Quando a Marghera si è rischiata una strage chimica
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Quando a Marghera si è rischiata una strage chimica

Nella relazione ufficiale dell’incidente i Vigili del Fuoco hanno ringraziato anche la "Divina Provvidenza".

Il 28 novembre 2002 a Marghera si è rischiata quella che poteva essere la più grande strage della chimica in Italia. Quindici anni fa esatti, alle 19.40, viene dato l’allarme per un incendio all’interno del Petrolchimico. Il serbatoio D528/2 per il recupero del TDI, una sostanza di sintesi che si utilizza soprattutto per gli isolamenti, subisce uno scoppio a cui segue un incendio.

L’impianto è di proprietà della Dow Chemical, multinazionale statunitense che nel 2001 aveva rilevato la struttura da Enichem. Intervengono subito i Vigili del Fuoco. In poco tempo viene comunicato l’allarme alla popolazione: cui si consiglia di stare in casa, chiudendo porte e finestre con stracci bagnati. Il TDI è infatti una sostanza estremamente tossica, anche se inalata in quantità minime o a contatto con la pelle.

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L'ingresso all'area del petrolchimico di Marghera. Immagine: Le Straniere

Inoltre a una ventina di metri c’è un altro serbatoio contenente fosgene: utilizzato per la produzione di plastiche, è una sostanza pericolosissima che, per capirci, veniva usata come arma chimica durante la Prima Guerra Mondiale e poi adottata dall’Esercito italiano in Libia e durante la Guerra d’Etiopia.

L’incendio coinvolge “la parte connessa dell’impianto e direttamente un secondo serbatoio, il cui ulteriore scoppio, a distanza di circa un’ora dal primo, ha spento l’incendio”, così riporta la relazione fatta l’indomani dall’Arpav. In pratica: un secondo scoppio spegne il primo. Nella relazione ufficiale dell’incidente i Vigili del Fuoco ringrazieranno anche la Divina Provvidenza (come riporta anche la giornalista Nicoletta Benatelli nel suo testo comparso nel libro collettivo sul centenario Porto Marghera pubblicato quest’anno).

Nella relazione ufficiale dell’incidente i Vigili del Fuoco ringrazieranno anche la Divina Provvidenza.

Per un soffio dunque si è evitata una tragedia che avrebbe potuto trasformarsi in una Bhopal italiana.

Ora l’impianto della Dow Chemical non c’è più, è stato smantellato dopo che dal 2006 l’azienda ha deciso di disinvestire dall’area di Marghera. Del vecchio petrolchimico resta poco oggi, sono ancora attive alcune aziende (Eni, Versalis) ma molte strutture sono state dismesse. Tra luglio e ottobre sono state abbattute entrambe le torri della Vinyls, con qualche difficoltà. Torri su cui alcuni dipendenti Vinyls erano saliti per protestare contro i licenziamenti e la cassa integrazione, dandosi i turni a 150 metri di altezza nell’inverno del 2010.

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Tutta l’area legata al vecchio petrolchimico e al ciclo del cloro ha subito infatti grandi cambiamenti. Merito anche della diversa percezione dei rischi legati all’area industriale tra la popolazione. Perché se la città e la fabbrica nascono assieme (esattamente cento anni fa, quando un decreto stabilisce la costruzione del nuovo porto di Venezia in terraferma), e nonostante praticamente ogni famiglia conti almeno un lavoratore (e spesso anche un malato) collegato alle industrie di Porto Marghera, per moltissimo tempo i due mondi hanno comunicato poco.

Anthony Candiello, fisico e abitante di Marghera. Immagine: Le Straniere

La strada che separava la zona residenziale e quella industriale, Via Fratelli Bandiera, sembrava fosse sufficiente a fare da barriera per tutte le complicazioni che potevano arrivare da quest'ultima. Non era così, ovviamente. E l’incidente del novembre 2002, ancora più del processo alla Montedison (su cui uno dei libri di riferimento è Petrolkiller, di Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese), risveglierà in modo traumatico questa consapevolezza.

Praticamente da subito si forma l’Assemblea permanente contro il rischio chimico, associazione civica che mette assieme semplici cittadini e lavoratori, famiglie e esperti sui temi dell’inquinamento industriale.

“Qualche giorno dopo la municipalità di Marghera convoca i primi incontri, al teatro Aurora e poi al centro civico. Cominciamo a conoscerci tra persone molto diverse, e ci rendiamo conto che dall’altra parte della strada esiste una realtà molto pericolosa, che noi non conosciamo," mi spiega Anthony Candiello, fisico e abitante di Marghera, che mi racconta la nascita dell'assemblea.

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La strada che separava la zona residenziale e quella industriale, Via Fratelli Bandiera, sembrava fosse sufficiente a fare da barriera per tutte le complicazioni che potevano arrivare da quest'ultima.

“Cominciamo dunque ad incontrarci. E a studiare," mi spiega Candiello. "Prima Marghera era come un sito militare, le industrie davano lavoro, e i cittadini non erano al corrente di quel che succedeva lì dentro. Noi iniziamo un processo di consapevolezza collettiva, ed è qui che è avvenuto il cambiamento. Perché non erano più pochi lavoratori a battersi per la difesa della salute e dell’ambiente, ma era la cittadinanza”.

“Ci troviamo ogni mercoledì, in 30 o 40 persone, questo per sette o otto anni, forse una decina. Io tengo una newsletter, con cui iniziamo ad informare decine, poi centinaia di persone. Nel tempo abbiamo fatto diverse azioni, molte manifestazioni, andando spesso in contrasto con l’amministrazione che secondo noi sottovaluta i problemi," continua. "Siamo arrivati a fare delle audizioni in consiglio comunale per richiedere un referendum contro il ciclo del cloro”.

