L'occhio del futuro
Illustrazione: Juta

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Tecnologia

L'occhio del futuro

Un computer prometteva di restituirgli la vista. E lui ci ha creduto.

Questo racconto fa parte di Terraform, la nostra rubrica mensile di narrativa sci-fi. Racconti sul futuro dell'uomo, della Terra e dell'universo — tra nuovi approcci alla realtà ed evoluzioni distopiche del nostro presente. Ogni mese una nuova puntata: se hai un'idea da proporre o un racconto da pubblicare, scrivici a itmotherboard@vice.com.

Oggi ospitiamo un estratto da "Tenebre", la raccolta di racconti scritti da Elia Gonella pubblicata recentemente da edizioni Las Vegas.

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A svegliarlo fu il prurito sotto la palpebra. Sollevò la mano e la trovò pesante, come se il suo corpo fosse immerso in un liquido denso. Postumi dell’anestesia. Nel silenzio che lo circondava, le macchine mediche continuavano a emettere suoni regolari e indifferenti. La benda era ruvida al tatto, non riusciva a smettere di toccarla. Sentì che la porta si apriva, che un filo d’aria gli portava il profumo discreto della dottoressa.

«Allora? Funziona?» chiese lui, con ansia.

«Nessuna complicazione, in sala operatoria» rispose lei. «Dovremo aspettare altre quarantotto ore. Ma cosa fa?»

Lui si alzò a sedere, si strappò gli elettrodi dal petto. Stava per fare altrettanto con la benda quando la mano della dottoressa si posò sulla sua.

«Non faccia sciocchezze. La retina ha bisogno di restare a riposo.»

Lui cercò le braccia della dottoressa e si alzò in piedi. Sentiva di sovrastarla di almeno una testa, e chinò il mento verso di lei, come se potesse guardarla dritta in faccia. Immaginò la scena: il gigante bendato, la donna col camice bianco, l’uno nelle mani dell’altra. Dio sa se era bionda o bruna, se aveva delle belle labbra.

«Dottoressa, la retina ha riposato per cinque anni. Non mi chieda di aspettare ancora.»

Lei non rispose, non tentò di divincolarsi dalla sua presa. Respirava piano.

«Ho bisogno di sapere se la macchina funziona. La prego.»

L’infermiere arrivò con una sedia a rotelle, ma lui insisté per camminare sulle sue gambe. Teneva una mano sulla spalla della dottoressa e a volte incespicava, mentre attraversavano la nebbia di suoni e di voci della corsia. Il vuoto allo stomaco si faceva sentire sotto forma di vertigine: aveva iniziato a digiunare ventiquattr’ore prima dell’operazione. Quanto tempo era passato?

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Lo fecero entrare in un’altra stanza, che in qualche modo gli sembrò più piccola. Aveva imparato a misurare gli spazi a orecchio, a calcolare la vastità dei silenzi. L’infermiere gli tolse la benda con una cautela estenuante; lui continuava a non vedere nulla. Sentì delle gocce di collirio scendere nell’occhio e poi giù per la guancia, come lacrime.

«Si ricorda come funziona?» domandò la dottoressa, mettendogli tra le mani un oggetto compatto e pesante, di plastica e metallo.

«Il microcomputer. Devo indossarlo alla cintola» disse lui. «Questo è il cervello.»

«In un certo senso. E questo è il nuovo occhio.» La dottoressa gli infilò un paio di occhiali dalla montatura spessa. Accanto alla lente sinistra, un affare gelido premeva contro la pelle. Da una delle stanghette due cavi scendevano fino al microcomputer.

«Posso accenderlo?» chiese lui. «Ancora un istante.» Sentì lo scatto della serratura, i passi familiari, strascicati, di un uomo che veniva verso di lui.

«Ci siamo» disse la dottoressa.

Il clic dell’interruttore, poi un lampo bianco. Nei primi istanti il segnale era confuso e insieme inequivocabile. Dopo cinque anni di oscurità completa, riusciva a percepire la luce. E una figura scura, stagliata contro la parete.

«Papà.»

L’ombra di suo padre gli si avvicinò, tremante. Le sue mani incerte, ruvide, gli toccarono il viso, tastarono il contorno degli occhiali. Lui distingueva nell’alito del vecchio l’odore dell’alcol; per questa volta non gliene avrebbe fatta una colpa.

