"Più larga che lunga": sul mio peso, la magrezza e l'ossessione per il curvy

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"Più larga che lunga": sul mio peso, la magrezza e l'ossessione per il curvy

Da che ne ho ricordo, il mio corpo è sempre stato categorizzato. Sono petite quando mi compro i jeans online, e sono stata curvy o plus size quando pesavo 20 chili in più. E in nessuna di queste categorizzazioni mi sento a mio agio.

Illustrazione di Juliette Toma.

Da che ne ho ricordo, il cibo nella mia famiglia ha sempre avuto un valore misterioso che trascende la nutrizione e il gusto. I miei genitori mi mettevano a letto a orari assurdi (cosa che ancora oggi interferisce con un'eventuale vita notturna perché, ovunque mi trovi, alle 23 crollo) e mio padre mi preparava la cena alle sette di sera. Mentre cucinava assaggiava, rubava e mangiava fino a farmi ritrovare nel piatto 30 grammi di pasta. Quando mi mettevo in bocca qualcosa, lui mi imitava anche se non aveva nulla da mangiare. Le mandibole scattavano e lo vedevo fissare ciò che restava dei miei spaghetti mentre immaginava di essere al mio posto.

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La frase preferita di mia nonna, la persona con cui ho passato più tempo fino ai 12 anni e che a 70 poteva ancora mangiare un salame intero continuando a pesare 50 kg, era: "Guarda che poi diventi più larga che lunga. Sei bassa, succederà."

Mia madre corre, fa tai-chi e aikido, ha la passione dei fermenti vivi fai-da-te e il suo piatto preferito è un'insalata di radicchio e arance. Una volta, per farmi un complimento, mi disse: "Irene, sai, oggi mentre parcheggiavo il motorino sotto casa ho visto una ragazza camminare da dietro e ho pensato che avesse delle gambe abbastanza magre… e poi eri tu!" Tutto questo per dire che a 16 anni, durante il divorzio dei miei, quando mi sono trovata al bivio per decidere dove incanalare tutte le mie angosce, l'ossessione per il peso e per il mio aspetto mi parve la scelta più saggia e logica. Secondo qualunque parere scientifico ero lievemente sovrappeso. Secondo il mondo che mi circondava, per molti capi d'abbigliamento, dovevo andare nella sezione plus-size di H&M: non so come sia adesso, ma allora era un metro quadrato di reparto con vestiti un po' più larghi del normale che strizzavano l'occhio allo stile "vecchia del Mississippi con caftano che legge le linee delle mani." All'epoca ero in analisi. La mia analista era una donna di mezza età bella e slanciata, che percepivo più che altro come una dea troppo distante dalle cose terrene per capire la gravità del mio problema. Per lei stavo benissimo, mi chiedeva cosa pensassi del grasso, cosa rappresentava per me. Con una grande capacità di pensiero astratto io ero in grado di rispondere unicamente che il grasso rappresentava il grasso. A un certo punto, come in un film di Woody Allen, mentre mi trinceravo per smettere di andare in analisi e sentirmi scema mentre parlavo di quel rotolo di grasso che si formava quando mi sedevo e cercavo un modo carino per interrompere la terapia con la persona che mi aveva aiutata per tutti quegli anni, lei morì. Ottimo metodo per smettere di essere in analisi, forse l'unico che funziona. Nel mentre ero effettivamente dimagrita. Avevo perso una decina di chili e mi sentivo più grassa che mai. Avevo perennemente il reflusso esofageo. La mia pelle si stava rovinando, diventava via via più secca e per ragioni a me sconosciute ero piena di brufoli e crateri.

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Inizialmente vomitavo infilandomi una mano in bocca, un classico. Col passare del tempo però mi ero resa conto che mi si stava formando un callo molto brutto e visibile sulla nocca dell'indice della mano destra, perché quello era il punto in cui tre volte al giorno tutti i giorni la mia mano applicava pressione contro i molari superiori. Optai per l'opzione cucchiaino. Ricordo ancora la sensazione del metallo freddo che sbattachiava disordinatamente contro la trachea prima di cercare di raggiungere l'esofago con la parte concava. Mi faceva schifo e mi piaceva tantissimo allo stesso tempo. Continuai così per un anno. Poi smisi, principalmente per due ragioni. Da una parte mia madre, all'ennesimo cucchiaino ritrovato in bagno, aveva smesso di credere che mangiavo yogurt ogni volta che andavo a fare la cacca e aveva iniziato a seguirmi. Dall'altra, una conoscente era stata ricoverata in una clinica fuori Roma per seri danni all'apparato gastrointestinale provocati da litri di vomito autoindotto. Pensai due cose: la prima, che le mie stupide cosce non mi avrebbero portata in ospedale a così pochi mesi dalla maturità e la seconda—non sto scherzando—"però quella ragazza è così magra e bella, beata." Optai per un'anoressia controllata. Mangiavo abbastanza da essere funzionale, ma la notte era diventata un'abitudine svegliarsi alle quattro con la gastrite da stomaco vuoto.

