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Cibo

Gli psicologi che di lavoro riducono lo stress dei cuochi e di chi lavora nei ristoranti

Sonia Rotondo è psicologa, Antonio Labriola è anche cuoco: insieme fanno consulenze per migliorare l'ambiente di lavoro nei ristoranti.
Andrea Strafile
Rome, IT

"Tra tutte le fonti di stress da cucina, gli orari di lavoro sono probabilmente al primo posto. Sempre Gibbson dice nel suo studio che l'85% degli intervistati lavora 40 ore più del proprio orario alla settimana. E spesso saltano i loro giorni liberi e non fanno pause"

Un paio di anni fa, il The Guardian ha preso una ricerca della Unite Union (sindacato britannico e irlandese), ampliandola e intervistando altri 1800 chef inglesi: dalla ricerca sono venuti fuori dati abbastanza sconcertanti. Ad esempio, il 60% dei cuochi lavora dalle 48 alle 60 ore la settimana; il 78% ha avuto un incidente dovuto alla stanchezza o allo stress; un quarto degli intervistati beve per sopportare la giornata di lavoro; il 56% si imbottisce di antidepressivi; e il 51 soffre (o ha, quantomeno sofferto) di depressione. Se volete saperne di più su quanti si attaccano alla bottiglia, ne abbiamo parlato un po' meglio qui.

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Di mestiere loro vanno nei locali e li aiutano a risolvere i problemi interni attraverso esercizi e gruppi di ascolto

Ma allora, se fare il cuoco significa lavorare incessantemente per moltissime ore al giorno, al caldo, in piedi, senza pause, con salari spesso bassi e con vari attentati alla salute mentale, perché decidere di fare questo mestiere? Fare i cuochi, in fin dei conti, ai cuochi piace. L'adrenalina del servizio, il lavorare con le mani e il fatto di poter liberare la propria creatività potrebbe superare, almeno mentalmente, tutte le fatiche e i rischi del mestiere. Mentali o fisici che siano.

Ma è davvero accettabile vivere un mestiere così, o ci sono dei margini di miglioramento? Per rispondere ho chiesto ad Antonio Labriola, che ha l'insolito quanto efficace titolo di chef-psicologo e la sua compagna Sonia Rotondo, anche lei psicologa. Ho chiesto loro nella fattispecie come si disinnesca lo stress o, in parole povere, come il lavoro in cucina possa impattare meno sulla salute mentale.

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Sonia Rotondo e Antonio Labriola. Foto a sinistra per gentile concessione dell'intervistata. Foto a destra di Luca Appiotti per gentile concessione dell'intervistato.

Antonio sogna da sempre di fare il cuoco, ma poi capisce che sarà un lavoro sacrificante e inizia a studiare psicologia. Durante gli studi a Torino conosce Sonia, e nel frattempo lavora nei ristoranti, facendo gavetta nei ristoranti da battaglia, che negli stellati. "Poi, con Sonia", mi dice Antonio "ci siamo messi a fare consulenze nei locali dove ci fossero dei problemi legati alla sfera comunicativa e psicologica"

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"Abbiamo scoperto la differenza abissale tra gli stellati e la media ristorazione: nello stellato i cuochi sono formati e hanno dei ruoli. Nel secondo caso, spesso ci sono due soli cuochi ad affrontare 200 coperti"

"Abbiamo coniato l'idioma Mind En Place (felice storpiatura di Mise en Place)," mi dice Sonia, "per parlare dei problemi nei ristoranti e di come risolverli. Abbiamo scoperto la differenza abissale tra gli stellati e la media ristorazione: nello stellato i cuochi sono formati e hanno dei ruoli. Nel secondo caso, spesso ci sono due soli cuochi ad affrontare 200 coperti." Insomma, di mestiere loro vanno nei locali e li aiutano a risolvere i problemi interni attraverso esercizi (come quello di scambiarsi ruolo tra sala e cucina per capire meglio il lavoro dell'altro e rispettarlo) e gruppi di ascolto. Se poi vedono che qualcuno ha particolari problematiche, non essendo dei terapeuti, gli consigliano dove andare.

"Quindi, Sonia e Antonio," dico al telefono, "quali sono le maggiori fonti di stress e problemi nelle cucine? E soprattutto: si possono disinnescare?" Ne sono venute fuori tante, che si possono riassumere (spoiler) spesso semplicemente con: "bisogna dialogare."

