Feste assurde, hacker nudisti e mailing list: chi erano gli 'Hippies from Hell'
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Tecnologia

Feste assurde, hacker nudisti e mailing list: chi erano gli 'Hippies from Hell'

Abbiamo parlato con Patrice Riemens, storico membro del movimento sociale di hacker e artisti olandesi che negli anni Novanta ha cambiato la storia di internet in Europa.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Agli albori della cultura hacker la parola “illegalità” aveva un senso molto diverso da quello che l’immaginario del cybercrimine attuale — tra ransomware su scala mondiale e interferenze elettorali — ci restituisce. Coincideva, soprattutto, con un’esigenza di sovversione dello status quo, per diffondere conoscenza.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, internet esisteva già — i primi nodi ARPANET sono infatti arrivati in Europa negli anni Settanta. Ma — nonostante la fantascienza avesse già coniato il termine “cyberspazio” insieme a un’idea di virtualità prorompente e condivisa — la rete era ancora prerogativa di università e istituzioni. C’era chi, però, intuiva il potenziale della rete come rivoluzionario mezzo di comunicazione e dava vita a gruppi, mailing list e riviste di hacking.

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Dall’idea che l’accesso alla rete fosse una questione prima di tutto sociale, è nato Hippies from Hell, un movimento fluido di hacker, artisti e fissati di tech olandesi, che ha cambiato la storia di internet in Europa — tra festival matti, campeggi nei parchi pieni di computer, e raduni nudisti —, istituendo il primo provider di rete olandese pubblico, xs4all.

Hippies from Hell è anche il titolo del documentario prodotto nel 2002 dalla regista Ine Poppe, che racconta il movimento attraverso i suoi esponenti, il rapporto degli hacker con la comunità e i contraltari più inquietanti delle loro attività — come l’estrema attenzione del governo e dei servizi segreti alle attività al limite della legalità del gruppo.

Questo settembre, in occasione del festival End Summer Camp (ESC) che si è tenuto all’ex polveriera di Forte Bazzera, a Venezia, Patrice Riemens, storico membro di Hippies from Hell e instancabile attivista di internet, ha presentato e raccontato il documentario.

Motherboard ha colto l’occasione per parlare al telefono con Riemens, che ci ha raccontato come è nato il movimento, cosa ne pensa di come si è evoluto internet da quando ha contribuito alla sua diffusione, e cosa dovremmo imparare dalla filosofia degli Hippies from Hell ancora oggi.

MOTHERBOARD: Ciao Patrice, tanto piacere.
Patrice Riemens: Ciao! Spero tu mi senta bene. Non ho molta confidenza con i telefoni cellulari, perché non ne posseggo uno mio.

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Davvero?
Per citare Jacob Appelbaum, “i telefoni cellulari sono dispositivi di tracciamento che ti lasciano fare le telefonate.” E consumano un sacco di soldi. E io preferisco spenderli in altro modo.

E come fai, considerando quanto sono indispensabili i cellulari oggi?
Si fa, solo che è sempre più difficile. Il problema non è neanche tanto la convenienza, perché c’è sempre qualcuno che può prestarti un telefono se hai bisogno di fare una chiamata. Se per esempio sono su un treno e il treno sta facendo ritardo, posso chiedere a qualcuno dei passeggeri o al controllore di fare una telefonata o mandare un messaggio. Puoi farne a meno. Ma il sistema si aspetta che tu ne abbia uno. Ti impongono conti bancari per cui è necessario avere un telefono su cui ricevere i codici di sicurezza, Facebook e Google, vogliono — ah, non sono su Facebook, per la cronaca…

Comprensibile.
… Dicevo, un sacco di aziende insistono su quanto sia conveniente avere un telefono, ma si tratta, in realtà, di un’imposizione. Si potrebbe dire che viviamo in una sorta di dittatura, una società totalitaria, ma in senso tecnologico. Se nella Germania dell’Est c’era bisogno di una rete di migliaia di persone che facessero da informatori, ora si può fare la stessa cosa con dispositivi e macchine.

Ma la sovranità tecnologica è un metodo di controllo molto più subdolo e meno visibile, contro cui le persone non fanno resistenza. A questo si aggiungono imprese e corporazioni tecnologiche, che hanno contribuito a una sorta di transizione: da cittadini, le persone sono diventate consumatori. Se vuoi, anche lo Stato tratta i cittadini come consumatori ora: quando consumi servizi pubblici, non sei più un cittadino con diritti — ma un consumatore e come tale devi pagare.

