The asphalt is melting
Illustrazione di Roberta Antonelli

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Tecnologia

The asphalt is melting

Un mondo distopico a 75 gradi, dove si gira con tute da astronauta e scarpe di roccia, e dove la corrente elettrica è un lusso per pochi.

Questo racconto fa parte di Terraform, la nostra rubrica di fantascienza.

"The asphalt is melting," urlava l'altoparlante posizionato all'angolo del palazzo. "The asphalt is melting" continuava la voce femminile con un tono professionale tra l'allarmato e il responsabile. "So you have to cross the street very carefully," mi ha detto una vecchia sul girello a motore mentre mi sorpassava in equilibrio sul marciapiede con un accento inglese forzatissimo. "Ma porca puttana" pensavo io mentre mi guardavo le scarpe con le zeppe di roccia e il vestito da astronauta che iniziava a puzzare di sudore e combustione, "questo luglio infernale non sarebbe dovuto arrivare. Una volta ero una donna mentre ora sono un crostaceo intrappolato in un vestito sintetico con ai piedi delle scarpe che sparano agli uccelli. Dio deve essersi trasformato improvvisamente in Kafka." Continuavo a camminare e a imprecare sulla passerella ignifuga sognando un luogo fresco in cui bere e togliermi finalmente quella tuta.

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Stavo andando a un colloquio di lavoro, ero stata convocata con una lettera color ocra depositata da uno di quei quadricotteri statali di sorveglianza. La posizione non era chiara, il progetto neanche. Doveva trattarsi della solita roba torbida. Sicuramente avevano trovato il mio indirizzo consultando il database dell'università: c'era bisogno di laureati da inserire nella macchina burocratica e se ne trovavano sempre meno. Nessuno studiava, tutti andavano a lavorare per poter accedere prima possibile all'energia elettrica e potersi accendere un condizionatore in casa. Io invece ero troppo testarda e ambiziosa per mettermi a sgobbare nelle loro factory del cazzo appena finita la scuola, e avevo sopportato il caldo e la precarietà per altri 3 anni conseguendo un'inutile laurea in veterinaria.

Le tute da astronauta le aveva distribuite lo stato pochi giorni dopo il primo picco massimo dei 75 gradi, quando il numero di morti era salito del 15% e quello dei suicidi del 20,5%. Erano state fabbricate in sovrannumero nel periodo in cui c'era la fissa per la colonizzazione di Marte. Ognuno avrebbe comprato la sua tuta e prenotato un biglietto per andare a godersi il suolo arido e affascinante del Pianeta Rosso . Poi le compagnie che organizzavano i viaggi Terra­Marte erano fallite, perché i costi in termini energetici erano troppo alti anche per loro. In un mondo in cui soltanto il 2% della popolazione aveva un accesso illimitato all'energia elettrica era difficile pensare che molti potessero permettersi un vacanzone interplanetario. Quasi tutte le persone che conoscevo vivevano chiuse in casa come larve sudate, assetate e senza condizionatore. Da che ho memoria è sempre stato più o meno così, ma in quei mesi la situazione era peggiorata: la gente si suicidava, il mio cane era morto disidratato e non vedevo i miei amici da settimane perché i segnali della messaggistica non funzionavano.

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"È il luglio più caldo da quando esiste il concetto di temperatura. Forse solo i dinosauri hanno subito temperature del genere, poveretti" mi ha detto un tipo alla fermata dell'aereo metropolitano. "Comunque non conosceremo mai per certo le loro vere sofferenze perché i dinosauri non sapevano scrivere, e quindi non ce le hanno tramandate."
"…"
"Gli scienziati stanno cercando da anni di clonarli, lo sai? Ma pur ammesso che ci riescano, dubito che riusciranno a farli parlare. No?"
"Non so, io al mal comune mezzo gaudio non ci ho mai creduto; anzi mi sembra proprio un atteggiamento da sadici e stronzi. Mi dispiace molto per la fine dei dinosauri, e per la loro attuale afasia soprattutto."

Il tipo si è girato dall'altra parte e non ha più detto niente. Forse sono stata indelicata, a certe temperature la gente è suscettibile.