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«Mi vedi? Mi vedi!» disse il padre. «È un miracolo!»

L’uomo non ebbe cuore di ripetergli ciò che più volte gli era stato spiegato: non poteva distinguere i tratti del suo volto. La protesi era come un apparato digerente. Le immagini entravano attraverso la microcamera, scendevano nel microcomputer, risalivano al trasmettitore fino al microchip impiantato nella retina. Nel processo, tutti i colori e le sfumature andavano perduti. All’occhio arrivava un mondo in scala di grigi, dove un uomo non era che un pugno di pixel, una sagoma nera su campo bianco.

«Vi lascio soli» disse la dottoressa. «Dieci minuti. Poi dovrò rimetterle la benda.»

Suo padre lo aiutò ad alzarsi, e i suoi contorni si fecero più frastagliati. Forse erano in piedi davanti a una finestra, e fuori il sole batteva forte. La stanza era un cubo dalle linee seghettate che si muovevano a scatti di cinque, sette fotogrammi al secondo. L’occhio bionico univa il futuro e il passato: un braccio robotico gli aveva installato un chip nel punto più delicato del suo corpo, e ora tutto quello che riusciva a vedere somigliava a un videogioco di quand’era ragazzo.

«Portami fuori, papà. Andiamocene di qua.»

«Hai sentito la dottoressa» rispose il vecchio. Poi, a voce più bassa: «Lo so cos’hai in mente. Vuoi saltare in macchina e guidare. Ah! Se ti vedesse tua madre.»

Sì, aveva nostalgia del volante, il rombo del motore che rispondeva al suo comando, la libertà di partire, di correre via senza qualcuno che lo accompagnasse. Tutto questo non sarebbe tornato, lo sapeva. Ma c’era qualcosa che gli mancava ancora di più, l’unico motivo per cui aveva accettato di fare da cavia per la protesi retinica.

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Sette giorni dopo c’erano spari intorno a lui, colpi che esplodevano e rimbombavano tra le pareti di cemento, ma lui non poteva sentirli. I suoni erano ovattati dalle cuffie, e la sua concentrazione era tutta sul grilletto, sulla sagoma bianca oltre il mirino. Aspettò che una goccia di sudore colasse giù dalla fronte. Poi fece fuoco, una sola volta. Il poligono di tiro era un’enorme scatola nera, piena di bersagli bianchi. Sembrava fatto apposta per lui, per la sua nuova vista digitale. Richiamò a sé la figura che aveva colpito, una sagoma umana di carta.

«Ora sei un cyborg. Lo sei sempre stato. Ricordi?»

«Non c’è male, per un ferrovecchio» disse una voce alle sue spalle. L’uomo si voltò lentamente, aspettò che la protesi aggiornasse l’immagine.

«Ferrovecchio sarà lei… colonnello.» L’aveva riconosciuto non dalla figura – solo una silhouette identica a tutte le altre – ma dal rantolo. Il colonnello aveva una pallottola nel petto, troppo vicina al cuore perché si potesse estrarla. I due esitarono per un momento, poi si abbracciarono. «Allora è vero» disse il colonnello, passando una mano davanti agli occhiali. «Questa diavoleria funziona.» «Con qualche aggiustamento» disse lui, alzando il fucile da cecchino. «Ho fatto modificare il mirino, così posso appoggiarlo davanti alla microcamera. Visione centrale tubolare, la chiamano. È qui, al centro della fronte, come un terzo occhio.» «Ora sei un cyborg. Lo sei sempre stato. Ricordi? Ti chiamavano la Macchina. Dicevano che potevi centrare la testa di un uomo a quattrocento metri anche a occhi chiusi.»

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«Vorrei che fosse vero» rispose lui. Per un attimo, tra i due, calò il silenzio degli incontri rimandati troppo a lungo. Intorno a loro, gli spari continuavano, assordanti.

Uscirono nel tepore del sole. Il poligono era immerso nella campagna; l’uomo ricordava che i primi palazzoni della periferia, le torri fatiscenti che chiamavano Futura, non erano lontane – ma ora non riusciva a distinguerle. Camminava con più sicurezza, aiutandosi con il bastone bianco.

«Beh, eccoci qua» disse il colonnello. «Due residuati bellici.»