Il ciclo del cloro è un processo di lavorazione estremamente inquinante. L’incidente del 2002 lo ha reso evidente a tutta la popolazione attorno a Marghera e Venezia. Ma le conseguenze di produzioni di questo tipo erano già emerse con le malattie e le morti dei lavoratori dei reparti del cloruro di vinile (CVM) alla Montedison. Esternalità tutt’altro che inaspettate: il Piano regolatore di Venezia redatto nel 1962 stabiliva che "nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose."

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Una fabbrica dismessa in via dell'Industria. Immagine: Le Straniere

Dopo la raccolta di firme (“abbiamo raccolto più di 13mila firme in quattro weekend”), il referendum si è svolto nel 2006, via posta. A votare 67mila cittadini, l’80 per cento dei quali si è espresso contro la permanenza del ciclo del cloro. “Noi abbiamo chiesto che avesse termine questa produzione di inquinamento spaventosa, irreversibile," spiega Candiello. "Che in qualche modo è anche quella che tiene distante chi vuole investire in questi luoghi. Riteniamo di aver fatto anche un servizio alla città, alla sua possibilità di riconversione."

A seguito del referendum pian piano tutto il comparto del petrolchimico si ridimensiona. I processi e l’opinione pubblica contraria accelerano un processo di dismissione già in atto da tempo. Il mercato fa il resto.

“Noi continuiamo a portare avanti battaglie. Prima contro l’inceneritore che doveva smaltire rifiuti speciali. Poi contro la grande centrale a carbone dell’Enel. Oggi ci occupiamo soprattutto dell’inquinamento dell’aria e dell’opposizione alla grandi opere, dal Mose al nuovo percorso per le Grandi Navi. E poi delle bonifiche ovviamente, senza cui non c’è alcuna riconversione possibile”, continua Anthony. “Diciamo che prima mancava il controllo, gli enti erano spesso assenti. E questo anche perché l’opinione pubblica era addormentata. Noi l’abbiamo svegliata. Abbiamo deciso di trasferire una parte delle competenze tecniche ai cittadini, per la prima volta. È questo il servizio più importante: diffondere, spiegare, far capire a tutti”.

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Il lavoro dell’Assemblea, al di fuori delle fabbriche, si collega direttamente al percorso di consapevolezza cresciuto tra gli operai dagli anni ’70 in poi, che porterà poi alle denunce e al processo avviato dal magistrato Felice Casson nel 1998. Tra le personalità più importanti di questa fase ci sono alcuni lavoratori in grado di cambiare il destino dell’intero complesso industriale.

"Abbiamo deciso di trasferire una parte delle competenze tecniche ai cittadini, per la prima volta. È questo il servizio più importante: diffondere, spiegare, far capire a tutti”.

Come Franco Rigosi, ingegnere chimico ed esponente di Medicina Democratica, tecnico dell’Arpav (l’agenzia regionale veneta per la protezione ambientale). E come Gabriele Bortolozzo, operaio che con pazienza, in molti anni, raccoglie i dati sulle malattie e le morti dei suoi colleghi di reparto, riuscendo a dimostrare la correlazione tra cvm e insorgenza di tumore al fegato (Bortolozzo è morto investito mentre era in bicicletta nel 1995, a lui è dedicato El mostro, cortometraggio animato uscito un paio di anni fa).

“Gabriele quando si è reso conto che i suoi compagni morivano, e lui è rimasto tra i pochi sani in reparto, ha cominciato a cercare i famigliari dei morti e degli ammalati, per scoprire che tutti avevano lo stesso tipo di tumore. Ha rintracciato 157 casi di morti”, così racconta Rigosi. “Ma i dati ufficiali parlavano di 4 casi di morti da cvm in tutta Italia, pochissimi. Chiaramente non era possibile. È per questo che ha cominciato questa ricerca. Faticosissima: non sapeva i nomi delle persone, non aveva gli indirizzi. Alla fine ha trovato Casson, che a vedere tutti quei morti ha deciso di fare una verifica. Il magistrato ha fatto un appello a tutta la cittadinanza per vedere se anche altri avessero ammalati. Sono arrivate 280 segnalazioni”.

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Franco Rigosi, in pensione: era ingegnere chimico e tecnico dell'agenzia per la protezione ambientale veneta. Immagine: Le Straniere

“Fino a quel momento avevamo fatto un sacco di denunce e segnalazioni. Ma i magistrati preferivano archiviarle, molti erano conniventi con il potere. La fabbrica ha dato da mangiare a molte famiglie. I benefici dell’industria sono stati tanti. I costi però sono venuti fuori tardi. Prima la Montedison (nelle sue varie incarnazioni, visto che ha cambiato diversi nomi nel tempo) aveva in pugno la città. Gli assessori comunali, i sindaci, i consiglieri regionali, erano tutti controllati da questo potere che era enorme. È stato solo negli anni ’90 che la gente ha cominciato a rendersi conto”.

Il futuro di quest’area è oggi più che mai intrecciato alla questione ambientale e della salute. Le sostanze inquinanti sono per gran parte ancora lì e le bonifiche sono di fatto appena cominciate. L’inquinamento per molti aspetti è irreversibile e diffuso anche nel territorio circostante. “C’è stata un’indagine epidemiologica della Provincia, su un particolare tipo di tumore derivato dalla diossina. Seguendo la direzione dei fumi, si è vista un’incidenza altissima di questa malattia nella zona sottovento, verso Padova, cioè a Vigonovo, Fossò, Strà. E adesso c’è l’amianto che sta cominciando a dare i suoi effetti, che di solito si osservano dopo venti o trent’anni. I valori di mesotelioma stanno salendo, e saranno alti per molto tempo”.

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