'Non ero più invisibile' - Donne maori parlano dei loro tatuaggi

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'Non ero più invisibile' - Donne maori parlano dei loro tatuaggi

"Un sacco di gente che non mi aveva mai parlato prima ha iniziato a cercarmi, a parlarmi. Mi vedono, mi guardano, guardano la mia faccia, i miei occhi."

Tra le donne maori della Nuova Zelanda, il moko kauae—ovvero il tatuaggio tradizionale sul mento—è considerato una manifestazione fisica della verà identità di ognuna. La credenza vuole che ogni donna maori abbia un moko dentro di sé, vicino al cuore, e che il tatuatore dovrà semplicemente portarlo in superficie quando questa si sentirà pronta.

Di recente Nanaia Mahuta è diventata la prima deputata neozelandese a portare un moko kauae, passando alla storia non solo per la decisione di sfoggiare un tatuaggio facciale maori in uno spazio politico, ma anche come esponente di punta del ritorno di questa pratica.

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"Ho raggiunto delle tappe importanti, e mi è sembrato giusto onorarle attraverso un'affermazione positiva della mia identità," mi ha spiegato Nanaia (ritratta in foto qui sotto). "Per dire chi sono, da dove vengo e qual è il mio contributo. Dopo averlo fatto ho avvertito una profonda sensazione di pace. Come se fosse sempre stato lì."

Il tatuaggio di Nanaia vuole ricordare la morte del padre, e contiene i motivi tradizionali della sua tribù, i Ngāti Maniapoto. Ma Nanaia lo ha fatto anche per dare un messaggio a sua figlia, che oggi ha tre anni: "Volevo che mia figlia capisse che può arrivare ovunque voglia e fare tutto ciò che desidera."

Nanaia Mahuta. Foto di Kina Sai.

Nanaia ricorda così il primo giorno in parlamento con il moko, "È stata una cosa sentita da tante altre donne maori, una manifestazione di orgoglio. È stato interessante, vieni guardata diversamente. Perché è un simbolo culturale, e comunica immediatamente che sono lì per rappresentare un certo modo di pensare."

La pratica del tatuaggio maori è conosciuta come Tā moko e ha le sue origini nella Polinesia occidentale. I motivi intricati venivano incisi nelle pelle usando uno strumento chiamato uhi; ultimato questo passaggio, l'inchiostro veniva depositato nelle incisioni. Il Tā moko rappresenta l'eredità e lo stato sociale della famiglia di appartenenza, e prevede che nel momento della realizzazione la persona entri in contatto spirituale con gli antenati ed esca mutata dall'esperienza.

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Per le donne maori, come rileva lo storico Michael King in Moko, il moko era un rito di passaggio che sanciva l'ingresso nell'età adulta.

Una donna maori intorno al 1890. Foto per gentile concessione della Sir George Grey Special Collections, Auckland Libraries

A partire dal 1840 però, con la colonizzazione inglese, i maori iniziarono a essere respinti dalle loro terre e a essere sottoposti al processo di assimiliazione. Furono banditi i tohunga, i consiglieri maori, e nelle scuole fu vietato l'uso della lingua locale. Negli anni Settanta, la tradizione del moko sembrava ormai persa. A portarlo erano soltanto alcune anziane, anche per le connotazione negativa dei tatuaggi facciali. Per un periodo, portarlo significava affiliazione a gang e malavita.

Le cose hanno iniziato a cambiare negli anni Ottanta, dopo la spinta alla valorizzazione del patrimonio e della lingua maori, e nell'ultimo decennio la tradizione ha ripreso piede. La 33enne Pip Hartley è una delle persone che la stanno portando avanti; a 18 anni ha iniziato a visitare aree isolate del paese per apprendere l'antica arte, e dopo molta pratica quest'anno ha aperto il suo studio di tatuaggi, il Karanga Ink di Auckland. Il procedimento attraverso cui si arriva al moko è molto personale, spiega Pip. "Preferisco disegnare direttamente sulla persona, perché così avviene uno scambio di energia, o wairua. Il tatuaggio cambia a seconda dei contorni del corpo e della storia di ognuno. Per molti è un'esperienza forte. Una volta che è lì, quando lo guardi sei automaticamente cosciente dei tuoi traguardi, e sai che i tuoi antenati ti stanno proteggendo."

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Pip Hartley con il suo uhi. Video per gentile concessione di Karanga Ink

Per la tessitrice Jude Hoani, il moko è stato un modo per rendere chiara la sua identità. "Ho una faccia di quelle che potresti trovare in tante culture," dice, "perciò volevo un modo per rendere immediatamente chiara la mia appartenenza a questa cultura. Ci ho pensato per vent'anni."