«Già». L’uomo allungò una mano verso lo scintillio sul petto del colonnello. Le medaglie erano stelle fredde, appuntite. «Almeno lei indossa ancora l’uniforme.»

«Tutta scena. Mi hanno messo dietro una scrivania.»

«Manca anche a lei, vero? La guerra.» L’uomo si passò una mano sulla fronte, oscurando per un attimo la microcamera. L’uso prolungato della protesi gli procurava un’emicrania leggera e persistente. «Sa cosa ho pensato? Se potessi collegare questo coso, il microcomputer, a una videocamera più grande… una con un bello zoom. Non avrei più bisogno del mirino, no? Per sparare, dico. Ma forse avrei problemi con il sole. Che ne dice?»

«Il sole?» «Il sole del deserto.» Il rantolo nel respiro del colonnello si fece più forte.

«Non mi hai chiamato per una rimpatriata, eh?»

«Ho ventinove anni e sono già in pensione. Devo restarci per tutta la vita?»

«Come te la cavi col computer? Ci sono tastiere, schermi per ipovedenti. Riesci a leggere bene?»

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«Lei mi conosce, colonnello. C’è una sola cosa che so fare bene.»

Il colonnello non rispose. Si rigirò a lungo una sigaretta tra le dita, prima di accenderla. Iniziò a tossire fin dal primo tiro, eppure non rinunciò a fumare.

«So come ti senti» disse infine. «Ma non farti troppe illusioni. Le cose sono cambiate, negli ultimi cinque anni. Sempre più droni, satelliti, attacchi informatici. La guerra non è più una cosa da uomini.»

«L’ha detto anche lei, no? Sono una macchina, ormai.»

Il colonnello tossì ancora, stavolta più forte, fino alle lacrime. «Non ho dimenticato il giovedì nero. Parlerò al comando, farò di tutto perché ti ricevano. Di più non posso prometterti.»

«Mi allenerò, signore. Tornerò quello che ero.»

Quando rientrò nel poligono era solo. Si sorprese a battere il bastone bianco contro pareti che non riconosceva. Il proprietario, che sapeva chi era, lo accompagnò fino alla sua postazione. Intorno a lui c’erano poliziotti in borghese, poche donne, qualche negoziante che voleva imparare a sparare ai ladri. Tutti mormoravano alle sue spalle; di certo fissavano i suoi strani occhiali, si ripetevano l’un l’altro la storia che ormai conoscevano. Lui si infilò le cuffie e ricominciò a sparare. Non smise fino a sera, fino a quando ebbe esaurito i proiettili. Ma non riuscì più a colpire il bersaglio al petto, e nemmeno alla testa.

Alla sera, solo nella sua stanza, si spogliò davanti allo specchio. Riusciva a distinguere una macchia bianca alle sue spalle, la lampada accesa sul comodino. Quanto a se stesso, era una figura nera, senza contorni, persa nell’oscurità. Sedette sul letto, lo stesso di quand’era ragazzino, e si prese la testa tra le mani. Dopo il congedo era tornato a vivere con suo padre: non aveva altra casa fuori dalla caserma, nessuna spalla a cui appoggiarsi mentre camminava nel buio. Posò gli occhiali sul comodino, collegò il microcomputer al cavo di alimentazione. Ora aveva una vista che andava ricaricata ogni notte, come un casco per la realtà virtuale. Una vista che assomigliava a una simulazione, che ricordava da vicino la cecità.

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Si addormentò senza spegnere la luce. E sognò ancora il deserto, l’eco delle autobombe tra le palazzine di cemento grezzo, colonne di fumo sulle case senza tetto, il panico ai piedi del minareto. Nel cerchio del mirino, un uomo abbandonava le braccia all’indietro, cadeva con la schiena sull’asfalto senza emettere un suono. La guerra era, a volte, l’incubo che gli faceva digrignare i denti fino a consumarli. Ma in essa sopravvivevano il luccichio dei granelli di quarzo, il rosso del sangue che si mescolava al fango, i bagliori dorati del tramonto. E per quanto nella sua mente i colori si facessero via via più sbiaditi e le sfumature inverosimili, quello era l’unico mondo che sentisse reale, il solo al quale desiderasse appartenere.

