Perché dobbiamo cambiare il modo di raccontare la realtà per sopravvivere

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Tecnologia

Perché dobbiamo cambiare il modo di raccontare la realtà per sopravvivere

Abbiamo parlato con il regista di ‘Donna Haraway: Storytelling for Earthly Survival’ di resistenza politica, femminismo e natura.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Nel saggio intitolato Simians, Cyborgs and Women — The Reinvention of Nature, pubblicato nel 1991, la filosofa e femminista Donna Haraway rivendica la dimensione politica e narrativa del cyborg: da figlio di una cultura capitalista e militare a nuova chimera umana, un ibrido di organismo e macchina che altro non è che "la nostra ontologia," scrive.

Ma il cyborg non è l'unico concetto di cui Haraway si riappropria nelle sue opere: termini come tecnologia, scienza e natura vengono fatti oggetto di una nuova narrazione, un discorso che vuole decostruire la contrapposizione che li vede come opposti. "Nella tradizione della scienza e della politica occidentale," scrive Haraway, "[…] la relazione tra l'organismo e la macchina è sempre stata una guerra di confine."

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Riscrivere questi concetti, inventare un racconto che, anziché funzionare per dicotomie, "tragga piacere nella confusione tra i confini, e si prenda la responsabilità della loro costruzione," diventa una pratica necessaria oggi più che mai, in un mondo in cui la tecnologia permea ogni istanza del reale in modo profondo.

Il film Donna Haraway: Storytelling for Earthly Survival, diretto dal regista italo-belga Fabrizio Terranova e che sarà proiettato durante l'evento Black Maria Cinema al cinema Beltrade di Milano, traduce e ritrae il pensiero rivoluzionario di Haraway in un flusso di immagini di repertorio e interviste alla studiosa, che si svincola con eleganza dai canoni tradizionali del documentario, tramite una delicata decostruzione dei suoi elementi sintattici principali.

Così come la filosofia di Haraway, anche il film di Terranova, nell'offrire un ritratto al pensiero della studiosa, destabilizza lo spettatore, gli svela l'inganno della costruzione registica giocando sul filo del surreale, e offrendoci al contempo un ritratto profondo di una delle menti più affascinanti della filosofia post-moderna.

Il valore del racconto è al centro del dialogo tra il regista e Haraway, che — appassionata da sempre di letteratura fantascientifica di stampo femminista —, a un certo punto spiega anche perché questo genere letterario specifico detenga un potenziale filosofico e politico importante. La capacità di suscitare nuovi immaginari, di dare loro la forza imprevista in una cultura dominata da un'idea di (fanta)scienza ancora patriarcale e militare, fa della letteratura di finzione femminista uno strumento di de-costruzione e de-naturalizzazione incredibilmente prezioso, anche più di un certo tipo di analisi accademica e scientifica, spesso intrappolata nelle sue stesse strutture.

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"Fare l'amore è un atto politico, stare con qualcuno, la fedeltà, la non fedeltà, tutto è politico e tutto è un affare collettivo"

Non a caso, nel panorama dei prodotti di fantascienza degli ultimi decenni, è stata la produzione avanguardistica dei film originali di Ghost in the Shell a omaggiare nel modo più spudorato il pensiero filosofico di Haraway.

Motherboard ha parlato con il regista Fabrizio Terranova del suo film, di natura, di resistenza politica e del potere del racconto che sa offrire nuove interpretazioni del reale.

MOTHERBOARD: Ciao Fabrizio, puoi parlarci di Donna Haraway: Storytelling for Earthly Survival ? Come è nato il film?
Fabrizio Terranova: Il film nasce come dichiarazione d'amore per il pensiero di Donna, che ho iniziato a leggere vent'anni fa. Non l'avevo mai incontrata di persona e mentre lavoravo alla mise en pièces di un master di narrazione speculativa mi è venuta questa idea. Tramite amici nel giro di Donna ci siamo messi in contatto e poi l'ho incontrata durante un colloquio importante organizzato dalla filosofa belga Isabelle Stengers. Così si è venuta a creare la possibilità di fare il film che per me, come dicevo, è una dichiarazione d'amore per il suo pensiero, uno dei più necessari nel mondo di oggi, perché si sforza di fabbricare nuovi modi di resistenza.

