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reportage

I Masai Mbili se ne fottono dell'etica

Il collettivo artistico dello slum di Kibera predica la non-violenza solo per poter lavorare in pace.

Kibera fa paura, ai bianchi come ai locali: 700mila abitanti, estesa quanto un terzo di Bologna, una densità altissima, discariche all'aperto e una popolazione che ricalca tutti gli stereotipi della miseria. Il secondo slum d'Africa è appena fuori Nairobi, in Kenya. Tra le favelas del continente nero, dopo Soweto, a Johannesburg, è la più famosa. E se sei bianco e non sei andato in Kenya per rinchiuderti in un villaggio vacanze a Malindi, passare per Kibera è "d'obbligo". L'importante è dare un'occhiata per poter poi raccontare, una volta tornati in Europa o in America, di quanto in Occidente siamo "in fondo veramente fortunati". Io ci ho vissuto un mese. Sì, certamente per poi raccontare agli amici che "ci ho vissuto", ma anche per l'affitto conveniente: 12 euro per quattro settimane in un appartamento con vista sul parco nazionale di Ngong. Nuova costruzione, nella parte fighetta di Kibera, vicino alla fermata dei matatu che comodamente portano "al centro".

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Qui ho conosciuto i Masai Mbili, o come si chiamano tra di loro "M2". Un collettivo di nove artisti (otto uomini e una donna) di quelli che in Europa non ho mai visto: ruvidi, volgari, sapidi e disinteressati al denaro e alla fama come fine ultimo, o perlomeno davvero bravi a fartelo credere. "Non sono un politico e non ho niente da dirti, non parliamo neanche la stessa lingua," mi dice Potash la prima volta che gli rivolgo la parola davanti a un piatto di riso e fagioli. Anti-coloniale fin nelle midolla, odia i bianchi (attenzione: non il singolo bianco) al limite della violenza e con un'intelligenza che spaventa. Senza rispondergli si arriva lontano, altrimenti la discussione è lunga e frustrante: Potash che continua a ripetere di "non poter comunicare" perché i cardini base delle due culture sono agli antipodi e poi tu, universitario, che pensandoti intelligente rispondi: "Ma quella non è in sé una presa di posizione?!". Poi il silenzio, e se sei poco furbo tutto ricomincia da capo, mentre se hai capito che stare zitti conviene molto di più (in generale, non solo davanti a Potash) arrivi fino allo studio dei Masai Mbili.

Una baracca fatiscente; i soffitti bassi, il sole che inizia a cuocere dalle nove di mattina, i quadri polverosi e sparpagliati senza cura che sembrano soffocarti. Ma gli M2 ci sono abituati. Essere membri di un collettivo di artisti in Kenya non è cosa facile: prima pensano che sei gay, poi nessuno ti compra niente (e come potrebbero, con uno stipendio medio annuale di 1.800 dollari) e se inizi ad attirare l'interesse di qualche benestante—bianco o nero che sia—ti danno del "venduto". Per sopportare la giornata non resta che bere e intossicarsi. Kenya King, Flying Horse, Koyaki non importa. È tutta la stessa brodaglia di chang'aa, la famigerata famiglia di liquori kenioti fatti in casa, che costano due lire e ti ubriacano tre volte più velocemente di qualsiasi angelo azzurro fosforescente.

Foto di Touko Sipiläinen

A fine dicembre 2007, Kibera è caduta preda di una violenza politica trucida in cui i sostenitori del candidato Raila Odinga (del gruppo dei Luo) si sono visti usurpare il successo ottenuto nelle presidenziali da Mwai Kibaki (un esponente kikuyu). È proprio in quel periodo che i Masai Mbili hanno cominciato a farsi conoscere. Mentre gruppi di Luo e Kikuyu si davano la caccia a vicenda autodistruggendosi, il collettivo ha iniziato a scrivere sui muri di lamiera, sulle strade asfaltate e sugli scalini delle case: "La violenza aiuta solo i politici. Non fatevi usare," "Non combattete per Kibaki o Odinga, loro se ne fregano di voi." Nel giro di una settimana Kibera era colma di tag (ancora adesso visibili) e la settimana dopo la violenza si è esaurita. Ovviamente non sto attribuendo il  merito agli M2, perché oltre ad essere impossibile, non credo nemmeno che loro vorrebbero prenderselo. Qualcosa però della loro iniziativa è rimasto: la loro fama si è estesa in tutta la città, la loro arte ha incominciato a esser apprezzata fuori dal ghetto e le loro mostre sono arrivate col tempo fino in Germania e in Svezia.

Foto di Touko Sipiläinen

Gomba, il leader in pectore del collettivo, mi ha spiegato che le azioni contro la violenza del 2007 non sono state iniziative per salvare qualcuno in particolare o affermare cosa fosse giusto o sbagliato: "Non ce ne frega niente, lo lasciamo fare agli idioti che pensano di saper consigliare gli altri. Vogliamo solo lavorare in santa pace perché soltanto così si riesce a creare." Intorno Ashif e Kenedi, due altri membri di M2, annuiscono con calma placida. Anche per loro il silenzio è più importante di qualsiasi altra cosa. In fondo—come hanno ripetuto fino alla nausea—non sono politici e non vogliono insegnare un bel niente a nessuno. Allora come adesso. E nonostante l'attenzione che l'Europa comincia a rivolgergli, gli M2 non hanno voglia di lasciare il loro ghetto, di muoversi "al centro" o in una casa più grande e ariosa; rimangono fedeli a Kibera, al quartiere dei disperati e alle sue soffocanti pareti di lamiera. "Solo rimanendo qui possiamo davvero avere un ruolo. Tutto il resto è pigrizia mentale".