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Attualità

'Blaxploitalian': la storia ignorata degli attori neri nel cinema italiano

"A mio avviso non è cambiato quasi nulla. C'è ancora una certa approssimazione nell'esprimere con il corpo nero il disagio, il rifugiato, l'immigrato, il povero, la vittima."
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Qualche settimana fa Dado—un comico abbastanza seguito su Internet—ha caricato sul proprio canale YouTube una parodia di Occidentali's Karma. Sebbene l'intento del video fosse quello di prendere in giro tutti gli stereotipi sui migranti, il risultato finale non è particolarmente brillante: oltre alla qualità e al tono da Bagaglino, Dado per tutti i tre minuti della "canzone" si mostra con una blackface e dei guanti bianchi.

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La scivolosità di una simile operazione—e di quello che comporta a livello simbolico—non è sfuggita alla stampa straniera. Partendo dal video di Dado, un articolo di Forbes scritto dal giornalista Declan Eytan (che vive a Milano) si concentra infatti su problema molto più ampio: quello della rappresentazione dei neri, e delle minoranze in generale, nei media e nella cultura italiana.

"Le persone che dominano l'industria dell'intrattenimento—dalla musica alla tv, passando per i film e il teatro—sono tutte bianche," scrive Eytan. "Chi fa parte delle minoranze etniche è spesso ritratto come un qualcuno di ignorante, indigente, violento; e queste immagini sono terreno fertile per la propaganda, dal momento che i media locali non offrono nessun contro-esempio positivo."

In più, continua il giornalista di Forbes, lo stesso atto di mettere in discussione questi elementi provoca una reazione difensiva, ed è "in qualche modo interpretato come un atto d'accusa nei confronti di tutti gli italiani bianchi." Il risultato è che, alla fine, non se parla; e come spesso accade in Italia, se non si parla di una cosa allora quella cosa non esiste.

Attori, registi e artisti italiani di origine straniera lo sanno perfettamente, ed è per questo che nell'ottobre del 2016 hanno lanciato l'iniziativa "United artists for Italy" in risposta al famigerato volantino del Fertilily Day. "Alcuni gruppi della società sono spesso infilati in una scatola," si legge nel post di lancio su Facebook, "e stare in una scatola, credeteci, non è un bel posto dove stare."

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Sempre nel 2016, inoltre, è uscito Blaxploitalian – 100 anni di afrostorie nel cinema italiano. Diretto da Fred Kuwornu—regista e attivista italo-ghanese, nato e cresciuto a Bologna e da qualche anno residente negli Stati Uniti—il documentario ricostruisce appunto la storia "nascosta" degli attori di origine africana nel cinema italiano, a partire da Salambò (un film muto del 1915) sino ad arrivare ai giorni nostri, passando per il neorealismo e il cinema degli anni Settanta.

L'intento di Blaxpoitalian, che ha tratto l'ispirazione di base sia dal libro L'Africa in Italia. Per una controstoria postcoloniale del cinema italiano che dalle esperienze personali di Kuwornu, è quello di "porre l'attenzione su una presenza mai storicamente rilevante e vittima di 'tipizzazione' […] e superare gli schemi per cui molti gruppi etnici e sociali sono relegati ai ruoli di clandestino, rifugiato, spacciatore, prostituta, ecc."

Il documentario anche è parte integrante della campagna #DiversityInMediaMatters, che è volta a "promuovere il pluralismo della rappresentazione nell'industria cinematografica e televisiva globale." Per discutere più a fondo di questi temi e del documentario, ho deciso di fare una chiacchierata con Kuwornu.

VICE: Ciao Fred. Mi puoi spiegare com'è nata l'idea di fare Blaxploitalian?
Fred Kuwornu: L'idea nasce da un percorso di studio della società italiana, ma anche di esperienza personale. Io ho avuto una piccola esperienza di attore, durata un anno e mezzo, in cui mi venivano sempre chiesti i ruoli di immigrato, di parlare con l'accento africano, eccetera.

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Nel 2012 poi ho realizzato un documentario [18 ius soli] sul tema della cittadinanza e dell'immigrazione, e mi sono reso conto che ormai la società italiana è cambiata. Ma pur avendo una presenza multietnica e di tantissimi gruppi sociali, questa presenza non è mai narrata decentemente dai media, dai film, dalle fiction. Spesso ancora non vediamo persone nere in ruoli "normali." E quindi ho voluto fare questo viaggio dell'afrodiscendenza all'interno della rappresentazione del cinema italiano.

Il documentario, appunto, parte dal 1915 e dai film di propaganda del regime fascista come Knock Out (Harlem) di Carmine Gallone, dove gli "attori" neri sono in realtà dei prigionieri di guerra. Com'è invece la situazione nel dopoguerra e negli anni Cinquanta?
In molti film del neorealismo ci sono attori afroamericani—ad esempio in Senza pietà, Paisà, o Tombolo. Gli attori americani che compaiono spesso sono ex soldati della seconda guerra mondiale, il più famoso dei quali è John Kitzmiller, che ha lavorato anche con Fellini.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono già un po' meno. Diciamo che iniziano a essere rappresentati in una maniera un po' più folcloristica, e quindi ci sono film dove magari sono vestiti da selvaggi che ballano in mezzo a delle feste.