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Carla van Rijsbergen, uno dei membri fondatori di Hippies from Hell. Tutti gli screenshot via: YouTube

D’altronde, per una persona media, non è facile capire le conseguenze di uno Stato di sorveglianza, né mettere in sicurezza completa i propri dispositivi.
È vero. Ma le persone che ne sono capaci, diventano automaticamente sospettati proprio perché lo fanno. Chi usa la crittografia, per esempio. Io non posseggo un telefono, no? E per questo non sono tracciabile. Dunque, sono sospetto. Un sociologo tedesco, Andrej Holm, è stato arrestato [con accusa di associazione a fini terroristici nel 2007] perché spegneva o non portava con sé il cellulare quando incontrava certe persone o andava a certi eventi.

Come è cominciato il tuo rapporto con questi temi e con la scena hacker?
È stato nei primissimi anni Ottanta, all’inizio per pura curiosità. A quel tempo si sapeva dell’esistenza di reti — reti elettroniche — come ARPANET, ed era un concetto assolutamente affascinante per i giovani che già mettevano le mani sui computer. L’idea delle reti e di una comunicazione rapida era intrigante — ero curioso e volevo entrare in quel mondo. I metodi di comunicazione di quegli anni erano lenti e/o onerosi. Potevi scrivere lettere, fare telefonate — ma il telefono era relativamente costoso —, o mandare un fax, per non parlare del buon vecchio telegramma.

Ah!
All’improvviso, esisteva un mezzo veloce — e gratuito. Nel fare hacking, c’era anche un senso di euforia, tipo “so battere il sistema.” La scena olandese è nata in reazione a ciò che stava succedendo in Germania. Qualche anno dopo si è formato un gruppo che poi è diventato Hippies from Hell. All’inizio non aveva nome, poi hanno fondato una rivista intitolata Hacktic, e sono stati tra i primissimi in Olanda a istituire un provider di di accesso pubblico alla rete chiamato Hacktic Network — un successo enorme. A quel punto però si è deciso di cambiare nome — perché “Hacktic” conteneva la parola “hack,” che, se volevi attirare un pubblico ampio, poteva essere oggetto di malintesi — e il progetto diventò xs4all [da leggere “Access for All”].

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Durante un raduno, l'artista Mathilde Mupe, parte di Hippies from Hell, ha costruito una tastiera funzionante fatta di sassi.

Era una questione di curiosità, connettersi alla rete. Ma, ovviamente, il gruppo ha presto attirato l’attenzione del governo, dei servizi segreti e della polizia. E ovviamente di chi gestiva le reti — che all’epoca erano solo universitarie o governative, ma in Olanda per lo più universitarie. L’Olanda è stato anche uno dei paesi in cui internet è arrivato prima: questo perché Amsterdam è stato uno dei primi nodi di ARPANET al di fuori degli Stati Uniti. E negli anni il Paese è rimasto un polo importante per internet: L’Amsterdam Internet Exchange è il secondo al mondo per grandezza, al momento.

Non ne avevo idea! Quali sono state le conseguenze dell’attenzione politica?
L’Olanda è stata uno dei primi paesi ad instaurare leggi contro i crimini informatici. Altri paesi lo hanno fatto lentamente, l’Olanda invece molto in fretta e, all’epoca, la comunità hacker ha capito che sarebbe stata presto criminalizzata. Per evitarlo, hanno cominciato a elargire un servizio pubblico e — ma questa è più una mia teoria personale — a identificarsi come un movimento sociale. Cosa che, almeno in Olanda, ti impedisce di essere automaticamente criminalizzato: non va bene criminalizzare i movimenti sociali, perché operano nell’interesse delle persone.

E questo ha cambiato anche la percezione delle persone?
Sì, sono riusciti a farsi accettare, anzi: erano popolari. Mentre in altri casi, come forse in Italia, gli hacker sono diventati immediatamente criminali agli occhi dei governi, dei media generalisti e delle persone.

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Vero, parliamo spesso di come distinguere tra white hat hacking e black hat hacking. Al momento nel governo italiano c’è un partito con una piattaforma di “democrazia diretta” con enormi problemi di sicurezza. Un hacker white hat ha riportato le vulnerabilità e loro lo hanno denunciato.
Oh, è una cosa che succede fin troppo spesso. Solo di recente stanno venendo attuati procedimenti appositi per la divulgazione onesta — ovvero quando rilevi delle falle di sicurezza e contatti il sito (o quello che è) e avvisi di non avere intenzioni maligne ma benigne. Ma troppo spesso quando un problema di sicurezza viene scoperto, chi ne è responsabile si sente aggredito, la vera vittima, e attacca il messaggero.