Jude (ritratta in foto qui sotto) aveva discusso della possibilità di farsi tatuare col marito, che ora non c'è più. "Non voleva che me lo facessi, al che io gli dissi, 'Non è una decisione che spetta a te, devi capire questa cosa.'" La cugina, la tatuatrice Toi Gordon, cercava spesso di convincerla invitandola ad affidarsi alle sue cure.

La morte del fratello maggiore di Jude ha poi accelerato il processo. "Eravamo molto uniti. Più o meno in quel periodo Gordon è ricomparsa nella mia vita e io ho pensato, 'È il momento giusto'."

Jude Hoani. Foto di Stephen Langdon.

Jude dice che il tatuaggio, realizzato nel corso di mezzora con una macchinetta per tatuaggi, non è stato doloroso. "È stato più che altro scomodo. Mi ha fatto mettere in bocca un pezzo di arancia, così che potessi morderlo, e da lì è stato un attimo." Il suo tatuaggio è un ruru (gufo) stilizzato—la tradizione maori vuole che il gufo sia il guardiano del mento—e contiene elementi propri della sua tribù, i Ngāpuhi.

Da quando ha il suo moko, Jude dice di non sentirsi più invisibile. "Un sacco di gente che non mi aveva mai parlato prima ha iniziato a cercarmi, a parlarmi. Mi vedono, mi guardano, guardano la mia faccia, i miei occhi."

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La 48enne Benita Tahuri (ritratta in foto qui sotto) ci ha pensato per anni prima di convicersi a farsi tatuare. L'attesa accomuna tutte le donne con cui ho parlato per la realizzazione di questo pezzo. "Dentro di me ho sempre saputo di volerne uno, e dopo aver vissuto tanti cambiamenti, tante sfide, e averci riflettuto a lungo, sapevo che era la cosa giusta da fare," dice Benita.

"Per me era un simbolo di guarigione, di riflessione, di rivendicazione di un'identità."

Benita Tahuri. Foto di Stephen Langdon

"Si tende a pensare che non sia una cosa per tutti, che ce lo si debba guadagnare," spiega Benita. "Io invece penso che se sei maori, è tuo diritto averne uno. Nessuno può fermarti se pensi sia la cosa giusta per te. Una volta era normale, e ora non lo è più. Abbiamo dovuto lottare per riprenderci tante cose, e non è il caso di porci altre barriere."

Benita appartiene alle tribù Ngāti Kahungunu e Tūhoe. È cresciuta nel paesino di Wairoa, sull'Isola del Nord. Nel pub c'era una regola non scritta: il retro era per i maori, la parte anteriore per i pākehā (bianchi). Nessuno parlava maori in pubblico. Poi Benita si è trasferità in città e ha mandato i figli a scuole maori. Oggi le sue figlie Honey (23 anni) e Anahera (25) hanno entrambe i loro moko.

"Volevo che il moko diventasse parte della loro normalità," spiega. "Per me è stato un processo lungo, per loro è stato diverso. Un tatuaggio non è una cosa che quando non ti va più puoi togliere. Non è una maglietta. È sempre lì, per il resto della tua vita. E dice a tutti chi sei e a chi appartieni."

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Benita con le figlie Honey e Anahera. Foto di Stephen Langdon

Mentre l'ago ha iniziato a percorrere il mento di Drina Paratene, la 52enne ha avvertito un profondo senso di pace. "Mi ero preparata mentalmente, e prima di iniziare abbiamo pregato. Pensavo sarebbe stato doloroso, ma non lo è stato affatto."

Drina si è fatta tatuare a casa, da Pip Hartley. Pip ha utilizzato lo strumento tradizionale, l'uhi, che in epoca pre-coloniale era uno scalpellino fatto d'osso, immerso nel pigmento e poi utilizzato per incidere la pelle. Pip ha inserito un ago nel suo uhi, e fa entrare l'inchiostro attraverso piccoli colpi come prevede la tecnica tradizionale.

"Volevo che usasse l'uhi per avvicinarmi ancora di più ai nostri antenati e al loro vissuto," dice Drina, una insegnante di maori. "Mi aspettavo di provare un bel po' di dolore, invece sono rimasta stesa a terra per sei ore senza problemi."

Drina ha fatto parte del movimento Kōhanga Reo, nato negli anni Ottanta per promuovere l'uso della lingua maori. "Volevo tatuarmi per rendere il moko normale all'interno delle nostre comunità." Il suo tatuaggio simboleggia i tre valori che ritiene fondamentali. Il primo è il tika, l'onestà e l'integrità; il secondo è il pono, la credenza in un ordine spirituale; e il terzo è l'aroha, amore.

"Volevo trasmettere questi valori ai miei figli e ai miei nipoti," dice. "Affinché guardando il mio tatuaggio vedano il messaggio, l'importanza di vivere una vita piena e significativa."