoprono importanti ruoli nei sistemi interpretativi della realtà, sino a essere considerate in diversi casi la "fonte della vita" e delle conoscenze umane.

Andando avanti con gli studi ho capito che esiste un aspetto fenomenologico delle droghe per nulla riconosciuto dalla cultura occidentale contemporanea, così ostinata nel seguire posizioni dettate più da fattori demagogici che da conoscenze concrete, che vogliono vedere la droga unicamente nei suoi aspetti problematici.

Cosa riguardano le tue ricerche?

Le mie principali competenze e ricerche, di natura etnobotanica, riguardano l'impiego delle fonti inebrianti presso le popolazioni tradizionali e del passato; ricerche che mi hanno portato in giro per il mondo per osservare di persona i riti, le credenze e le modalità d'impiego delle "piante sacre" fra le attuali etnie delle foreste tropicali africane, amazzoniche, messicane, e che mi hanno portato anche nei deserti del Sahara, di Atacama (Cile) o nelle regioni dravidiche dell'India per studiare quei reperti archeologici che testimoniano l'antico impiego umano delle droghe. Impiego che, nella maggior parte dei casi, nel mondo tradizionale era ed è inserito in contesti rituali, religiosi e terapeutici.

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Faccio parte di un ristretto gruppo di ricercatori di varia formazione (etnobotanica, archeologica, classicista, ecc.) —  in modo un po' ironico ci auto-definiamo "drogologi", cioè "studiosi delle droghe". A differenza delle figure professionali — medici, psichiatri, sociologi — che si occupano degli aspetti problematici delle droghe, in primis delle tossicodipendenze, il "drogologo" si interessa agli aspetti fenomenologici della relazione umana e animale con esse.

Con che metodo è stato portato avanti lo studio archeologico? Ricerca diretta? Viaggi? Libri?

Sono appassionato di archeologia fin dall'infanzia, e quando ho iniziato a occuparmi delle fonti inebrianti ho abbinato i due interessi sviluppando una specializzazione nella cosiddetta archeoetnobotanica delle piante psicoattive. Da molti anni sono in contatto con gli archeologi, in particolare quelli che lavorano in Sud America, che è l'area più ricca di ritrovamenti associati all'antico impiego umano di droghe, specie quelle allucinogene (cactus, funghi, polveri da fiuto, ecc.), e seguo attentamente la letteratura specializzata internazionale. Ho anche intrapreso diversi viaggi volti allo studio dei siti archeologici, con un interesse specifico nelle raffigurazioni delle droghe o del contesto del loro uso nell'arte antica, da quella paleolitica a quella classica greco-romana. Per questo motivo posso dire di avere in mano un quadro aggiornato relativo alle droghe di tutto il mondo. La lista che ho presentato in anteprima su  Dolce Vita, e che sarà prossimamente pubblicata in riviste scientifiche e nel libro "Archeologia delle piante inebrianti", è frutto di questo studio decennale.

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Commenteresti un po' la tabella?

Questa tabella è sia un punto d'arrivo che un punto di partenza per le future ricerche. Per la prima volta sono riunite le date più antiche della relazione umana con le principali droghe vegetali di tutto il mondo — dall'oppio alla cannabis, dal tè alle fonti alcoliche — e offre un quadro d'insieme che permette di giungere a una prima conclusione certa: l'uomo assume droghe a partire da almeno i periodi neolitici e mesolitici; in termini di date assolute, da almeno 10.000 anni. E' il caso di puntualizzare che queste date non sono da intendere come le più antiche in assoluto, ma riguardano quelle accertate per ora dalla ricerca archeologica, e molte di queste sono probabilmente destinate a essere modificate a ritroso nel tempo di pari passo con gli sviluppi dei futuri scavi e ricerche. Per tale motivo questa tabella è anche un punto di partenza.

Ho la personale impressione che la relazione umana con molte di queste droghe sia notevolmente più antica di quanto per ora attestato dall'archeologia, e che affondi nei periodi paleolitici, se non addirittura precedenti, coinvolgenti gli ominidi che ci hanno preceduto. Una supposizione, questa, che resterà difficile da dimostrare, ma che trova giustificazione nelle recenti acquisizioni nel campo degli studi etologici, che stanno evidenziando come il comportamento di assumere fonti psicoattive per intenzionali scopi inebrianti non sia specifico del genere umano, ma è diffuso nel mondo animale, dai primati agli altri mammiferi, dagli uccelli agli insetti. Al di là delle motivazioni biologiche di questo comportamento, che restano da chiarire, è plausibile pensare a una continuità della sua presenza lungo il  filum evolutivo degli esseri viventi. Ad esempio, recenti ricerche genetiche hanno evidenziato una continuità d'assunzione dell'alcol (presente fra l'altro nei frutti marcescenti) nel percorso evolutivo degli ominidi, che si protrae da almeno 10 milioni di anni, e per questo motivo si può affermare che l'alcofilia fra gli umani è radicata nella storia evolutiva dei primati.