Il concetto dietro — e che è intrinseco al concetto stesso di hacking — è che gli hacker sono in possesso di una conoscenza illegale. Sanno cose che non dovrebbero sapere. Se io posseggo un computer, le informazioni relative a quel computer sono mia proprietà. Se anche tu conosci quelle informazioni, sei nell’illegalità.

Molte persone, molte istituzioni, condividono questo modo di pensare, perché è la base della cultura dell’umanità. Gli hacker sanno cose che non dovrebbero sapere, quindi sono illegali.

Nel documentario di Ine Poppe, si parla molto del rapporto tra lock-picking, cultura hacker e, in un certo senso, quello che ora chiameremmo diritto alla riparazione. Trapela l’idea che “scassinare” una tecnologia sia una sacrosanta abitudine.
È sempre un discorso di “conoscenza illegale.” È per questo che movimenti come Free Software sono importanti, per esempio. È una questione di libertà di informazione, di conoscenza e libertà di applicazione di quella conoscenza. Che non è parte della logica capitalista e liberista. Si pensa che se qualcosa è libero, non puoi farci soldi, trarne profitto. Ma è un errore: come dice Richard Stallman di Free Software, “free” è nel senso di “freedom [libertà]” non di “gratuito,” tipo una birra gratis o un pranzo gratis. E puoi fare soldi da un free software: fornendo servizi, manutenzione, sviluppando altri free software — ma il software in sé, la conoscenza — l’idea — resta aperto, libero e disponibile a tutti.

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Patrice Riemens, intervistato nel documentario.

In altre parole, se usi un free software e non vuoi spendere soldi, fai tutto da solo. Altrimenti, puoi pagare qualcuno per aiutarti. Non è un problema. Il problema è la proprietà esclusiva della conoscenza.

E andiamo verso un mondo in cui sarà sempre più pervasiva ma non potremo interagire profondamente con essa. La tecnologia sta diventando quasi intoccabile.
Penso che la tua sia una visione un po’ troppo pessimistica.

Ok, ammetto che tendo a essere pessimista.
Tutta questa tecnologia chiusa è sviluppata da persone e le persone tendono a parlare. Esattamente come esistono le fughe di informazioni nei governi, come è stato per esempio il caso di Wikileaks, esistono anche le fughe di informazioni nel mondo della tecnologia. Le persone si incontrano e si scambiano informazioni. Alla fine, ci sarà qualcuno che diffonderà pubblicamente questa conoscenza, anche se è considerata proprietà privata. Non è un caso che esistano leggi così dure su cose come il copyright, ma il punto di una legge è spesso essere aggirata. La famosa espressione di John Gilmore “la rete interpreta la censura come un danno e la aggira” vale anche per queste tecnologie chiuse. La conoscenza, prima o poi, fuoriesce.

Ci sono molte ragioni per cui l’impressione che abbiamo è quella di una tecnologia troppo chiusa, ma non è vero del tutto e possiamo essere un po’ più ottimisti.

Grazie, mi rincuori. Per tornare a Hippies from Hell, come ha influito sulla tua vita?
Hippies from Hell era un social club, in pratica. È sempre stato — almeno nella mia visione — principalmente un ritrovo sociale per hacker. Ai vecchi tempi — non più ora — c’era un posto fisico dove ci trovavamo, chiamato “the Hangout”. Per un po’ c’è stata una pagina Facebook, ma non è più tanto usata. E prima organizzavamo questi raduni giganti in Olanda, ma ora non più. Era — prima di tutto — un luogo dove rilassarsi, stare insieme, mangiare insieme, conoscersi e soprattutto fare festa. Anzi, le feste erano decisamente la parte più importante. La mailing list, invece, era dove tenevamo le discussioni più tecniche.

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Come si è evoluto?
Quando Hacktic ha avuto inizio il gruppo di hacker olandesi era tra i pochi a sapere qualcosa di computer e reti — ora la conoscenza si è diffusa e internet è ovunque. Inoltre sono nati molti altri gruppi hacker — in tutte le città olandesi (e, perché no, italiane) ci sono piccoli gruppi di hacker organizzati come gruppi Linux o hacklab o hackspace. La comunità è diventata molto più ampia, ma anche molto meno unita.

Un gruppo di lockpicker tedeschi, durante un raduno.

Vi incontrate ancora?
Hippies from Hell esiste ancora, nelle email. La mailing list è sempre lì, ma è solo un’ombra di ciò che era una volta. Molte delle persone che hanno iniziato come hacker sono poi diventati professionisti IT, o hanno cambiato settore completamente — una donna ha abbandonato l’informatica del tutto e ora viaggia tutto il tempo in barca. Qualcuno di loro è morto. Non è più quello che era. Ma ha influenzato la scena fortemente.