Il colonnello fece seguire alla sua promessa un lungo silenzio. Non rispondeva al telefono, né ai messaggi che l’uomo dettava a suo padre. Quanto a lui, continuava ad allenarsi, a sperimentare nuovi accorgimenti per far dialogare il mirino e la protesi. Alla sera l’uomo del poligono lo aiutava a contare i punti: c’era ogni volta un piccolo miglioramento, almeno a sentire lui. Il venerdì era aperto per tutta la notte, ma l’uomo usciva sempre alla stessa ora; suo padre l’aspettava sulla vecchia auto, nell’abitacolo che sapeva di cenere e deodorante al pino.

«Ho una sorpresa» gli disse una sera il vecchio, su di giri. «Guarda tu stesso.»

Gli mise tra le mani una busta di carta spessa, che per lui era solo un rettangolo bianco. C’erano dei caratteri impressi a secco, poteva sentirli gelidi sotto le dita; li immaginava d’oro o d’argento.

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«Leggimela tu, vuoi?»

La lettera veniva dallo Stato Maggiore, e iniziava con le felicitazioni di rito, le formule destinate al reduce pluridecorato, ristabilito dopo un infortunio di guerra. Un invito a unirsi alla parata commemorativa. Quel giorno, se lo desiderava, avrebbe potuto “produrre una dimostrazione delle sue ritrovate abilità”. Il colonnello l’avrebbe contattato a breve per maggiori dettagli.

Quella notte non riuscì a prendere sonno. Immaginava la piazza d’armi, i petti dei generali che scintillavano sulla platea, i loro sguardi puntati verso il basso. Lui era laggiù, con il fucile di precisione, di fronte al suo bersaglio. Sette colpi: quello che aveva a disposizione per dimostrare di essere ancora un uomo. Poco alla volta la luce cambiava, i generali diventavano un plotone di sagome nere. E le sue mani erano vuote e liquefatte nel sudore. Dov’era il fucile? A terra? Non riusciva a vederlo. Il bersaglio non c’era più, perché lui stesso era diventato una sagoma bianca… al petto, alla testa: erano pronti a crivellarlo.

Si svegliò prima dell’alba e infilò subito gli occhiali. Ma all’accensione, il microcomputer emise un bip stentato. Aveva dimenticato di caricarlo, la batteria era esaurita.

Il colonnello non tornò più a trovarlo, ma quindici giorni prima della festa si fece sentire per telefono. Parlò vagamente di altri reduci, di dimostrazioni di nuove armi. Lui aveva fatto il possibile, ma i generali non gli avrebbero concesso più di qualche minuto. C’era giusto il tempo per sparare tre colpi.

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Il giorno sembrava non arrivare mai, fino a quando non fu troppo tardi. L’uniforme era ruvida al tatto e sapeva di chiuso, quando la tolse dall’armadio. Suo padre lo aiutò a sistemarsi, gli appuntò sul petto le medaglie al valore.

La piazza d’armi era scossa dai passi degli uomini in marcia, come centinaia di tamburi. Un vento forte e mutevole faceva tremare le coperture degli spalti, minacciava di strappare le bandiere da ogni asta.

«Non devi farlo per forza» gli disse il colonnello, in una stanza che per lui era completamente nera. «Questo vento… sarebbe dura anche con gli occhi sani. Possiamo rimandare a un’altra volta, al poligono…»

Lui si sforzò di sorridere. «Lo Stato Maggiore non si riunirà di nuovo per guardare un cieco che spara. Andiamo avanti.»

«Tu eri la Macchina, eh?» disse una voce nel buio.

Tra i toni plumbei del grigio, riuscì a distinguere la silhouette di un nano o di un bambino, che veniva verso di lui con un cigolio. Una sedia a rotelle.

«Non mi riconosci, vero?» disse ancora la voce roca, che alitava fumo.

Lui si batté sugli occhiali. «Questi giocattoli hanno i loro limiti».

«Me l’immagino» rispose lo sconosciuto. «A me hanno proposto delle gambe robotiche, dal ginocchio in giù.»

«Sempre meglio della carrozzina, no?»

«Se a uno piace diventare un pezzo di ferraglia, o una cavia… Io non ci credo nei miracoli. Quando un uomo è finito, è finito.»

«Qui non si può fumare» intervenne il colonnello. «Sentite la fanfara? Tra poco tocca a noi.»

