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'Black Mirror: Bandersnatch' non è un gioco, ma una seduta di terapia a tradimento

L'interattività dell'ultima puntata della serie distopica è solo un finto labirinto.
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Immagine: screenshot via YouTube/Netflix

Considerare l’episodio interattivo di Black Mirror Bandersnatch come una rivoluzione mediatica, per quanto comprensibile, è anche ingenuo. Mostrare allo spettatore le potenziali conseguenze di una “scelta” nel cinema è cosa vecchia quanto Destino cieco, il film di Kieslowski che racconta tre storie differenti, scaturite da uno stesso incidente, o quanto la vita amorosa di Gwyneth Paltrow in Sliding Doors, che cambia per un treno della metro perduto di un attimo.

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Proprio alla fine di Sliding Doors si scopre che i due percorsi della biforcazione portano la protagonista a un finale praticamente identico. Un finto labirinto, insomma — come alla fine dei conti è anche quello che facciamo intraprendere al povero Stefan, programmatore di videogiochi con seri disturbi mentali protagonista di Bandersnatch.

Confrontando l’ultima creatura di Charlie Brooker alle saghe videoludiche di David Cage (Heavy Rain) o ai gloriosi libro-game a là Lupo Solitario si rischia di cadere nel tranello fatto di paroloni quali “innovazione” o “contaminazione” e di parlare solamente della facciata interattiva, di un ibrido che diverte ma che, in sostanza, resta di superficie. Il diagramma di flusso di Bandersnatch, infatti, è più semplice di quel che sembra, se confrontato a opere come Stanley Parable.

Oltre l’interazione c’è di più e per entrare nelle profondità di Bandersnatch bisogna fare un giro meno ovvio. Prima di tutto bisogna ricollegarsi al senso della stagione della quale l’episodio fa parte, ovvero la quarta. Ne avevamo parlato un anno fa: è una stagione dedicata all’anima, allo spirito platonico, quello in grado di esistere al di fuori di ogni coordinata fisica spazio-temporale. E la domanda che la serie si poneva era “si può incatenare — o, meglio ancora, controllare — l’anima?”

“Nessun sistema, per quanto espressivo, è in grado di dimostrare la sua stessa coerenza.”

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La risposta è sì, basta riguardarsi la prima puntata Uss Callister, o il potente finale di stagione. Nella puntata parodia di Star Trek i protagonisti sono pezzi di software intrappolati, schiavizzati dal loro dio creatore e programmatore. L’indizio filosofico di quella puntata è che l’anima, in quanto non forma, si “incarna” un po’ ovunque, figuratevi se non può farlo nel software. Per dirla con un vecchio saggio di informatica, Structure and Interpretation of Computer Programs, "I processi computazionali sono simili all'idea di spirito immaginata dagli stregoni. Come lo spirito, non possono essere visti o toccati. I processi computazionali non sono composti di materia. Ma esistono, sono reali, svolgono un lavoro intellettuale e possono rispondere a domande."

Stefan, fin dai primi minuti, confessa alla sua psicologa l’incapacità di poter controllare la propria esistenza. La sua vita gli pare in mano a qualcosa, qualcuno, un’entità comunque estranea. La risposta della dottoressa è ovvia quanto banale: meccanismo di dissociazione derivante da un trauma. Siamo noi, videogiocatori (sì, non chiamiamoci più spettatori!), a potere e dovere indagare il trauma di Stefan. La perdita della madre è legata alla storia di un treno perduto (proprio come in Sliding Doors) e a quella di del pupazzo a forma di coniglio, una perdita che spiega due cose: le difficoltà comportamentali del protagonista e il rapporto glaciale col padre, unica figura genitoriale rimasta.

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Come spesso succede, in Black Mirror si riprendono filoni tematici già affrontati da cinema e letteratura per poter aggiungere qualcosa al già detto. Nello specifico di Bandersnatch ci sono tre evidenti riferimenti: Alice nel Paese delle Meraviglie, Matrix e The Truman Show (gli ultimi due d’altronde si rifanno a loro volta al romanzo di Carroll). Bandersnatch è il nome che viene dato ad una bestia nel sequel di Alice, Attraverso lo Specchio. Ma Bandersnatch è anche il nome del videogioco mai realizzato dalla leggendaria e utopistica Imagine Software, nei primi anni Ottanta.

Stefan è uno dei bambini destinati al regno del bianconiglio Colin, il programmatore geniale e anarchico, uscito dritto dritto da un romanzo di Philip Dick. Nella sua tana vi è attaccato a una parete il poster di Ubik, romanzo incentrato su teorie del complotto e droghe pesanti. Non a caso, dopo aver assunto LSD, Colin Ritman si dà a uno sproloquio tipicamente dickiano, sul legame tra i videogiochi e il controllo degli individui (il Pac di Pac-Man starebbe per Program and Control).