La formazione e la mancanza di comunicazione

Quando si decide di entrare in una cucina, uno dei problemi maggiori viene dalla mancanza di formazione di chi è appena arrivato. Sia un cuoco già navigato o un ragazzo appena uscito dall'alberghiero, spesso i ritmi serrati di questo mestiere non permettono al nuovo arrivato di sapere come deve fare le cose. Sembra assurdo, ma può capitare che un cuoco capace di gestire molti coperti si trovi in seria confusione quando viene sgridato dal nuovo executive chef pluripremiato per come ha tagliato le verdure. Le cucine, sembrerà banale dirlo, non sono tutte uguali.

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Il primo consiglio per disinnescare lo stress alla base è quindi fare una formazione attenta di chi arriva. Se la si fa, si abbattono situazioni stressanti alla base dovute agli errori.

"Nel sistema è scontato che nel momento in cui il ragazzo entra debba apprendere tutto senza essere affiancato," mi dicono Antonio e Sonia. "Se entri come commis devi conoscere delle pratiche. Magari, però, il ragazzo ha lavorato in posti dove mettono burro nella pasta al pomodoro e quindi per lui è normalissimo farlo sempre." E così succede che lo chef vada su tutte le furie e il ragazzo si senta profondamente mortificato. Generando un primo batterio da comunicazione insufficiente e stress. "Il primo consiglio per disinnescare lo stress alla base è quindi fare una formazione attenta di chi arriva. Se la si fa, si abbattono situazioni stressanti alla base dovute agli errori." Un suggerimento potrebbe essere l'affiancamento al direttore di sala, che può spiegare bene le due dinamiche del ristorante, sala e cucina.

Un consiglio che diamo è che ci si riunisca almeno una volta a settimana per parlare di cosa non è andato, magari tenendo un diario

Il fatto che lo chef sgridi il ragazzo appena arrivato evidenzia un altro punto fondamentale: la mancanza di comunicazione. Se fossimo stati negli anni '90, come ben evidenzia lo studio di Murray-Gibbson del 2007, con tutta probabilità vi sareste beccati un oggetto volante scagliato dallo chef, in alcuni casi anche incandescente. Perché lo chef è un'artista e - sì, sono cose che dice lo studio - quindi il suo comportamento è quello di un artista. O meglio: un semi-dio. Non del tutto sano di mente. Oggi i mestoli non volano più sui giovani (o lo fanno molto meno) ma c'è comunque un problema di comunicazione. Spesso nelle cucine e a fine servizionon ci si parla. "Il consiglio che diamo è che ci si riunisca almeno una volta a settimana per parlare di cosa non è andato, magari tenendo un diario," mi dice Sonia. "Bisogna dare appoggio e ascoltare, non dare per scontato che le cose si sappiano per osmosi. E l'altra cosa fondamentale sono i ruoli. Se i ruoli sono ben definiti, chi sarà in difficoltà saprà a chi rivolgersi," conclude Antonio. Il primo problema è stato disinnescato, ne rimangono altri tre.

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Gli orari

Tra tutte le fonti di stress da cucina, gli orari di lavoro sono probabilmente al primo posto. Sempre Gibbson dice nel suo studio che l'85% degli intervistati lavora 40 ore più del proprio orario alla settimana. E abbiamo visto che spesso saltano i loro giorni liberi e non fanno pause. Trovare una soluzione al problema degli orari di lavoro non è cosa facile: dipendono troppo dall'affluenza di clienti e da tutta una serie di pratiche (preparazioni, servizio e pulizia) che hanno variabili troppo ampie. Ci sono, soprattutto nel Nord Europa, dei tentativi per abbassare il numero di ore o di giorni di lavoro. Da Maaemo, a Oslo, lo chef ha abbassato i giorni di lavoro a solo tre per settimana. Il problema è che i margini di profitto nella ristorazione sono molto bassi. E quindi lavorare di più significa, ancora, marginare di più.

