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Stray. Immagine: Steam 
Tecnologia

Mentre tutto brucia, vorrei solo essere un gatto in un mondo di robot gentili

Il videogioco 'Stray'—dove giochi nei panni di un gattino in un futuro post-apocalittico—è forse il rifugio dalla vita che cercavi anche tu.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Attenzione: Questo articolo contiene alcuni spoiler sul gioco Stray. Se non l’hai ancora giocato, procedi con cautela.

Sono davanti a un murale sbiadito che recita “R.I.P. HUMANS” e il piccolo robot che mi accompagna mi sta spiegando che, a secoli e secoli dalla sua estinzione, la razza umana è ancora compianta e ricordata con affetto dai robot rimasti a popolare gli strati sotterranei di un pianeta reso invivibile in superficie. Io lo guardo, guardo il murale, e miagolo in cenno di assenso.

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Mentre Twitter mi avvisa che sta crollando ancora una volta il governo italiano, io sono un gatto in una città virtuale di ferraglia malinconica e, se potessi, non mi muoverei mai più da qui.

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Una passeggiata sui tetti dei bassi fondi. Immagine: Steam

Stray è un videogioco di avventura sviluppato da BlueTwelve Studio (“un piccolo team nel sud della Francia composto per lo più da gatti e da un paio di esseri umani,” si legge sul sito), uscito il 19 luglio 2022 e pubblicato da Annapurna Interactive. Nel gioco vesto i panni di un gattino rosso che, dopo un salto sfortunato su un tubo fatiscente nel paradiso eco-brutalista in cui vive, finisce in una città sotterranea (dove nessuno sa che la superficie terrestre è stata riconquistata dalla natura) e deve trovare il modo di risolvere il mistero che la immerge per tornare a casa.

Le uniche figure che incontro sono robot intelligenti che, oltre a sentire la mancanza dei loro creatori, si sono evoluti per emularli, mangiando e bevendo “anche se non ne abbiamo bisogno,” vivendo e lavorando in vicoli dalla riconoscibile estetica cyberpunk fatiscente, separati gli uni dagli altri in città verticali non comunicanti. Tutto è controllato da una mega-corp che rovescia immondizia dalle zone alte a quelle basse, mentre un batterio creato dagli umani per smaltire i rifiuti che si è evoluto per divorare proprio qualsiasi cosa—anche il metallo—infesta i confini che separano i vari strati urbani (e sociali), rendendo impossibile per i robot attraversarli. Ma, in questa distopia già vista, io sono un gatto e posso tutto.

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Uno dei momenti iniziali del gioco, dove le uniche azioni possibili sono azioni da gatto. Immagine: Steam

Stray non ha niente di particolarmente innovativo da un punto di vista di gameplay: è un classico gioco di avventura con indovinelli logici da risolvere, nemici da uccidere, oggetti da recuperare e maledettissimi fusibili rotti da sostituire; ma l’animazione esemplare, la cura nel rendere esplorabili le zone di gioco quanto lo sarebbero davvero per un animale, e la combinazione di due degli elementi fondanti della cultura di internetgattini e robottini—lo hanno portato rapidamente a un successo virale. Sui social si sprecano i video di gatti veri che guardano uno schermo su cui gira Stray e cercano di toccare il gatto virtuale (o cani che cercano di abbaiargli contro), e di gatti veri inquadrati per strada a caso, con un tag al videogioco nel post.

Sono vittima consapevole anche io di questa combinazione letale, che fa eco a quella tendenza odierna—di cui Baby Yoda è esempio principe—di inserire in un prodotto di intrattenimento elementi irresistibilmente teneri. L’unica cosa che mi fa commuovere più di un gattino è la notizia di una sonda spaziale dismessa, dunque—nonostante normalmente giochi solo a titoli tutt’altro che pop—ho atteso Stray con trepidazione dal suo primo annuncio e mi sono goduta le otto ore di svago che mi ha offerto, piangendo sul suo finale prevedibile e romantico, come se questo gioco potesse guarire ogni mio dolore.

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All’ennesimo robot che mi dice quanto gli manchino gli esseri umani, però, ho provato una fitta di senso di inadeguatezza o—forse—di vera e propria vergogna. La rappresentazione idilliaca di una specie che ha plausibilmente reso invivibile il pianeta del gioco e sta sicuramente rendendo invivibile quello reale è a dir poco immeritata: più gioco, più mi chiedo cosa ci sia da compiangere—eppure è bellissimo sentirsi compianta in quanto rappresentante della razza umana.

Inoltre, mi sento in colpa per quanto vorrei davvero passare il mio tempo a saltare tra il motore di un condizionatore e un balcone sgangherato, farmi le unghie su tutti i tappeti, far cadere oggetti con la zampa da altezze variabili e strusciarmi sulle gambe di sconosciuti per ottenere un puntuale complimento—anziché a morire di caldo in una città troppo costosa ad aspettare l’onda d’urto di un imminente tracollo globale.

Mentre gioco a Stray, ragiono sull’effetto palliativo che ha sulla mia mente e penso alla poesia pubblicata da Richard Brautigan nel 1967, intitolata “All Watched Over by Machines of Loving Grace,” che parla di un’ecologia cibernetica dove gli esseri umani sono liberi dal lavoro e ricongiunti nella natura ai loro “fratelli e sorelle mammiferi, vegliati da macchine con grazia amorevole.” La poesia tanto brama una nuova armonia, tanto ricorda a chi legge, con una sottile ironia, lo stato di sorveglianza in cui oggi viviamo e che resta annidato anche nel futuro lontano di Stray—tra telecamere da smontare e poliziotti con cui è meglio non parlare.

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Gli zurk, batteri evoluti per divorare tutto e renderti la vita complicata. Immagine: Steam

Ci sono un paio di momenti durante il gioco in cui perdo l’aiuto del mio compagno di viaggio robotico, che per gran parte del tempo traduce ogni scritta e parola altrui, svelandomi la memoria frammentata di questo mondo perduto—fungendo, insomma, da quel tipo di elemento antropomorfo che rende Stray un gioco semplice da navigare. Quei momenti, dove posso solo fare davvero cose da gatto e il canale di comunicazione esplicita è chiuso, sono forse la parte veramente innovativa del gioco.

Forse, mentre tutto brucia, non vorrei solo essere un gatto in un mondo di robot gentili, ma essere un gatto in un mondo di robot gentili che non sa niente della storia umana e non ha alcuno strumento per farsela raccontare da chi la ricorda.