Attenzione, il complottismo di Ritman e poi di Stefan sono una scusa, come in Dick, per discutere dell’approccio finalistico dell’essere umano moderno, costantemente alla ricerca di segni nel percorso della propria esistenza. Ma Brooker non sta cercando di ridicolizzare i suoi protagonisti — come fanno involontariamente di sé terrapiattisti e colleghi quando si scoprono nient’altro che creazionisti sotto mentite spoglie — anzi, il loro complottismo è sintomo di una filosofia pessimista che sta inondando i nostri tempi: ci dice che non possiamo immaginare mondi diversi dall’oggi — una versione differente del fisheriano “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.”

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Scegliamo, mentre siamo all’ultimo piano della tana del bianconiglio, di non morire per poter inseguire il percorso della vita e facciamo lanciare Colin dal grattacielo. Ma in realtà questa millantata libertà non esiste. Tutto è già segnato e, se si va oltre i limiti imposti, si sbatte solo contro il secondo teorema di incompletezza di Gödel: “nessun sistema, per quanto espressivo, è in grado di dimostrare la sua stessa coerenza.” Per dimostrare la coerenza delle nostre scelte, quindi, spunta il meta-telefilm, sotto forma di ilarità, quella del marchio Netflix e delle scene in cui ci scopriamo attori di un set.

L’impressione che si ha non è di avere un albero di possibilità, ma di essere piantati su un destino rivissuto e inevitabile

Ma non possiamo fermarci al tema della droga e del bianconiglio: in Bandersnatch il più profondo è, in realtà, quello della famiglia, in particolare il rapporto col padre. La figura paterna nell’episodio è incredibilmente debole: è incapace di farsi “perdonare” per la morte della madre, seppur sia paradossale addossargli la colpa; ed è anche incapace di educare il figlio, di fargli capire che quella vita precaria tra allucinazioni, sensi di colpa e una socialità inesistente è invivibile: non ci sono amici, fidanzate, università, ma solo una brutta ossessione per un lavoro alienante.

Se in Maniac (altra serie targata Netflix) il disagio giovanile, sottoforma di disturbo mentale, è la rappresentazione di una generazione incapace di organizzare il futuro e che non fa altro che costruire storie basandosi su archetipi popolari passati, in Bandersnatch disturbo mentale e rapporto familiare sembrano invece andare a parare dalla stessa parte. Stefan affonda in un mondo precostruito, la sua 1984 non è quella storica, ma la sua inevitabile rappresentazione artificiale, un sogno fatto da un millennial. Il suo mondo, insomma, è un simulacro tenuto in piedi dal set televisivo con una spruzzata a là Groundhog Day; l’impressione che si ha non è di avere un albero di possibilità, fatto di nodi e foglie diverse tra loro, ma di essere piantati su un destino rivissuto e inevitabile, perché Stefan riesce a sviluppare il videogioco, nella sua completezza, sempre e solamente uccidendo il padre. Pensateci: la scena della morte del padre ci viene fatta giocare così tante volte che il suo volto coperto di sangue diventa routine.

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Il “padre edipico tradizionale” è la figura che tramonta dopo il ‘68 secondo Lacan; nell’età contemporanea è quello minuscolo e fragile descritto da Recalcati in Cosa resta del padre. E a livello conscio il padre di Stefan, Peter Butler, è una figura assimilabile a quella descritta dai due filosofi. Fa brutalmente pena osservare la sua incapacità nel trovare un dialogo col figlio, un semplice punto di contatto, mentre prima della tragedia Peter si comporta come un padre in vecchio stile: per “fare del bene” nasconde il pupazzo preferito di suo figlio. Una scena alla quale assiste la mamma di Stefan e sulla quale Stefan non potrà mai avere la sua rivincita. Il ragazzo rimane bloccato in un eterna fase di incompletezza nei confronti del complesso edipico: non potrà mai conquistare la madre e dimostrare la superiorità su un padre che, sostanzialmente, si rivela inutile.

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Il padre di Stefan, Peter, nella puntata interattiva di Black Mirror Bandersnatch. Immagine: YouTube/Netflix

Peter è un debole a livello conscio, perché Stefan sogna un padre padrone, desidera una figura statale e dittatoriale dalla quale poter fuggire e ribellarsi. Il paradosso qui è che il padre è tutto fuorché un Dio, ma il figlio vorrebbe un Dio al quale ribellarsi e, in quanto geniale programmatore — come il Robert Daly di USS Callister — divenire egli stesso Dio.

Ma l’uccisione di Laio per mano del figlio Edipo deve comunque avvenire, se quel benedetto videogioco vuole prendere la forma perfetta: uccidere il padre affinché si realizzi la propria umanizzazione. Stefan appare finalmente sereno, dalla psicologa, solamente a omicidio compiuto: ha conquistato il controllo su sé stesso, sulla propria anima, benché si tratti di un controllo illusorio, esattamente come quello concesso allo spettatore sulla puntata.

Da questo punto di vista, Bandersnatch può essere visto come l’ennesimo canto del cigno di una generazione bloccata nell’eterna malinconia del mito dei padri. Charlie Brooker ci ha abituati a lezioni e giudizi etici piuttosto pessimisti. Possiamo fare qualcosa per reagire? Certo: tirare un pugno sulla scrivania o buttare il tè sul nostro vecchio portatile. Alla fine dei conti, la morale è sempre quella.