Intanto l'asfalto continuava a sciogliersi e mentre raggiungevo il centro per l'impiego mi sentivo come dentro uno di quei simulatori dove corri in avanti come un pazzo perché dietro di te la terra si sta spaccando. Persino i palazzi sembravano piegati dal caldo. Anzi, forse lo erano. Quel lavoro mi serviva. Ero sicura che avrei odiato il mio interlocutore al colloquio perché era un funzionario statale ergo automaticamente un viscido, ma non potevo permettermi di stare lì tutto il tempo a immaginare di ritagliargli il polmone sinistro con un laser, dovevo mettere una croce sopra certi ideali.

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L'edificio, un parallelepipedo bianco a quadrettoni con un neon rosso che pendeva in diagonale con la scritta CENTRO PER L'IMPIEGO, sembrava uno di quei vecchi quaderni che mia madre usava a scuola e che ogni tanto tirava fuori da un cassetto per farmi vedere come si imparavano le cose nell'era analogica. La rampa di scale all'entrata avrebbe potuto uccidermi solo a guardarla: gradoni altissimi di plexiglass e rampe infinite a chiocciola. Niente ascensore. Avevo le scarpe di roccia e una tuta da astronauta antitraspirante. Puzzavo e sudavo.

Mentre fissavo la statua orribile di una lumaca in titanio, decisa a restare piantata all'ingresso finché non mi avessero tirata su con un cavo d'acciaio, è comparso un bot con il rossetto arancione e i capelli chiari raccolti a banana, con un completo termoisolante stretto sui fianchi e con tutta l'aria di essere una hostess: "Troisième étage." Mi ha fatto segno di togliermi la tuta e le scarpe, le ha prese con sè e mi ha dato in mano un badge per ritirarle. Sorrideva alla qualunque e non capivo perché parlasse francese. Come facesse a sapere chi fossi e dove dovessi andare, poi, non lo volevo sapere. Anche senza scarpe e tutone le scale si sono rivelate comunque troppo impegnative per i miei standard, sentivo gli adduttori delle cosce che si stiravano e le ginocchia che scrocchiavano in una tragica alternanza. Per fortuna l'edificio era ben isolato e forse c'era anche un condizionatore acceso lì da qualche parte nella tromba delle scale. Al troisième étage ero all'apice della tachicardia.

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"Salve!" mi ha urlato dall'alto un omino snello con un paio di occhiali con le lenti piramidali e una camicia rossa traslucida.
"Salve, sono qui per il colloquio" ho risposto.
"Lo so."

Il corridoio era un labirinto a quadrettoni con le porte di vetro oscurato e un pavimento beige usurato e lavato male. Sembrava deserto. L'impiegato mi ha fatto strada fino al suo ufficio, una stanza cubica e fresca con i muri rivestiti di un materiale che non avevo mai visto, di un verde acceso e all'apparenza molto morbido al tatto.

"È muschio, una pianta rarissima eppure potenzialmente immortale. Questo verde mi ricorda l'infanzia, quando i prati non erano ologrammi sui campi di calcio ma vere distese di fili d'erba allineati come un'immensa folla obbediente." La metafora mi ha dato un brivido. "Hai avuto difficoltà ad arrivare?"
"A parte il caldo insopportabile, le scarpe pesantissime e l'asfalto che si scioglieva sotto i miei piedi tutto ok. Non che a casa mia si stesse meglio. Può saltare lo small talk, comunque, arriviamo al punto."

"La tua urgenza di sapere è molto comprensibile. E anche la tua ostilità." Ha detto aggiustandosi gli occhiali con la nocca dell'indice destro. "Però mi dispiace, non posso andare dritto al punto perché devo prima capire se fai al caso nostro." Polmone sinistro, laser. Si è avvicinato e mi ha messo degli elettrodi freddi sulle tempie chiedendomi gentile "Permetti?", li ha collegati allo schermo di un computer e ha iniziato l'interrogatorio.