È stato un movimento pionieristico. Ora lavori come professore, giusto?
Oh, no, la mia professione è il pensionato [in italiano]! Prima ero un ricercatore indipendente per l’università di Amsterdam, ma in geografia. Mi occupavo per lo più di ricerca sugli sviluppi urbanistici e del fenomeno del cosiddetto “sottosviluppo,” un tema che va a toccare molte questioni legate alla tecnologia. Ma ero e sono soprattutto un attivista di internet. E ora che ho 68 anni posso esserlo tutto il tempo.

Qual è quindi ora il tuo pensiero sulla tecnologia?
Penso, personalmente, che siamo arrivati a un’era di disequilibrio tecnologico: c’è troppa tecnologia intorno a noi ed è troppo complessa. E ci fidiamo troppo. Quello che potremmo fare, invece, è scegliere di applicare quella che i francesi chiamano décroissance. Si dice decrescenza, in italiano?

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“Decrescita”!
Decrescita! Nel senso di una tecnologia meno complessa, meno dispendiosa in termini di risorse. Abbiamo davvero bisogno degli smartphone? Possiamo vivere senza. E il materiale con cui sono fatti si stanno esaurendo. Sarà un problema, se continuiamo a produrne così tanti.

In un certo senso, l’era di internet è anche la fine di internet

Tornando al discorso di prima, dunque, da un lato la tecnologia non potrà restare davvero un segreto, dall’altro abbiamo un prisma di prezzi da pagare: sociali, economici, finanziari e ambientali. Se partiamo dal presupposto che il pianeta sta morendo, non possiamo continuare a produrre tecnologia nel modo in cui facciamo ora.

Di recente un gruppo di scienziati ha avvertito l’ONU dell’insostenibilità del capitalismo.
Esatto, non è sostenibile. E la tecnologia costituisce una grossa fetta di questa non-sostenibilità. Estrarre bitcoin, per esempio, consuma tanta energia quanto un piccolo paese. È chiaramente un vicolo cieco.

Per cui in un certo senso, l’era di internet è anche la fine di internet. Siamo spettatori della fine di internet, almeno per come lo conosciamo. Quando internet ha cominciato a diventare pubblico, negli anni Novanta, era molto diverso da ciò che è oggi. La prima differenza è che non era commerciale. E la commercializzazione di internet significa, a lungo andare, la sua morte. Esattamente come la “finanziarizzazione” dell’economia — che sta a sua volta compromettendo la rete — significa la morte dell’economia come la conosciamo. Questo neanche sul lungo periodo, a mio avviso, ma su quello breve.

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Come si relaziona la comunità hacker rispetto a tutto questo?
Al momento, gli hacker prendono iniziativa per lo più abbandonando l’hacking in sé. Ci sono un sacco di iniziative a favore di una tecnologia low-end — che significa una tecnologia più basilare, più user friendly e allo stesso tempo, per definizione che può fare molto meno. Per esempio, una rete libera e comunitaria — una delle più grandi al momento è in Catalogna — può fare un sacco di cose, ma non tutte. Quindi potremmo avere reti comunitarie con accesso libero a internet, ma che non supportano YouTube, per esempio. Peccato!

Tende al raduno HEU — Hacking at the End of the Universe.

Ahahah.
Addio, YouTube!

Pensi che la cultura hacker possa ancora aiutarci a immaginare un futuro dove la tecnologia sia slegata dalle dinamiche sociali e politiche attuali?
Oh, penso proprio di sì e sta già accadendo. Ma, ho paura, a un ritmo troppo ridotto. Il discorso è ancora dominato dall’idea che la tecnologia così com’è sia fantastica. Invece dobbiamo riguadagnare sovranità o autonomia. Organizzare la nostra vita da soli, non farlo fare ad aziende, o ai prodotti e servizi che compriamo. È un circolo vizioso di tempo, soldi e consumo, che va sempre più veloce e non ti porta da nessuna parte.

Ora sei tu il pessimista. Ma sono d’accordo.
Non sei obbligata! Va bene lo stesso se non sei d’accordo!

Cosa dovremmo riconquistare oggi della filosofia delle prime comunità hacker, come Hippies from Hell?
Che è importante stare insieme, mangiare insieme, perdere tempo insieme — perché è la dimensione umana che conta.

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L'intervista è stata editata per ragioni di brevità e chiarezza.