Come si crea una narrazione di resistenza?
La fabbricazione attiva di un modo di fare resistenza si vede nel film stesso; è un punto importante per me che passa tramite l'idea di come raccontare nuovamente le storie, il nostro modo di raccontare le storie, come fare esistere delle forze deboli in un modo più potente e come far esistere delle forze troppo potenti in un modo più debole. L'idea di fabbricare questo tipo di resistenza deve passare attraverso la proposta di nuovi mondi, non basta la denuncia e la critica, è necessario mettere in piedi proposte legate intimamente al nostro reale, alla nostra realtà di oggi: non solo un'idea immaginativa del futuro, ma un futuro dove si immaginano equilibri diversi.

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Screenshot del film per gentile concessione di Black Maria Cinema. Nell'inquadratura, l'illustrazione "Cyborg" di Lynn Randolph, che compariva sulla copertina dell'edizione originale di Simians, Cyborgs and Women — The Reinvention of Nature di Donna Haraway, sovrapposta alle immagini di un bosco.

Qual è stato il processo creativo dietro le tue scelte registiche ?
All'inizio, le parti di intervista con Donna erano cosiddette talking heads [inquadrature fisse di una persona che parla, NdR], esattamente il contrario di quello che volevo. D'altronde penso che un'idea di film venga solo durante il processo, quando stai lavorando. Viene con il fare, non può venire dalla mente e basta. È stato solo in quel momento che ho avuto l'idea di perturbare, di creare delle perturbazioni nella percezione del reale e cambiare le prospettive. Anzi, non è tanto un lavoro sul reale, ma sul naturale, sul naturalizzare, una parola legata al pensiero di Donna. Ho voluto trovare un modo di denaturalizzare la scena.

Gli elementi — diciamo — surreali del film si incastrano in loci (la casa di Haraway, il suo ufficio) in un certo senso tradizionali. Perché?
Mi interessava — anche per motivi mediterranei di ospitalità — accettare la possibilità di parlare con Donna nell'ufficio e nella cucina perché è un atto di fiducia e non mi piace il cinema che vuole essere più potente di un legame umano, quella gestualità tradizionale del bere un caffè e parlare. L'idea era quella, tenere l'aspetto prezioso dell'ospitalità e della fiducia ma muovere tutta la scena, de-naturalizzare l'ambiente circostante al gesto.

Nel film, Haraway racconta molti aneddoti della propria vita privata — dall'importanza del racconto per la sua famiglia alla difficoltà nel far aderire le proprie relazioni sentimentali a un modello eteronormativo. Com'è stato affrontare aspetti intimi della vita di una figura istituzionale come lei?
Non parlerei propriamente di intimità. Un aspetto molto importante del retaggio femminista è il rifiuto per questa separazione tra privato e pubblico. Non penso di avere coltivato un rapporto intimo con Donna, ma quando ho lavorato con lei mi ha subito detto che tutto era aperto, senza segreti. Si tratta di un pensiero caro al femminismo, ma che molti pensieri di sinistra all'epoca non avevano capito — e forse non l'hanno capito neanche adesso — ovvero Il fatto che ogni atto è politico. Fare l'amore è politico, stare con qualcuno, la fedeltà, la non fedeltà, tutto è politico e tutto è un affare collettivo, anche se poi ciascuno ha la propria intimità. Io non mi sono permesso di entrare in questa intimità ma è stato importante notare durante le riprese l'importanza di Jay il primo marito, il sentimento che era ancora vivo in questa casa anche se era morto da 15-20 anni.

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L'ambiente e il rapporto dell'uomo con esso è oggetto di analisi da parte di Donna Haraway nel suo ultimo libro, Staying with the Trouble, che ha di recente presentato a una conferenza al San Francisco Art Institute. Nel film di Terranova, materiali video esistenti sono utilizzati per tracciare il percorso accademico ma anche politico di Haraway, i cui saggi sul metodo scientifico sono tutt'ora oggetto di accesi dibattiti.

Come ti ha condizionato questa fluidità nel modo di porsi di Donna da un punto di vista registico?
Il lavoro del regista, a mio avviso, è quello di catturare segni che sono invisibili. Ho sentito il lavoro fatto per questo film, non tanto in una dimensione di intimità, ma in un rapporto che accettava di prendere in considerazione tutti i livelli di Donna, perché il suo lavoro è proprio questo: cambiare le proporzioni delle cose. Dare un'importanza pazzesca al suo cane, non trattare il lavoro che fa con il suo cane come un hobby ma come un atto d'amore e un atto politico, trattare lo sport come un atto politico, trattare il pensiero come un atto politico.