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Lui si chinò nella luce bianca, cercò a tentoni i braccioli della sedia a rotelle. Le mani dello sconosciuto erano fredde. «Non mi vuoi dire chi sei?»

«Cosa importa chi ero? Siamo qui, no? Benvenuto alla parata degli storpi.»

Fuori c’era odore d’erba tagliata di fresco, e i tamburi che battevano il ritmo si perdevano tra i sibili del vento. Lui si sentiva immerso in un oceano bianco: dopo l’operazione non si era mai spinto in uno spazio così vasto. Impossibile collocare gli oggetti in una prospettiva: le sagome nere potevano essere edifici all’orizzonte o paletti che distavano pochi metri. Procedeva insieme ai mutilati, tenendo una mano sulla spalla del colonnello. Di fronte a loro, così gli avevano detto, marciava la fanteria, alle loro spalle rombavano i cingolati. Sentì sopra la testa il boato dei caccia, poi uno scroscio di applausi. Dovevano essere arrivati all’altezza degli spalti.

Ecco il momento dei discorsi di rito. Lui rimase seduto rigidamente, la schiena ritta non sfiorava lo schienale di plastica. Cercava di concentrarsi sulle parole del generale, ma non riusciva a sentire altro che il fischio del microfono. Perfino gli applausi suonavano remoti. Pensava al bersaglio, al mirino, al grilletto… davanti a sé aveva una selva di teste nere, di berretti.

Venne il suo turno. Il colonnello lo accompagnò al pulpito e lo presentò brevemente. Come nell’incubo, sentiva che le mani gli si facevano di cera, mentre cercava a tentoni l’asta del microfono. Il silenzio della platea divenne più netto, forse ostile.

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«Io…» mormorò. Aveva la bocca così secca. Qualcuno, dagli spalti, iniziò a borbottare.

«Chi ha dimenticato il giovedì nero?» intervenne il colonnello. Si batté sul petto. «Io ho un pezzo di piombo, qua dentro, che me lo ricorda ogni volta che respiro. Ma non sarei qui a raccontarvelo, se non fosse per quest’uomo. Appostato su un minareto, solo con il suo fucile, è stato l’ultimo a mantenere la posizione e a coprire la nostra ritirata. Ha resistito per quarantotto ore, e ancora non si sarebbe fermato se le schegge di una granata non l’avessero colpito in pieno volto.» Il colonnello dovette fermarsi. Il suo fiato era corto, il rantolo si era trasformato in un fischio. «Dopo cinque anni, un’operazione sperimentale gli ha permesso di recuperare parte della vista. Ma davanti a lui, siamo noi che dobbiamo aprire gli occhi. Impariamo di nuovo a vedere, e dietro il reduce troveremo ancora un soldato.»

“Non c’è bisogno che vai tanto lontano per farti ammazzare. Un conto è un bersaglio, un altro un uomo.”

Gli applausi si alzarono fino a sovrastarli.

«Mi dispiace, signore» mormorò l’uomo. «Non so cosa mi è successo».

«Vieni con me.» Il colonnello lo spinse lontano dagli spalti. Lui distingueva soltanto una distesa bianca, senza fine. «Bersaglio bianco e fondo nero, come al poligono. Riesci a vedere?»

«Sì» mentì lui. Qualcuno gli mise tra le mani il suo fucile; non l’aveva mai sentito così pesante. Lo alzò e puntò il grilletto. Continuava a non vedere niente.

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«Stai tranquillo.» Il colonnello finse di sistemargli una mostrina, dissimulando il gesto con cui spingeva la canna del fucile in direzione del bersaglio. Finalmente lo vide: sagoma bianca, sfondo nero. Tre colpi dritti in testa… sì, poteva farcela. In fondo, era davvero come al poligono, eccetto che per il vento.

«Punta al petto» sussurrò ancora il colonnello. «Ma…» «Dammi retta, Macchina. Siamo molto lontani dagli spalti. Nessuno è qui a contare i punti. Testa o petto, nessuno degli alti papaveri farà caso alla differenza. Basta che colpisci la figura.»

Il colonnello si allontanò di qualche passo. I tamburi rullarono. Ora come cinque anni prima, era solo con il suo fucile. Sentiva il peso incombente di un giudizio inappellabile, come lo sguardo di un occhio grande quanto un pianeta, spalancato nel cielo e puntato dritto contro di lui.

