Nel sottosuolo di Ulan Bator

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Nel sottosuolo di Ulan Bator

Mikel Aristregi ha documentato la vita nei tunnel sotterranei dei senzatetto alcolizzati della capitale mongola.

Al fotografo Mikel Aristegi piace sopra ogni altra cosa fotografare etnie e sottoculture differenti in tutta l'Asia. Il suo ultimo lavoro, -40/96°, documenta la vita sconsolata dei senzatetto di Ulan Bator, capitale della Mongolia, che cercano di sfuggire al freddo polare rifugiandosi nei tunnel sotterranei dove corrono le tubature che riforniscono la città di acqua calda. Molti di loro sono anche alcolizzati; solitamente si sbronzano con un liquore locale non molto diverso dall'etanolo puro. Guardando le foto di Mikel si potrebbe pensare che siano state scattate da un compatriota di queste persone sconfitte, ma Mikel è nato nei Paesi Baschi. Tuttavia, nonostante la diversità etnica (e occupazionale), nelle sue fotografie è riuscito a inquadrare i soggetti proprio come se fosse uno di loro. L'ho intervistato per capire come diavolo abbia fatto a superare le barriere e a scattare delle foto così intime e intense.

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È un onore conoscerti, Mikel. Sei nato nei Paesi Baschi ma lavori soprattutto in Asia. Come fai a comunicare con i soggetti delle foto? Impari la lingua prima di andare sul luogo o superi le barriere linguistiche in qualche altro modo?
Mikel Aristegi: Essere in grado di comprendere le persone che stai fotografando è essenziale. Per questo motivo, mi sono servito dell'aiuto di Zoolbo, uno studente mongolo di inglese, abbastanza coraggioso da introdursi nel loro mondo. Solitamente cerco di imparare le parole di base, così da poter dire qualcosa quando mi trovo senza traduttore. E anche perché la gente apprezza che tu faccia uno sforzo per imparare la loro lingua, anche se sai solo qualche parola la connessione diventa migliore e più veloce. A tutti fa piacere che si rispetti la loro cultura.

Sicuramente rendi onore a queste persone, fotografando soprattutto sottoculture sconosciute e mostrandone i problemi, nascosti a gran parte del mondo. A questo proposito, i tuoi soggetti in -40/96° sembrano aver raggiunto un punto estremo di disperazione isolata, tormentata dall'alcolismo. Come sei riuscito a convincere queste persone a farsi fotografare in un momento così infimo delle loro vite?
Ho cominciato a frequentare una zona vicino al mercato di Harhorin, a ovest di Ulan Bator, uno dei loro principali punti di ritrovo. Ho provato a spiegargli cosa avevo intenzione di fare, e gli ho chiesto se potevo trascorrere un po' di tempo con loro per fotografarli, ma avevo serie difficoltà a farmi capire. Mi hanno accettato solo perché pensavano che avrebbero potuto ottenere qualcosa in cambio: soldi, cibo o sigarette. Cercavano un profitto personale immediato, quindi per avvicinarmi davvero ci è voluto un po' di tempo.

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Nonostante avessi un interprete, la comunicazione restava difficile, visto che erano ubriachi, si distraevano facilmente e avevano problemi di comprensione. A volte diventavano aggressivi, ti minacciavano per ottenere dei soldi. Quando è successo, il mio traduttore Zoolbo e io ci siamo dovuti allontanare e abbiamo aspettato che la situazione si calmasse. I loro sbalzi erano imprevedibili, cambiavano umore da un minuto all'altro.

Nonostante l'instabilità, è il legame con i tuoi soggetti a prevalere. Come fotoreporter che si occupa di argomenti così intensi e toccanti, entrando in contatto con persone che hanno un reale bisogno di assistenza, ti capita mai di voler intervenire in prima persona e aiutarli? O preferisci essere un osservatore silenzioso e non interferire, in modo da catturare meglio la realtà della situazione?
In generale cerco sempre di rimanere un osservatore silenzioso, almeno all'inizio. Credo che mentre fotografi puoi fare ben poco, nel breve termine, per aiutare un gruppo così numeroso. Continuare a fotografare e credere nel tuo lavoro, avere fiducia nella risonanza che potrà avere in futuro (per esempio, attirando l'interesse di un'organizzazione no profit), secondo me è il modo migliore per aiutarli. Ovviamente più ti avvicini, più diventa impossibile non aiutare qualcuno che ha bisogno, ad esempio portandolo all'ospedale, o comprandogli qualcosa da mangiare, cose così. Più passano i giorni, più senti crescere il legame con alcuni, e ti senti che devi fare qualcosa, oltre a scattare fotografie.

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Per esempio, ho conosciuto un ragazzo di 25 anni, Enkhbaatar, che beve da quando ne ha 15. I suo genitori sono morti quando era piccolo, così ha passato l'infanzia e l'adolescenza sopravvivendo con gli aiuti delle ONG o negli orfanotrofi statali. Ora vive per strada. Ha una figlia, ma sua moglie non gli permette di vederla. Ha perso la vista da un occhio durante una rissa e soffre di pesanti emicranie.

L'ho incontrato in un centro evangelico mentre cercava di allontanarsi dalla "cattiva strada", come la chiamava lui. Una Bibbia è tutto il sostegno psicologico che gli alcolisti ricevono al centro, per cui dieci giorni dopo Enkhbaatar è scappato e ha cominciato a bere di nuovo. Un po' di tempo dopo l'ho trovato in pessime condizioni, così l'ho portato in ospedale e, ovviamente, ho pagato i conti e le medicine per il suo trattamento; semplicemente non riesci a dire no, e non vuoi nemmeno!

Suppongo che alla fine spetti solo al fotografo decidere fino a che punto farsi coinvolgere. Parlando di storie al limite, in che contesto hai scattato la foto della donna con i segni circolari sulla schiena mentre viene portata via dai militari? Si intona bene con il resto delle tue fotografie, ma ha una valenza politica più pregnante rispetto ad altre immagini.
So che colpisce molto, ma non è come può sembrare; non c'entra nulla con le repressioni o le torture della polizia. Quei cerchi sono la conseguenza di una tecnica di medicina cinese tradizionale, che consiste nel posizionare bicchieri di coppettatura sulla schiena del paziente per stimolare la circolazione del sangue. Una tecnica piuttosto comune in tutta l'Asia. Si è trattato di una coincidenza che la donna, arrestata per ubriachezza molesta, fosse stata trattata con questa tecnica.

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A proposito di tradizioni interessanti, c'è una cosa che ho notato. Tutti i lavori sul tuo sito internet sono stati fatti in diverse parti dell'Asia. C'è una ragione per cui sei particolarmente attratto da queste zone? Hai la "febbre dell'Asia"?
No davvero. Il mio primo viaggio lungo nel Sud-est asiatico l'ho fatto perché una mia ex fidanzata voleva andarci. In Cambogia ho conosciuto alcune persone, e successivamente grazie a loro sono tornato per documentare la vita quotidiana dei bambini di strada a Phnom Penh. Ho tirato su qualche soldo, e sono rimasto lì per cinque mesi. In seguito, ho ottenuto un finanziamento per lavorare a Ulan Bator, e ci sono andato. Mi sembra che i miei soggetti e i miei viaggi in qualche modo si concatenino tra loro; ognuno mi porta al successivo.

Date un occhio a -40/96° e alle altre foto di Mikel Aristregi sul suo sito.

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