Questo è il tipo di lavoro che mi interessava: rispettare la potenza di pensiero di Donna, che è un pensiero che vuole mescolare tutti i livelli. Ciò che volevo, ancora una volta, era comporre un ritratto energetico di un pensiero e di una persona.

Come si può cambiare il racconto che facciamo del reale?
Cambiare il mondo in un senso globale è molto difficile. È un'idea che crea molta frustrazione, non credo che sia così facile. Ma l'idea di un pensiero come quello di Donna è che raccontare diversamente le storie, fa vivere diversamente la vita.

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Screenshot del film per gentile concessione di Black Maria Cinema.

L'importanza del raccontare sta nel rendere visibili forze che non si vedono, e si possono raccontare delle storie diverse mostrando piccoli momenti, piccoli istanti che già funzionano attualmente. L'idea è più di vedere e sentire, non è solo una questione intellettuale: percepire con il corpo il potenziale del cambiamento. La forza dell'atto politico è far assaporare altre realtà politiche possibili e questo gusto si dà con cose che sono già nel reale e già funzionano.

Puoi farci un esempio?
In un altro campo, per esempio, lavoro con un collettivo che si chiama Ding Ding Dong, nato in relazione alla malattia di Huntington, una sindrome degenerativa e genetica. Quando ho cominciato a lavorare a questo collettivo con Isabelle Stengers, Emilie Hermant e Vinciane Despret e molti altri, l'idea era esattamente ciò di cui stiamo parlando: fino a quel momento, infatti, la malattia era vista come qualcosa dove le possibilità erano tutte finite. Cambiare l'idea della malattia è stato un atto molto importante.

Abbiamo creato un falso medico che fa dei filmati su YouTube e parla del suo modo di lavorare, abbiamo fatto delle inchieste reali: questo misto tra possibilità reali e la potenza di immaginare qualcosa di più complesso e di più vivido, crea e cambia radicalmente l'ambiente, in questo caso intorno alla malattia di Huntington e ne abbiamo avuto dimostrazione concreta.

Il racconto è una vera e propria pratica, dunque.
Penso che l'idea di cambiare le cose debba essere vista e vissuta in modo molto più pragmatico. Come raccontiamo, come lavoriamo a partire da ciò che sentiamo? Penso che oggi, in un mondo molto chiuso e molto oscuro, ci sia una moltitudine di momenti in cui possiamo sentire che ci sono ancora delle possibilità.

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Come hai incontrato il pensiero di Donna Haraway e le teorie femministe in generale?
È una questione piuttosto pratica. Sono figlio di una famiglia tipica di immigrati italiani che si sono spostati prima nel nord d'Italia poi in Belgio per lavorare. Di base, sono "fabbricato" da immigrato italiano.

"Fare dei ritratti di donne anziane e fortissime […] è proprio legato al voler mostrare altre possibilità"

Non è una questione di colpa, perché parliamo di una generazione e situazione molto diversa, però allora nella mia famiglia si sentiva fortemente che il posto delle donne, di mia madre e di mia sorella, non era lo stesso di un uomo. Era qualcosa di differente. E penso che l'inizio di questo interesse sia nato come congiunzione tra varie passioni politiche che mi hanno portato verso il femminismo, che è chiaramente uno dei pensieri più potenti dell'ultimo secolo; è stato un motore politico che è passato attraverso la filosofia e l'attivismo, ma anche la situazione che potevo vivere da bambino del posto sbagliato per una madre, una sorella, una cugina.

E penso che oggi il fatto di fare dei ritratti di donne anziane e fortissime — il mio primo film è stato il ritratto di una vecchia sciamana californiana — è proprio legato al voler mostrare altre possibilità, che si possono percepire profondamente e radicalmente, quando si vedono questi personaggi. È anche una sorta di vendetta positiva per la madre, per la sorella, e ancora di più, per mia figlia oggi. Nel rapporto con le difficoltà di una famiglia, questi pensieri politici e filosofici, giunti ora fino a mia figlia, penso che abbiano rappresentato qualcosa di molto concreto e pratico per me — i più bei pensieri che abbia mai incontrato.

Il film "Donna Haraway: Storytelling for Earthly Survival" di Fabrizio Terranova sarà proiettato al cinema Beltrade di Milano venerdì 5 maggio, in occasione della serata Black Maria Cinema. L'evento è parte del progetto LIANELINEAALIEN di Dafne Boggeri, curato da Giulia Tognon per lo spazio no-profit Marsèlleria.