Al suo fianco, suo padre guidava lento lungo la strada silenziosa. Alla radio passava una vecchia canzone. Lui allungò una mano e azzerò il volume. Da quando avevano lasciato la piazza d’armi, non aveva più detto una parola.

«Sei andato benone» disse suo padre. «Col vento che c’era».

«Una pagliacciata» rispose lui, ripensando all’uomo sulla sedia a rotelle. «Potevo colpirlo tre volte, potevo colpire cento bersagli. Non sarebbe cambiato niente.»

«Due su tre. Nessuno poteva fare meglio. Nessuno.»

“Bravo” gli aveva detto uno dei generali, al termine della festa, mentre sulla piazza d’armi ronzavano in formazione i droni di ultima generazione. “Ma al fronte non è come al poligono; un conto è un bersaglio, un altro un uomo”.

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«Ci vedi di nuovo» continuò suo padre. «Che importa se non ti riprendono indietro? Non c’è bisogno che vai tanto lontano per farti ammazzare. Puoi fare tutto quello che vuoi. Tutti i mestieri del mondo.»

Lui aveva smesso di ascoltarlo. Stringeva tra le mani il microcomputer, la maledetta protesi… aveva voglia di gettarlo dal finestrino, di strapparsi l’occhio bionico dall’orbita e sentirlo rimbalzare sull’asfalto, stritolato sotto la ruota di un tir. Se non lo fece, è perché credeva che gli sarebbe servito ancora, solo un’ultima volta.

A cena, al contrario del solito, bevve insieme a suo padre. Il vino era aspro, cattivo. Lo buttò giù come una medicina. Sentì che delle gocce erano scese a bagnargli i pantaloni dell’uniforme: non gli importava, non si asciugò nemmeno.

Più tardi, quando il vecchio iniziò a russare davanti al televisore, lui cercò a tentoni le chiavi e scese per la strada. Il buio era fitto, punteggiato dai lampioni e da insegne illeggibili. Dovette camminare ai margini del marciapiede, tastare la coda di quattro auto, prima di trovare quella di suo padre.

“Non c’è bisogno che vai tanto lontano per farti ammazzare. Un conto è un bersaglio, un altro un uomo.” Le parole del generale e quelle di suo padre si rimescolavano nella sua testa, ripetendosi all’infinito. Per un attimo, seduto nell’abitacolo, trovò la lucidità per chiedersi cosa stesse facendo. Poi mise in moto.

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La strada era un sentiero di tenebra. Per mantenersi sulla carreggiata procedeva a passo d’uomo, basandosi sui bagliori ambigui dei lampioni, dei fanalini di coda. Aveva freddo. L’aria dai finestrini e la tensione stavano dissolvendo l’effetto dell’alcol, e con esso l’idea che l’aveva convinto a partire. Aveva pensato di raggiungere il poligono — il venerdì era aperto tutta la notte, attraversare gli echi degli spari, nascondersi tra i bersagli, scoprire se un uomo era poi tanto diverso da una sagoma di cartone.

Ma più si allontanava da casa, più comprendeva di essere alla deriva. Sapeva che non avrebbe mai raggiunto la sua meta, ma non aveva modo di tornare indietro. Ora la notte gli sembrava ancora più nera: era uscito dalla periferia? Stava costeggiando un parco, un brandello di campagna? Sembravano non esserci più luci. Doveva fermarsi.

Stava per accostare quando dal buio apparvero due rettangoli bianchi. I fari puntavano verso di lui, assieme al frastuono del clacson, del grosso motore. In un attimo il nero fu bianco, e il volante era una ruota, un appiglio a cui aggrapparsi con tutte le forze.

Ci fu silenzio, mentre l’auto si capovolgeva, mentre volava dentro il fosso. Il sangue caldo scese dalla tempia fino a bagnargli le labbra. Rimase nell’abitacolo a suonare il clacson a vuoto: non sarebbe venuto nessuno.

Riemerse sul lastrico strisciando, trascinandosi come un animale notturno. Un braccio, una gamba, la testa… metà del corpo gli doleva, ma gli sembrò che le ossa fossero tutte intere. E gli occhiali? La montatura era intatta, ma una lente era stata scalzata; pazienza, era solo un pezzo di plastica scuro, per nascondere gli occhi rovinati di un cieco. La protesi poteva funzionare anche senza, benché per il momento il segnale fosse completamente nero. L’uomo prese a camminare al margine della via, tenendo un piede sull’asfalto e uno sul lastrico.