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A riprova che le droghe non sono sempre e solo un problema, ma sono state — e forse continuano a esserlo — promotrici di importanti acquisizioni culturali, cito il caso delle birre, cioè di quelle bevande fermentate alcoliche ricavate dai cereali. I dati archeologici stanno sempre più evidenziando che non è stata la scoperta della cerealicoltura a promuovere in seguito l'elaborazione delle birre — come ritenuto sino a non molto tempo fa — bensì l'opposto, ovvero è stata l'assidua fabbricazione e consumo delle birre per scopi inebrianti a promuovere la scoperta dei cereali come fonte alimentare. Ciò è stato dimostrato per le popolazioni del Vicino Oriente, che ottenevano la birra dall'orzo almeno un millennio prima di iniziare a usare l'orzo come fonte di cibo; e questa anticipazione della droga sul cibo è stata evidenziata anche nelle Americhe, dove il mais fu impiegato per l'elaborazione di bevande alcoliche (chicha e cauim) molti secoli prima che l'uomo si accorgesse che il medesimo mais poteva essere impiegato come alimento. Recentemente, la ricerca archeologica ha evidenziato che questa priorità si presentò anche in Cina, dove una birra a base di orzo veniva elaborata già 5000 anni fa, mentre l'impiego dell'orzo come alimento iniziò solamente dopo tre millenni.

Hai qualche episodio in particolare o aneddoto legato a questo studio?

Il papavero da oppio è una di quelle specie vegetali che non esistevano in natura e che furono create dall'uomo mediante coltivazione e selezione a partire da una specie selvatica. Quando intrapresi lo studio dell'archeologia del papavero da oppio, per cercare di comprendere il luogo d'origine della sua creazione da parte dell'uomo, mi sono imbattuto in una serie di affermazioni che mi hanno sorpreso, oltre a farmi sorridere: gli archeologi spagnoli dicevano "è da noi" che fu creato il papavero da oppio; gli archeologi svizzeri, contestando quelli spagnoli, dicevano "no, è in Svizzera"; gli archeologi tedeschi dicevano "è in Germania", quelli francesi "è in Francia, nell'area di Nizza", e non è mancato l'archeologo italiano che diceva "no, l'origine del papavero da oppio è in Italia". Il lato buffo della faccenda riguarda il fatto che solitamente gli archeologi che si occupano delle antiche popolazioni euro-mediterranee sono restii a considerare l'impiego di droghe presso le "loro" popolazioni, afflitti come sono dal tabù sulle droghe che pervade la cultura occidentale. Lo so bene per esperienza nei miei contatti con questi archeologi, e basti citare come esempio quanto mi affermò in maniera perentoria un noto studioso della cultura romana: "I Romani non si drogavano, usavano solo il vino!", ricadendo tra l'altro nel comune quanto grave errore di non considerare l'alcol come una droga. E quando accade che incontrino indizi dell'impiego di droghe negli scavi archeologici, hanno la tendenza a considerarla come un'influenza esterna, di altre popolazioni, preferibilmente "barbare", cercando quindi di sbolognare il problema e la "vergogna della droga" su altre sponde.

Tornando all'oppio, non mi rimase che armarmi di pazienza e cimentarmi in un lungo lavoro di recupero dei rapporti originali di quegli scavi archeologici in cui erano stati ritrovati nella varie nazioni resti di questa droga, analizzarli attentamente uno per uno, controllare i contesti stratigrafici, le datazioni al C-14, ecc. Dopo 4 mesi di sudata ricerca sono riuscito a risolvere il puzzle, stendendo una mappa affidabile delle date più antiche (neolitiche), e come risultato è venuto fuori che le date più antiche sinora note si trovano nell'Italia centrale (5600 a.C.), dove sono state ritrovate capsule di papavero da oppio di forma intermedia fra la specie selvatica e quella coltivata, facendo quindi ipotizzare che sia questa l'area originale della coltivazione e selezione del papavero. Questo risultato mi ha un poco imbarazzato poiché, dopo aver deriso i vari archeologi europei per il loro "orgoglio nazionalistico", da studioso italiano mi sono ritrovato a dover dire "no guardate, vi siete sbagliati, è molto probabilmente nel mio paese, l'Italia, che originò il papavero da oppio". Eppure non sono afflitto da orgogli nazionalisti; per me poteva risultare la Spagna, la Svizzera o qualunque altro paese, come luogo d'origine dell'oppio.