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"Sei laureata in veterinaria, vero?"
"Sì."
"Hai entrambi i genitori?"
"No, nessuno dei due."
"Hai parenti stretti vivi?"
"Mia nonna che ha già un piede nella fossa e mio fratello che avete sequestrato."
"Motivo?"
" Ricerca artistica."
"Capisco. Come ti sei mantenuta finora?"
"Facendo pompini ai replicanti."
"…"
"Be'?"
"Non mi risulta ma ok. Saresti disposta a cambiare completamente vita per lavoro?"
"Non saprei, peggio di così c'è solo l'autocombustione. Ma molto dipende dal lavoro."
"Ok, grazie per il test. Rientri perfettamente nei nostri parametri."
"Davvero."
"Sì, davvero. Ora ti spiego."

Il muschio si è illuminato all'improvviso di un azzurro intenso. Ero schifata e confusa allo stesso tempo, anche un po' curiosa dall'entità della boiata che mi si stava per presentare. La proiezione sui muri della stanza iniziava con il cielo stellato e continuava con un focus sulla luna sempre più ravvicinato. Il render in CGI era accompagnato da una brutta sinfonia in stile Vivaldi. Le immagini entravano sempre più nel dettaglio, c'era un piccolo villaggio di case rotonde, simili a igloo laminati di un metallo lucente. Dentro le finestre scene da vecchie cartoline di Natale avvolte in una luce calda di famiglie felici intorno al fuoco: bambini che giocavano, madri che accarezzavano gatti sul divano, padri che riparavano orologi a pendolo. Tutto perfettamente insensato. Fine della proiezione.

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"Ti sei mai chiesta quando finirà questa situazione di caldo asfissiante?" mi ha domandato l'omino schiarendosi la voce.
"Di continuo" ho risposto.
"Perfetto. Secondo te c'è qualcosa che possiamo fare per migliorare la nostra condizione sulla Terra?"
"Non ne ho idea, mi dica lei."
"La risposta, a detta di quasi tutti gli scienziati viventi, è no."
"Ottimo."
"Ti sei mai chiesta cosa stia facendo il Governo a riguardo?"
"Sì, e la risposta, a detta di tutte le persone che conosco, è niente."
"Qui ti sbagli. La nostra aristocrazia, fortunatamente, è già in salvo grazie al progetto sperimentale che hai visto nel video."
"Ah."
"Esattamente. E quello che ti chiediamo, in quanto datori di lavoro, è di trasferirti in uno dei villaggi lunari per prenderti cura degli animali che vi vengono allevati, semisintetici e non."

Afasica come un dinosauro. Trasferirsi sulla luna circondata da aristocratici per curare gatti viziati e maiali da carne semisintetici.
"Va da sé che il compenso sarà rapportato al sacrificio, e vitto e alloggio saranno a nostro carico." Invertebrata come una lumaca di mare. Avrei dovuto sputargli in un occhio e invece ero quasi tentata. "Ti preghiamo di mantenere il massimo riserbo. Hai una settimana per pensarci, ma una volta acconsentito non potrai tornare indietro. Ti faccio strada intanto." Mi ha aperto la porta dell'ufficio e mi ha fatto segno di seguire il corridoio beige congedandomi con un saluto militare.

Mentre scendevo i gradoni di plexiglass ero da qualche parte tra il poter ridere e il dover piangere. Stringevo in mano il badge e mi chiedevo come fosse possibile che quegli aristocratici vivessero il loro eterno Natale sulla luna a spese del governo mentre noi eravamo qui a schiattare letteralmente di caldo. Non mi aspettavo niente di diverso, in realtà, non ho mai creduto nell'onestà di nessuno, nè nelle buone intenzioni di una qualche macchina astratta chiamata stato, ma mi faceva rabbia l'idea di essere obbligata a scegliere tra una condizione di miseria senza uscita e lo schifo aristocratico lunare. Non avevo nemmeno l'illusione di poter fare una scelta più giusta dell'altra o di poter guadagnare una qualche libertà.

All'ingresso, il bot era ancora impeccabile con il suo rossetto arancione e la sua pettinatura a banana; mi ha riconsegnato le scarpe e il tutone senza fiatare una parola di francese. Sono uscita trascinandomi con la solita goffaggine da crostaceo guardando il sole dritto negli occhi. Dopo tutto, questo asfissiante clima tropicale non era poi così male. Bisognava solo farci l'abitudine.

Illustrazione di Roberta Antonelli