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Tecnologia

Questo giornalista usa i filtri di Snapchat per combattere la violenza sessuale

Un giornalista dell'Hindustan Time ha invitato le vittime di abusi a raccontare le loro storie davanti alla fotocamera dello smartphone.
Immagine: screenshot via Facebook

Anche le grandi testate possono usare Snapchat per fare giornalismo. L'anno scorso lo aveva dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, la BBC, col suo documentario sul viaggio dei rifugiati attraverso l'Europa. Al di là del formato verticale, in fondo, si trattava di foto, video e didascalie, nulla di particolarmente innovativo. Ma i filtri, di Snapchat? Esiste un modo credibile di usarli senza buttare tutto in caciara? A quanto pare sì, eccome.

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Yusuf Omar, mobile editor dell'Hindustan Times, ha invitato ragazze e donne vittime di violenze sessuali a mettersi davanti alla fotocamera di uno smartphone e raccontare quel che hanno subito, proteggendo la loro identità con un filtro a scelta. A giugno, Omar ha partecipato a una manifestazione contro gli stupri a Mysore, nel sud dell'India: ha affidato il suo cellulare a due ragazze sopravvissute a casi di violenza, si è allontanato e ha lasciato che fossero loro a parlare. Una ha raccontato un episodio risalente a quando aveva 5 anni; l'altra ha detto di essere stata rapita, chiusa in una stanza e torturata. Entrambe hanno scelto il filtro del dragone che sputa fuoco quando apri la bocca, forse perché era il più coprente tra quelli disponibili.

Nella versione finale del servizio, che dura un minuto e mezzo, le storie delle ragazze sono riassunte in pochi secondi, mentre organizzatori e partecipanti descrivono la situazione in India e il genere di abusi a cui sono sopravvissuti molti dei partecipanti. In teoria, mascherare da dragone una ragazza che racconta di essere stata stuprata dovrebbe essere l'apice del cattivo gusto, dovrebbe offendere al primo sguardo qualunque buon progressista; eppure non è così. I frammenti delle loro vicende non risultano ridicoli né pacchiani.

La stessa considerazione è valida per il secondo video di Yusuf Omar in questo stile, girato nell'Ewaa Shelter di Abu Dhabi, che offre riparo a donne e bambini vittime di sfruttamento sessuale o tratta di esseri umani. La donna che parla nel video racconta che le era stato promesso un lavoro da un parrucchiere, ma che invece si era ritrovata costretta ad avere rapporti sessuali con 10-15 uomini al giorno. Come lei, giovani da tutta l'Asia vengono attirate negli Emirati Arabi Uniti con l'inganno, per poi essere fatte schiave. Il filtro scelto da lei – una specie di Jack Skeletron sorridente che mostra la lingua – è in teoria ancora più inappropriato del dragone, tuttavia non sembra toglierle un briciolo di dignità.

L'Hindustan Times è un quotidiano e sito di informazione indiano in inglese; una delle testate più grandi del subcontinente indiano. Se si interessa allo sfruttamento sessuale anche negli Emirati Arabi, molto lontano dai propri confini, è probabilmente perché il tema in India è caldissimo. Il problema degli stupri su donne e bambine è emerso in modo prepotente negli ultimi anni con proteste di piazza, esacerbate dai tentativi di reprimerle e dall'atteggiamento a dir poco ambiguo del governo.

Gli smartphone, per giunta, sono spesso usati come strumenti per perpetuare la cultura dello stupro: esiste un mercato nero dove i video delle violenze vengono venduti per l'equivalente di pochi euro, e la polizia sospetta che le registrazioni siano utilizzate dagli stupratori per ricattare le vittime, costringendole al silenzio e a ulteriori atti di sottomissione. Il gesto di Yusuf Omar, che rimette il telefono nelle mani delle donne, è quindi un atto politico di empowerment che ribalta un meccanismo ricattatorio.

I filtri di Snapchat, nel contesto indiano, non sono solo uno strumento legittimo per fare giornalismo: in qualche misura, sono uno strumento necessario. La legge, infatti, vieta la pubblicazione in ogni forma dell'identità o dei dati personali relativi ai minorenni sopravvissuti a violenze sessuali. L'intenzione è ovviamente protettiva, ma la conseguenza è anche quella di precludere alle vittime molte possibilità per raccontare in prima persona le proprie disavventure.