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No, i gorilla non sono uguali agli esseri umani

Il dibattito insensato su Harambe, il gorilla ucciso allo zoo di Cincinnati, non fa altro che peggiorare la situazione.

Sabato 28 maggio il personale del Cincinnati Zoo & Botanical Garden, lo zoo di Cincinnati, ha abbattuto Harambe, un gorilla di pianura occidentale (Gorilla Gorilla Gorilla) di 17 anni, poco dopo che un bambino di 4 anni è caduto nel suo recinto.

Il bambino, finito in una pozza della 'gabbia' di Harambe dopo aver scavalcato la cinta di sicurezza, è rimasto in balia del gorilla per poco meno di 10 minuti—Il gorilla, come mostrato nei video che raccontano l'evento, si è dapprima avvicinato al bambino e l'ha poi trascinato attraverso la sua area per diversi metri.

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Il personale dello zoo, benché non si fossero ancora verificati episodi di manifesta violenza, ha dovuto infine scegliere di abbatterlo. Per Thane Manyard, il direttore dello zoo, "Il personale ha fatto una scelta molto difficile, ma ha fatto la scelta giusta perché ha salvato la vita del bambino."

Il dibattito si è rapidamente acceso in tutto il mondo: per molti l'uccisione di Harambe è stata una vera e propria tragedia, tale da inaugurare una petizione da oltre 100.000 firme in cui viene chiesta giustizia per Harambe e si chiede che "i genitori del bambino vengano considerati responsabili della morte del gorilla a causa della loro negligenza".

Un'altra petizione, al momento sottoscritta da quasi 35.000 persone, chiede che venga istituita una vera e propria 'Legge di Harambe' così da ottenere conseguenze legali per la morte di animali a rischio all'interno di strutture attrezzate quando causate dalla negligenza dei visitatori.

Per molti altri invece, la morte di Harambe, per quanto triste, è stata necessaria—In una situazione del genere la necessità di scegliere tra la vita di un gorilla e quella di piccolo essere umano è superflua, e l'abbattimento è stata la scelta migliore per tutti. Un sottoinsieme di questi due schieramenti, ancora, si è chiesto perché il personale dello zoo non abbia sfruttato prima di tutto la telenarcosi, per sedare l'animale e prelevare in sicurezza il bambino.

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Il dibattito sulla vicenda, come spesso accade in questi casi, si è rapidamente trasformato in una mera disputa mediatica che poco ha a che fare con i fatti. Harambe è morto, lo zoo di Cincinnati sta piangendo il lutto e il bambino sta bene. Inoltre, la telenarcosi non è stata utilizzata perché sparare a un gorilla da 180 chilogrammi con in mano un bambino (anche se si tratta di narcotizzanti) è una pessima idea—In particolare perché l'effetto del sedativo non è immediato.

Lo tsunami mediatico, come nel recente caso dell'Oasi SOS Natura in Veneto, rischia di arrecare un danno ancora maggiore di quello procurato dall'incidente: la morte di Harambe ci deve insegnare che i gorilla non sono uguali a noi.

Che un primate a rischio sia dovuto morire in cattività a causa di un episodio di questo genere è terribile, ma ancora più terribile è continuare ad accettare che animali di questo tipo, nel 2016, siano obbligati a vivere questo tipo di episodi.

Il denominatore comune del dibattito sulla morte di Harambe è un radicato e apparentemente inestirpabile antropocentrismo: che si tratti di affermare la propria superiorità sul gorilla giustificandone l'uccisione o di isolare un colpevole tra gli esseri umani, l'alfabetizzazione sul tema è ancora minima.

In un articolo del gennaio 2015, Eleanor Robertson descrive per il The Guardian la necessità di assumere una consapevolezza concreta nei confronti del necessario antropocentrismo che regola la nostra società—Il cosiddetto "animal welfare", ovvero le misure che regolano il benessere degli animali, implica una inevitabile e intrinseca supremazia uomo - animale, "È arrivata l'ora di smettere di pensare a una civiltà umanista o post-umanista—L'umanismo sembra ormai incapace di fornire degli standard di vita adeguati per gli animali non-umani," spiega Robertson. "Il post-umanismo, nonostante il suo potenziale, assomiglia sempre più a un'involontaria negazione della consapevolezza che per ora saranno gli essere umani quelli che continueranno a provare a indicare la strada per tutte le specie—Dipendiamo dalla morte di altre forme di vita per la sopravvivenza, che siano esse piante o animali."

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La narrativa sfruttata per raccontare gli eventi di Cincinnati pecca, in un senso o nell'altro, di una profonda mancanza di consapevolezza: il problema non è migliorare le condizioni degli animali, ma trovare un modo per interrompere la storica e obbligata interdipendenza con loro, "Che sembianze avrebbe un mondo post-umanista? Si tratta di una delle sfide più grandi all'attuale visione antropocentrica, che definisce l'essere umano come necessariamente separato dal mondo naturale," spiega Robertson. "Il dibattito non deve più riguardare i metodi o le tecniche responsabili per sfruttare gli animali o l'ambiente come risorsa, ma dovrebbe riguardare invece una radicale ristrutturazione del nostro pensiero così da riuscire a riconoscere le altre forme di vita come entità di valore."

"Dipendiamo dalla morte di altre forme di vita per la sopravvivenza, che siano esse piante o animali."

Harambe andava ucciso? Avremmo fatto bene a risparmiarlo nella speranza che non reagisse in maniera violenta alla presenza di un bambino? Forse è colpa degli zoo? Come ha fatto il bambino a finire in un'oasi per gorilla da più di 180 chilogrammi? Tutte queste domande sono legate ad una sottesa responsabilità dell'essere umano nei confronti dell'animale, ed è forse questo il vero punto di dibattito su cui sarebbe necessario concentrarci: gli animali non sono come noi, e per questo l'inclusione del regno animale nella società umana è impossibile.

Non tutte le dinamiche di interdipendenza uomo - animale sono ancora completamente risolvibili, ma in molti aspetti la società sembra essersi fermata: è ancora possibile, oggi, giustificare gli zoo parlando di scopi didattici? In questi ecosistemi isolati l'uomo insiste a stabilire un rapporto di supremazia assoluta basato sull'estetica e sulla coercizione, pur non avendo più alcun bisogno sia dal punto vista teorico—non serve andare allo zoo per osservare il comportamento di un leone—che pratico—non serve rinchiudere un leone in gabbia per avere la sicurezza di poterlo dominare. Con un'ulteriore giravolta, inoltre, il 'sistema zoo' ci illude dell'esistenza di un equilibrio che, come nel caso di Harambe, si spezza inevitabilmente non appena manifesta la più ovvia delle anomalie (un'intrusione umana all'interno del 'recinto animale').

Ora che la diffusione della cultura ce lo permette, sarebbe forse ora di intraprendere un discorso serio e ragionato sul consumo umano di carne animale? E quando si tratta, per esempio, di test sugli animali? Qual è il compromesso più corretto? Si tratta di dibattiti necessari che non si devono concludere, ma anzi devono partire proprio dal cadavere di Harambe: un abitante della Terra che non poteva fare parte della società umana.

Come fuoriusciamo da questo preconcetto così legato al bacino culturale di gran parte della civiltà umana? E ancora, come sottolineato da Robertson, "Questo dibattito potrebbe soffrire di una contraddizione irrisolvibile: gli essere umani devono continuare a essere la specie che decide come ristrutturare la visione dei bisogni e del manifestarsi del mondo animale, un forma implicita di antropocentrismo da cui è davvero difficile uscire."

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