Quando ho preso la decisione di scrivere un articolo sull'esperienza che ho con il mio corpo e con i cambiamenti a cui l'ho sottoposto, per fare ordine, mi sono imposta di pensare agli ultimi due esempi che avevo visto da poco e che mi avevano fatto ragionare ulteriormente sulla questione dell'immagine. La prima cosa è risultata essere un brutto libro che può rientrare nella categoria chick lit italiana, se esiste questa categoria nel nostro paese. Il motivo per cui ne parlo è che è un prodotto che sta andando molto bene per gli standard editoriali italiani e l'autrice, Ester Viola, vince dei premi e va dalla Gruber a parlare dello scottante tema: "La rete uccide?".

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Il libro (L'amore è eterno finché non risponde) potrebbe essere nient'altro che l'ennesima storia di donne ultratrentenni in carriera che amano uomini stronzi e per compensare comprano scarpe. Invece è intriso di un elemento in più: un'ossessione molto inquietante per la magrezza. Dopo aver presentato tutti i personaggi del libro in base al loro IMC, il culmine viene raggiunto quando la protagonista spia su Facebook le foto della nuova ragazza venticinquenne del suo ex e nota con invidia "un ossetto grazioso" che le spunta dal ginocchio.

Arrivati a questo punto della storia dell'uomo, dovrebbe essere abbastanza chiaro a tutti che l'idea secondo cui quello che conta e che ci facilita la vita sia l'estetica è un pacchetto preconfezionato su come vedere il mondo che abbatte qualunque forma di introspezione e di occhio empatico sulle relazioni. Una visione facilmente digeribile e subdolamente auto-consolatoria. Perché se l'unica cosa che conta è l'essere belle e giovani, nel momento in cui non lo siamo più possiamo solo aggrapparci alle tende, come ovvio che sia, mentre guardiamo i nostri ex perseguire l'ovvietà delle regole naturali e mettersi con donne giovani e magre. Il mondo va così, che possiamo fare?

Gli esseri umani sono la cosa più complessa e sfaccettata che esista sulla faccia della terra, ridurli a oggetti che si muovono seguendo un binario predeterminato e costellato di schematismi superficiali ci rende ciechi e limitati. E che nel 2016 una donna in carriera italiana decida di scrivere un libro che ammicca e strizza l'occhio a questa visione primitiva del mondo a me sembra incredibile. Poi c'è stato il concorso di Miss Italia. Se digitate "curvy" e "miss Italia" finite sulla homepage del sito web del concorso, dove troverete ad accogliervi due disegnini di donne-clessidre sorridenti che tagliano un metro da sarta per simboleggiare, immagino, una rivoluzione estetica. Accanto, un annuncio ci chiede se ci sentiamo curvy e pronte per il casting con l'hashtag #misentocurvy. Un problema di tipo semantico sorge non appena si cerca di districarsi in tutto questo groviglio di definizioni e canoni estetici: nel raccontare quello che penso del concorso ora che c'è la categoria curvy, come chiamo quelle ragazze che non ne fanno parte? Normali? Magre? Personecheportanolataglia38? Non lo so, davvero.

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A prescindere dai sentimenti che mi suscita Miss Italia nel suo insieme, è giusto che all'interno del concorso il focus si sposti dall'idea di bellezza intesa come aderenza a un canone estetico rigido e proibitivo. Però penso anche che la selezione dovrebbe avvenire senza la divisione delle ragazze in categorie. Vedere le gallery di Repubblica che ritrae le concorrenti "morbidamente belle" mi fa venire voglia di vomitare senza l'aiuto di cucchiaini.

L'idea per cui la bellezza sia un qualcosa che può essere smembrato e assegnato a categorie del tutto arbitrarie con cui valutare l'aspetto fisico di qualcuno va contro il concetto stesso che ho io di bellezza. Paola Torrente e le altre ragazze non sono morbidamente belle. Sono belle, punto. O magari sono brutte, ma non perché curvy. Non c'è alcuna differenza con le altre concorrenti non-curvy (veramente, la scelta della definizione opposta al curvy mi fa venire l'orticaria). Non dovremmo neanche discuterne.

