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Tecnologia

Chi ha paura della democrazia diretta?

Rousseau, M5S e caso Diciotti: abbiamo chiesto a un esperto se ci conviene fondare una repubblica indipendente nel giardino di casa.
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Immagine: Motherboard

Possiamo dire con discreta certezza che l'attuale scenario politico globale è un pendolo che oscilla tra l’insensatezza e l’orrore. Quelli che ad alcuni sembrano i peggiori tra gli esseri umani hanno conquistato le simpatie delle masse con congiuntivi sbagliati e politiche xenofobe. E il lato divertente e disperante della faccenda — dobbiamo ammetterlo — è che per molti di "noi altri" questo largo consenso è un mistero, una specie di ritorno allo stadio primitivo e irrazionale che riduce gradualmente la "nostra" fiducia nell’umanità e nel futuro. Il risultato della consultazione sul caso Diciotti avvenuta ieri, le modalità fraudolente con cui sono stati formulati i quesiti e l’incoerenza di fondo che manifesta sono solo l’ultimo dei segnali di questa potenziale assurdità. Qui su Motherboard ci siamo occupati spesso della retorica tecno-basic del Movimento 5 Stelle, dei difetti di Rousseau e di quanto sia complesso e strumentalizzabile il concetto di democrazia diretta. Se da un lato il processo storico verso la consultazione plebiscitaria sembra inevitabile, considerati gli ultimi sviluppi molti si domandano: conviene davvero dare sempre più potere alle masse?

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Dai Pirati, al Movimento 5 Stelle a Podemos, sono sempre di più i movimenti e i partiti che si sviluppano attorno a piattaforme online e che propongono la democrazia diretta. Nel libro Digital Party, appena pubblicato da Pluto Press, il sociologo e direttore del Centre for Digital Culture al King's College London Paolo Gerbaudo analizza cause e conseguenze dell’ascesa dei partiti digitali mondiali. "La crisi e il conflitto aprono opportunità di liberazione" è scritto nella prima riga della prefazione. Forse dovremmo fidarci. Ma nel dubbio, per capire se mi conviene fondare una micro-repubblica indipendente nel giardino di casa, ho parlato al telefono con lui.

Motherboard: Il libro è uscito per la casa editrice inglese Pluto Press, eppure hai usato il Movimento 5 Stelle come principale case study. Cosa lo rende così rilevante, anche a livello internazionale?
Paolo Gerbaudo: Il M5S è per certi aspetti il partito digitale per antonomasia. Fin dall’inizio i pentastellati si sono autodefiniti come partito del popolo del web e della democrazia diretta. Parte della loro retorica può essere assimilata ai partiti pirati nordeuropei, ma a differenza di questi ultimi — che sono stati un esperimento breve, con tematiche legate all’internet governance — il M5S ha sempre avuto un’ambizione molto più ampia: cambiare la società con la promessa democratica della tecnologia digitale.

Una volta arrivati in Parlamento la promessa della democrazia diretta è stata messa a dura prova: lavorare nelle istituzioni richiede capacità organizzative e dinamiche che difficilmente si possono risolvere con il voto online.

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Rispetto ai partiti pirati, che portano avanti istanze su temi come privacy e copyright, forse nel M5S c’è una visione volutamente ingenua delle potenzialità della rete. Usano una retorica davvero sorpassata.
Sicuramente nella loro gestione delle cose c’è un elemento di amatorialità, come dimostra la piattaforma Rousseau — sviluppata a partire da un CMS simile a Wordpress facendo un fork interno con linguaggio proprietario (mentre un sistema così complesso dovrebbe essere open-source). Volendo fare un confronto, la piattaforma del partito spagnolo Podemos è stata sviluppata da centinaia di programmatori, è open-source e utilizzata in decine di città. Inoltre per le votazioni si avvale di una ditta esterna che verifica il risultato delle votazioni, garantendo cosí trasparenza. Con Rousseau, invece, solo in alcuni casi si è utilizzato un ente esterno e non c’è trasparenza neppure sul numero di iscritti.

Quindi, se la loro caratteristica peculiare non è necessariamente essere avanti dal punto di vista tecnologico, cos’hanno di particolare i digital party?
Alcuni partiti come Podemos e i Partiti Pirata sono stati innovativi dal punto di vista tecnologico. Ma quello che li accomuna tutti è il modello organizzativo, che imita le modalità delle start-up. Sono partiti estremamente snelli che non hanno grandi uffici o sedi iconiche e in cui le decisioni importanti vengono prese in rete. Nell’era di Amazon, Facebook e Google questi partiti cercano di utilizzare le stesse modalità dei social media e delle app per coinvolgere i cittadini. Del resto, nell’inconscio collettivo c’è l’idea che sui social ci sia una forma di democrazia informale, e le persone in un certo senso la rivendicano.

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Quello che è interessante è che in questa crisi economica e politica, diseguaglianza e crescita di monopoli come i GAFA (Google, Apple Facebook, Amazon), i cittadini si rendono conto di essere senza difese se rimangono da soli. E per difendersi si associano: per questo i partiti politici ritornano sulla scena, a dispetto delle previsioni.