Si alzò di nuovo il vento, e finalmente lui riuscì a distinguere delle luci lontane. Abbandonò la strada. Ora l’erba frusciava contro i pantaloni, saliva fino a carezzargli le mani. Possibile che fosse arrivato al poligono? Ma iniziava a distinguere gli echi di una musica forte, di strilli e di risate.

Entrare tra i baracconi del luna park fu come passare le porte del paradiso. C’erano tanti bagliori, tante intermittenze che riusciva a immaginare i colori dei neon. Procedeva a tentoni, barcollando sulla gamba dolorante; c’erano tante voci intorno a lui, ma nessuno gli veniva addosso. Forse lo prendevano per un ubriaco e lo scansavano.

Nemmeno lui seppe come arrivò alla sala giochi. I tintinnii delle monete e i suoni elettronici gli erano familiari. Da ragazzino aveva passato tanti pomeriggi, intere estati sul retro del bar del suo quartiere, a buttare un gettone dopo l’altro nel ventre di metallo dei videogiochi. Era incredibile che, dopo tanti anni, se ne trovassero ancora in giro. Ogni cabinato aveva la sua musica e i suoi effetti; sopra questa cacofonia si distingueva a sprazzi un pezzo diffuso dagli altoparlanti: la canzone su un ragazzo che non vedeva, non udiva e non sentiva, e che diventava un messia del flipper.

La sala non sembrava così affollata. Lui camminava piano, allungando le mani verso i joystick, i pulsanti resi lisci dal lungo utilizzo. Ricordava quello che gli piaceva dei videogiochi: erano mondi semplici e pieni di tinte forti, dove in un attimo si poteva perdere tutto e morire, ma che offrivano sempre una seconda possibilità. Bastava una monetina… una monetina, per ricominciare.

«Serve aiuto, capo?» gli chiese una voce dall’accento straniero.

«Ce l’hai un gioco col fucile?» chiese lui.

L’altro – solo l’ennesima sagoma tra le luci tremolanti, poteva avere quindici o cinquant’anni – sembrò esitare. Poi lo afferrò per il polso e lo portò con sé.

«È un po’ vecchio, ma a qualcuno piace.»

L’uomo sollevò tra le mani il fucile di plastica: era così leggero. «Sì» mormorò «credo di ricordarlo.»

Infilò una monetina nella fessura e puntò il fucile contro lo schermo. Si sentì un idiota: distingueva solo un rettangolo bianco sul quale pulsava una linea. A cosa avrebbe sparato? La musica elettronica gli era familiare, e così gli effetti sonori dei nemici e delle loro armi, dei colpi subiti. Provò a premere il grilletto, e il suono dei punti accumulati lo gratificò subito: aveva fatto centro.

Sprecò diverse monete prima di riuscire a completare il primo livello. Giocava a orecchio, lasciava che fossero i suoni a dirgli quando sparare. Quanto alla mira, in quei giochi rudimentali non contava poi molto. Con la memoria poteva muoversi tra i livelli come attraverso le stanze di una casa dove non abitava da anni, ma della quale ricordava ogni singolo cassetto. La protesi retinica, la cecità, i pantaloni macchiati della divisa scomparvero: era di nuovo il ragazzino di vent’anni prima, e i suoi occhi erano pieni di colori.

Il luna park rimase aperto per tutta l’estate. Non passava giorno senza che alla sala giochi si vedesse quel giovane alto, con gli occhiali enormi e la barba incolta. A volte teneva accanto al cabinato una bottiglia di birra tiepida, tirava una lunga sorsata tra un livello e l’altro. Passava i pomeriggi lì, davanti al vecchio videogioco di guerra. I ragazzini ormai lo conoscevano, ma pochi si azzardavano a rivolgergli la parola; qualcuno diceva che era cieco, ma i più erano certi che doveva vederci abbastanza per sparare, per battere un record dopo l’altro. Quanto a loro, guardavano verso di lui e vedevano solo una sagoma scura nei bagliori dello schermo. Nessuno riconosceva in lui il soldato, il reduce del giovedì nero; nessuno sapeva che quell’uomo era la Macchina.