"Questo è il punto più difficile," mi dice Antonio Labriola, "ma è anche quello che i ristoratori ci chiedono di più quando ci chiamano. Ci sono preparazioni che richiedono più di 8 ore. Ci vorrebbero più dipendenti e più contributi. Bisogna farli ragionare sul concetto di quantità e qualità, su come si spende il tempo con la famiglia e gli amici." Per metterla in termini pratici, chiedono di organizzare, per esempio, pranzi e cene con le famiglie. O sostituire il collega quando ha la recita di suo figlio. "Insomma, non ragionare solo su se stessi. Capisco che sia difficile e che possa sembrare retorica, ma non lo è se sai cosa vuol dire lavorare in un ristorante." Tra i problemi maggiori che causano gli orari folli c'è un sovraccarico mostruoso di stress o, forse peggio, l'identificazione dell'individuo con il ristorante stesso. Vive per il ristorante, senza calcolare il benessere fisico e mentale.

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La questione orari e turnover sembra essere ancora un tassello molto difficile da risolvere, passiamo allora alla gestione dei fallimenti.

I fallimenti e gli errori

In un lavoro in cui si fa tutto, o quasi, con le mani, i margini di errore sono ampi. In un sistema gerarchico e militaresco come quello della cucina, questo si traduce in probabili umiliazioni. Non è da sottovalutare il problema di mobbing e bullismo. "Gli errori e i fallimenti," mi dicono Sonia e Antonio, "non devono essere presi come del tutto negativi. Anche perché quando gli chef sperimentano, sbagliando, sono dei geni. Se sbaglia qualcun altro, un loro sottoposto, viene insultato." L'idea alla base è che tutto può essere gestito, basta calcolare sempre un margine di errore.

"Ci crediate o no, una delle maggiori fonti di stress è la disorganizzazione delle cucine"

"Le gerarchie," dice lo chef-psicologo Antonio, "devono essere rispettate. Hanno un senso. Questo non deve trasformarsi in un abuso di potere però. Spesso lo spieghiamo con il caso psicologico dei bambini che si fanno male: se l'adulto si spaventa, il bambino si spaventerà e piangerà; se invece rimane normale e gli spiega che va tutto bene, il bambino sarà tranquillo e avrà imparato qualcosa." Anche qui, la chiave per disinnescare una potenziale bomba da stress è ancora il dialogo. E ora veniamo al punto in apparenza più facile, che ovviamente non lo è quasi mai.

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L'organizzazione

Ci crediate o no, una delle maggiori fonti di stress è la disorganizzazione delle cucine. Presente quando a Masterchef sgridano tutti dicendo "ma guarda che casino! In cucina si lavora sul PU-LI-TO!"? Quando sei sotto pressione la sporcizia e la disorganizzazione mandano la testa in tilt - causando sconforto, che genera rabbia, che genera insoddisfazione, che diventa stress. "Il suggerimento qui - e lo dico da cuoco - è di pulire e organizzare ogni fine servizio. Sempre" mi dice Antonio.

"Tenere pulita la postazione aiuta poi a concentrarsi e se si concentra si evita di sbagliare e iniziare discussioni e possibili ripicche." Ma l'organizzazione, che io pensavo si limitasse solo alla cucina sporca e pulita, mi spiega invece Sonia, deve essere anche mentale ed emozionale. "Spesso ci troviamo davanti casi di persone che non sanno vivere la propria emotività in cucina. Ma bisogna accettare le proprie emozioni, anche negative, e non cacciarle. In genere consigliamo anche delle tecniche di mindfulness per fargli capire la cosapevolezza di azioni, pensieri ed emozioni."

Le cucine di oggi, per fortuna, sono meno dei campi di battaglia come lo erano fino a vent'anni fa, almeno a sentire molti chef navigati. I capo cuochi ascoltano e aiutano sempre di più. La comunicazione sembra essere la chiave di tutto, unita alla capacità di fare gruppo, seppur seguendo una struttura gerarchica. Questo vale tanto per la cucina quanto per la sala, che spesso è formata da universitari a cui non frega molto di stare lì e quindi non si sentono parte del gruppo.

Per disinnescare lo stress si stanno facendo anche i primi passi istituzionali: l'associazione Ambasciatori del Gusto, per esempio, ha appena stilato un protocollo d'intesa con l'Ordine degli Psicologi del Lazio per aiutare gli chef che hanno crolli emotivi. Rispetto ad altri paesi, purtroppo, abbiamo ancora molto lavoro da fare. Perché mentre siamo dietro al concetto legato alla "cucina etica", solo perché le carote vengono dell'orto vicino e non si buttano via le bucce, ci perdiamo il concetto molto importante di "lavoro etico".

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