Il tuo è uno studio sociologico. Cosa rende interessanti i partiti digitali da questo punto di vista?
La storia del Movimento 5 Stelle insegna sia lezioni negative che positive. Tra le cose interessanti abbiamo l’introduzione sistematica di consultazioni online, con cui gli iscritti fanno valere la loro opinione. L’idea iniziale era fondare una democrazia diretta dando un ruolo minimo ai rappresentanti eletti. Una volta arrivati in Parlamento, però, questa promessa è stata messa a dura prova: lavorare nelle istituzioni richiede anche capacità tecniche e organizzative e dinamiche che difficilmente si possono risolvere con l’approccio plebiscitario del voto online. Questo “fallimento” è sintomatico del periodo in cui viviamo: il sospetto, anche legittimo, per le istituzioni rischia di scadere nella tecnocrazia o nella leadership plebiscitaria. Tutto tranne la democrazia partecipativa che veniva promessa.

Forse perché è poco realistico proporre delle politiche ‘disruptive’ in un sistema creato nel 1946?
Questo è un punto. La sedimentazione storica e istituzionale del sistema di potere non si risolve con i click, ma con uno sforzo politico serio. Più in generale, bisogna sempre ricordarsi che le decisioni tecniche non sono mai puramente tecniche ma anche politiche. Nel caso dei 5 Stelle un dato che balza agli occhi è il basso numero di iscritti alla piattaforma Rousseau, appena 100mila. Il problema principale è la procedura di iscrizione lunga e complicata, ma il fatto di avere pochi iscritti può anche essere un modo di evitare una ribellione della base. Per dare un termine di paragone, la piattaforma di Podemos ne ha mezzo milione, come quella di France Insoumise.

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Tempo fa l’attivista del free software Richard Stallman, ospite all’IIT DI Genova, aveva dichiarato che il voto online è “una cosa stupida” perché il rischio di brogli è troppo alto. Non è sempre meglio usare carta e penna?
È una posizione che hanno sposato molti, anche il Computer Chaos Club di Berlino si è espresso in questi termini. Io non sono del tutto d’accordo: il voto con carta e penna è molto più costoso e macchinoso, non è possibile votare con frequenza. Oggi abbiamo tecnologie che permettono un buon livello di sicurezza. Poi possiamo dibattere se abbia senso introdurre voto elettronico a livello istituzionale, ma dentro le organizzazioni ha senso. Qui in Inghilterra, ad esempio, per indire legalmente uno sciopero bisogna raggiungere un quorum legale. Con le votazioni online sarebbe facile, ma il governo conservatore ha inserito una norma ad hoc per far sì che questo non sia possibile.

Ma sulla piattaforma Rousseau, non essendoci garanzie sulla segretezza del voto, c’è il rischio di innescare meccanismi non-democratici. No?
Sì, nel caso del M5S lo staff che gestisce la piattaforma è alle dirette dipendenze del partito. In teoria, sapendo chi ha votato cosa — secondo gli hacker che hanno bucato il database i nominativi non sono criptati — è anche possibile profilare e mettere ai margini chi ha delle opinioni dissonanti. Tuttavia basta uno standard minimo di sicurezza informatica per evitare queste distorsioni. È che le manipolazioni avvengono in maniera più sofisticata. Ad esempio nel mondo in cui i quesiti sono formulati, vedi il voto di ieri, o negli interventi dei leader su media e social media che influenzano il voto della base.

Nel libro parli di affinità elettive tra social media e populismo. Come è nato l’amore, secondo la tua ricostruzione?
“Populismo” è un termine che viene dibattuto molto. In generale, lo definirei una tendenza di rifiuto delle élite da parte della “gente”. E, contrariamente a quanto molti pensano, può essere sia di destra che di sinistra. L’affinità elettiva è una convergenza tra due fattori: da un lato la grave crisi economica, dall’altro l’innovazione tecnologica e l’informazione alternativa a cui dà voce. I media mainstream, negando la crisi, hanno creato un sospetto nella popolazione che ha portato a cercare risposte altrove, in fonti poco autorevoli tipo alcune pagine e profili social. Così i social network sono diventati sia un luogo in cui si formano le opinioni che un luogo di aggregazione, terreno fertile per le retoriche anti-establishment e per nuovi movimenti politici

Qual è una possibile via d’uscita da questo loop, secondo te?
Ci vorrebbe una controinformazione efficace, in grado di arrivare a tutti. In Italia la situazione è particolarmente critica, siamo ancora negli anni Novanta: quella che una volta era la sinistra è diventata sempre più elitaria, e continua a portare avanti le sue istanze con articoloni e pamphlet accessibili soltanto a una minoranza intellettuale. In UK, invece, ci sono realtà come Novara media, un collettivo di media-attivisti molto seguito anche dal grande pubblico. Negli USA c’è una piattaforma che si chiama Means of Production, vicina a Sanders e Ocasio-Cortez, che si propone come una versione di “sinistra” di Netflix. Ci vorrebbero più iniziative di questo tipo, una valida alternativa italiana ai video complottisti su migranti e piano Kalergi.