Quanto ha influito il passato coloniale dell'Italia sull'immagine del nero nel cinema italiano?
Tantissimo. Basti vedere tutta la produzione sia di film ma anche di pubblicità dove c'erano queste facce nere, a volte trattate con un tono infantile; oppure la figura della donna nera, molto eroticizzata. La particolarità è che questo immaginario, che c'era nel fascismo e nell'età coloniale, ritorna all'improvviso negli anni Sessanta e Settanta in Italia.

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A proposito di anni Settanta: il titolo del documentario si rifà alla blaxploitation, genere nato negli Stati Uniti che aveva gli afroamericani come pubblico di riferimento. Ci sono stati dei riflessi anche in Italia?
Penso che influsso ci sia stato sul poliziottesco e su altri filoni che andavano all'epoca. Siccome alcuni film della blaxpoitation erano comunque molto famosi a livello internazionale, magari hanno un po' contribuito a questi generi—girati tra l'altro con un budget basso, un po' come i film della blaxploitation, ma da registi che poi sono diventati dei cult nella storia del cinema.

Per arrivare ai giorni nostri, dagli anni Novanta a oggi è cambiato qualcosa nell'approccio della cinematografia italiana alla rappresentazione dei neri e/o delle minoranze?
A mio avviso non è cambiato quasi nulla. C'è ancora una certa approssimazione nell'esprimere con il corpo nero il disagio, il rifugiato, l'immigrato, il povero, la vittima. Sono rarissimi i casi in cui i neri hanno ruoli "attivi"—nel senso che, pur magari interpretando dei criminali, sono comunque loro i protagonisti del film, e dunque lo spettatore si può identificare. Generalmente hanno ancora questa figura di contorno, e sono ingabbiati in una rappresentazione molto sommaria di quella che poi è la realtà dei neri che vivono in Italia.

Nel documentario ti concentri anche sul film di Spike Lee, Miracolo a Sant'Anna, e di come sia il regista che quella pellicola abbiano rappresentato un'opportunità per gli attori italiani (e non solo gli attori) delle seconde generazioni. Mi puoi raccontare meglio questo dettaglio?
Ho lavorato in questo film sulla storia dei soldati afroamericani che combatterono in Toscana. Spike Lee all'epoca cercava 70 attori e comparse di neri italiani, e quindi è stata la prima volta in cui ci siamo trovati in tantissimi a lavorare su un set dove avevamo un ruolo attivo, e non eravamo relegati al ruolo di "vu comprà" o di criminali.

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È stato molto importante perché, per la prima volta, su un set italiano c'è stata una presenza così rilevante di persone nere. Anche la crew (italiana) che lavorava con Spike Lee è stata molto sorpresa.

Un altro aspetto critico di cui parlano i vari attori che hai intervistato è legato al casting. Cosa non funziona qui, a vostro avviso?
Il casting è un problema universale, non solo italiano. Si è sempre pensato troppo per stereotipi, e in Italia anche prima dei flussi migratori: le persone del nord ad esempio erano utilizzate per un determinato tipo di ruolo; mentre se eri del sud facevi il mariuolo, quello simpatico, e così via. Non si è mai visto un attore con accento emiliano, per dire, fare il gangster. E questo perché gli emiliani magari si usano per fare le parti del bonaccione o del playboy.

Purtroppo, questa pigrizia mentale nel fare casting è tutt'ora molto presente. Ed è questo che dovrebbe essere un po' abbattuto osando di più, rischiando, e dando più opportunità a talenti che magari fisicamente non rientrano nello stereotipo. Per quale motivo, ad esempio, uno studente di medicina non può essere interpretato da un ragazzo nero?

Fred Kuwornu, a sinistra, mentre gira Blaxploitalian. Foto via Facebook

E per quanto riguarda la televisione, invece?
La televisione riproduce le stesse dinamiche del cinema, ma forse è leggermente cambiata—nel senso che adesso qualche particina normale viene comunque affidata ad attori neri, anche se rimane comunque un qualcosa di minoritario rispetto ai dati statistici del paese.

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Secondo me, qualcosa si muove perché in una parte della televisione ci sono persone molto più giovani rispetto a quelle che lavorano nel cinema. Quello che vediamo nelle sale, per capirci, è ancora in mano a persone di una certa età e di un certo mondo.

In generale, mi sembra che la tv come industria si stia ringiovanendo. La stessa cosa avviene anche negli Stati Uniti, dove c'è una grossa differenza tra le produzioni di Hollywood e quelle di Netflix, in termini di diversità.

Se parliamo di diversità e immaginario, quanto possono far evolvere le cose Internet, i social media e le nuove tecnologie?
Sicuramente i social media stanno ridefinendo i concetti di cui stiamo parlando. I giovani che li usano e ne sono protagonisti—tra cui ci sono afrodiscendenti o di altra origine, nonché persone cresciute con compagni di scuola e amici di diverse etnie o religioni—hanno in mente un altro modo di produrre contenuti culturali.

Ciò su cui noi stiamo riflettendo è quello che passa nel mainstream, nella cultura delle televisione e in quella che è ancora di massa, e che ha ancora un grosso potere di formare a livello educativo i cittadini e le persone, ma anche a costruire identità.

Non scordiamoci che i media sono anche i mezzi con cui ci costruiamo la rappresentazione del mondo, la nostra identità, i modelli a cui vogliamo aspirare. E se io non mi vedo rappresentato, sicuramente non avrò le stesse potenzialità per diventare quello che vorrei essere—e questo è un grosso limite.

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