Anche perché, diciamo la verità, all'etichetta curvy è attaccata l'idea molto ipocrita per cui il curvy ritrae la bellezza della donna vera. Come se una che non portasse una taglia 38 fosse però automaticamente benedetta da un fisico a clessidra, una terza di reggiseno e il culo di Jennifer Lopez. E questo non riguarda solo chi partecipa ai concorsi di bellezza: da che ne ho ricordo, il mio corpo è sempre stato categorizzato. Sono petite quando mi compro i jeans online. Sono stata curvy, plus size o che dir si voglia (immaginatevi la difficoltà di essere petite e curvy allo stesso tempo, un animale stranissimo e difficilissimo da vestire per qualunque catena di abbigliamento). La mia coinquilina è alta e quindi deve comprarsi i jeans nel reparto tall. Idealmente, se vivessimo in un mondo che non dà peso alla categorizzazione, tutto questo sarebbe più che lecito. Le etichette non si porterebbero dietro alcun significato aggiuntivo. Però non è così per vari motivi, tra cui il fatto che questa iper categorizzazione dei fisici riguarda sempre e solo le donne.

Io, a prescindere dal mio peso e dai miei complessi, non voglio vivere in un mondo in cui invece di smettere di prestare attenzione perenne all'immagine femminile, la si smonta in pezzettini ancora più piccoli per dare a tutti una nicchia di orgoglio. Questo tipo di virata nel marketing dei negozi di abbigliamento mi sembra il premio di consolazione in una società che è ancora intrisa di sessismo a dei livelli talmente alti che, invece di fare dei vestiti di tutte le taglie, come di fatto avviene per gli uomini, si continua a dissezionare l'aspetto fisico delle donne fino a farle allontanare sempre di più le une dalle altre, generando competizione e insicurezze. Io non mi sentivo a mio agio quando facevo shopping nei reparti curvy e non mi sento a mio agio con venti chili di meno a fare shopping nei reparti petite.

Io voglio che il mio corpo e la mia estetica non sia più un parametro da etichettare, ma una caratteristica ininfluente come lo può essere la lunghezza dei miei capelli. Dopo aver fatto tutto questo discorso vorrei anche che fosse chiara una cosa. Non addosso alla società tutta la colpa dei disturbi alimentari. Quando si parla di questi argomenti si corre sempre il rischio di finire a fare discorsi da colonnina destra di Repubblica, i cui contenuti gridano all'orrore della società moderna e a quanto istighi all'anoressia (di solito nell'immagine subito sotto c'è una gallery che commenta i fisico delle star in vista dell'estate). I disturbi mentali sono ovviamente frutto anche della società in cui viviamo, ma più in generale sono fenomeni multifattoriali che devono la loro origine a vulnerabilità genetiche, ambientali, individuali e a tutti i fattori intervenienti, scatenanti e protettivi che permeano la nostra vita a ogni livello. Sono dieci anni oramai che combatto contro me stessa e non esagero. Ho smesso di vomitare e ho smesso di non mangiare, ma sospetto che ci sarà sempre una parte di me che continuerà a essere una sedicenne insicura che guarda di sottecchi le altre donne e pensa che qualunque cosa che le accade di negativo sia dovuto al naso aquilino e alle cosce grasse. Poi c'è l'altra, quella funzionale, che nel tempo ha guadagnato terreno e tiene a bada la personalità cretina. Fatto sta che ho perso una ventina di chili. Sapete cos'è cambiato nella pratica? Assolutamente niente. La circonferenza delle mie cosce non solo non ha inciso (ovviamente) sulla mia carriera universitaria, ma non ha inciso neanche su quante persone mi hanno rifiutata, amata o scopata. L'estetica, la magrezza e il peso assumono un'importanza enorme solo se glielo permettiamo. Ribadire questo concetto è banale quanto utile. È l'esperienza quotidiana a dirci che nel mondo reale, quello fatto di persone multisfaccettate e complesse, la felicità e le relazioni non dipendono dal reparto di H&M in cui facciamo shopping. E sono seriamente convinta che prima o poi vivremo in un mondo che ci aiuterà a capire quanto la nostra conformazione fisica sia del tutto irrilevante ai fini della nostra categorizzazione come esseri umani dotati di una personalità che trascende la circonferenza delle cosce.

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