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Tecnologia

Gli astrofisici precari stanno occupando le loro sedi in tutta Italia

"Di fatto trattiamo ciascun progetto come se fosse una mini azienda privata in un ente pubblico."
Precari dell'Osservatorio di Catania. Immagine: Per gentile concessione dell'Assemblea Permanente INAF.

L’INAF, Istituto Nazionale di Astrofisica, è uno dei fiori all’occhiello della ricerca italiana. Secondo Nature è secondo al mondo per l’importanza delle sue collaborazioni internazionali. La NASA è al sesto posto. Ma il 42% dei ricercatori che ci lavorano è precario, alcuni in queste condizioni da più di 10 anni. Scienziati di altissimo livello che, di fronte alla finora tradita promessa del decreto Madia che avrebbe dovuto stabilizzare la loro posizione, hanno risposto inizialmente con una protesta e ora con occupazioni nelle sedi INAF di tutta Italia.

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Abbiamo contattato telefonicamente con Alessio Traficante, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF di Roma e membro della Rete Nazionale Precari INAF per capire meglio la situazione e gli obiettivi dei ricercatori.

"I 10 milioni di euro stanziati bastano per solo 200 precari su 9000, un numero ridicolo, e non è chiaro come sarà gestita la ripartizione tra i vari enti di ricerca pubblica."

Motherboard: La mobilitazione ha raggiunto diverse sedi INAF in Italia, dall’osservatorio di Catania all’Agenzia Spaziale Italiana, ma come è nata questa protesta?
Alessio Traficante: La protesta è nata proprio qui a Roma nell’IAPS. Credo principalmente per una questione di numeri: siamo l’istituto più grande dentro l’INAF, che raccoglie una settantina di precari sugli oltre 400 dell’ente. Questo ha reso più facile per noi la mobilitazione: abbiamo costituito un assemblea a marzo per discutere del decreto Madia, e dà lì la cosa si è sviluppata pian piano, fino a una assemblea nazionale la settimana scorsa e da lì, a pioggia, l’occupazione di stanze in diverse sedi e la creazione di assemblee permanenti, in maniera simile a quanto già successo con il CNR.

La legge di bilancio stanzia 10 milioni di euro nel 2018 per la stabilizzazione dei precari, a cui poi individualmente i vari enti di ricerca individuali dovrebbero aggiungere altri 10 milioni tramite finanziamenti esterni. Troppo poco?
I 10 milioni di euro stanziati bastano per solo 200 precari su 9000, un numero ridicolo, e non è chiaro come sarà gestita la ripartizione tra i vari enti di ricerca pubblica. Solo tra le fila dell’INAF si contano circa 450 ricercatori con contratti atipici senza alcuna tutela né prospettiva, senza la possibilità di accedere alla maternità, ai permessi per malattia, o anche di aprire un mutuo.

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Va aggiunto che la maggior parte dei precari dipende da fondi straordinari, che a livello pratico fa un’enorme differenza: significa che l’INAF non spende quasi un euro per noi, che dipendiamo da altri enti esterni come l’ASI, o da bandi europei e grant ERC. Questo ha come conseguenza gravissima il fatto che quanto un progetto si conclude, anche con risultati ottimi, se chi ci sta pagando non accede a nuovi fondi esterni, indipendentemente dalla qualità del nostro lavoro, siamo completamente abbandonati.

Se i progetti esterni non vengono più finanziati le posizioni spariscono. Una spada di Damocle sui ricercatori.
A me piacerebbe che anche a livello europeo si riflettesse su questa situazione se possibile: di fatto trattiamo ciascun progetto come se fosse una mini azienda privata in un ente pubblico. Se un progetto per 3-5 anni funziona, produce ottimi risultati, è assurdo che i membri di quella linea di ricerca vengano abbandonati completamente dall’ente di riferimento.

Il piano della buona scuola ha stabilizzato negli ultimi due anni più di 86 mila posti di lavoro precari, dieci volte più del numero degli 8800 precari degli enti di ricerca pubblico, dal CNR all’INAF. Eppure, a parole, la ricerca e l’innovazione sono una delle priorità del governo. Perché questa differenza?
Io credo che manchi la volontà politica perché manca la chiara visione dell’interesse e del benessere che la ricerca porta in una nazione. Credo che i nostri politici pensino all’investimento in ricerca come una cosa che forse in un futuro imprecisato può portare ritorno economico e benessere.

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Ma non è così: basti pensare alla commessa per la costruzione di una parte importante del telescopio E-ELT a Paranal, da 400 milioni di euro. L’INAF ha un fondo ordinario di 70 milioni di euro l’anno, per cui si parla di generare e mettere in circolo nell’economia reale l’equivalente cinque o sei anni di investimento nell’ente pubblico. Ed è solo una delle tante commesse con cui si reinveste nel privato.

Per non parlare dell’investimento economico italiano nella formazione dei ricercatori.
Quando sono andato a lavorare a Manchester mi è stato chiaramente detto: siamo ben contenti del vostro sistema in Italia, perché, a costo zero ci troviamo personale formato ad altissimi livelli. Lo stato investe centinaia di migliaia di euro nella formazione di personale estremamente qualificato per poi nel momento in cui possiamo generare effettivamente un ritorno economico essere trattati come precari che non hanno alcun diritto o peggio ancora forzati ad andare a lavorare all’estero.

L’INAF si trovava in una situazione simile 10 anni fa, e anche allora ci furono inizialmente grandi proteste, ma poi tutto si risolse in una bolla di sapone. Perché questa volta è diverso?
Il rischio c’è, è oggettivo, ma qui noi stiamo lottando per il nostro futuro e quello dell’INAF stesso. Un errore che fu fatto nel 2007, non tanto dai precari ma da chi sponsorizzò la stabilizzazione, è che fu vista come una soluzione una tantum. Una soluzione dell’emergenza immediata, alla quale sono poi seguiti tagli lineari, blocchi del turn-over, e tutta un’altra serie di pratiche che dopo 10 anni ci hanno riportato allo stesso punto di partenza.

Questa volta, dobbiamo agire su due strade: se da un lato è assolutamente necessario risolvere la crisi di oggi, visto che abbiamo precari di 40-45 anni che aspettano da 15 anni un contratto fisso, vogliamo anche una programmazione sana e riconosciuta dall’inizio, in modo che chiunque alla fine di un dottorato decide di iniziare un percorso di ricerca sappia quali e quante possibilità potrà avere nei 10 anni successivi di avere un posto di lavoro. Ma prima bisogna risolvere l’emergenza: non possiamo pensare di mettere da domani subito in concorrenza un precario con 15 anni di esperienza alle spalle con uno studente appena dottorato, è ingiusto per entrambi.

Però l’occupazione intanto continua.
Non ci fermeremo a valle della legge di bilancio, in cui speriamo che il governo recepisca l’importanza della ricerca e ne tenga conto a livello di emendamenti. Andremo avanti perché questo è un problema che riguarda tutti quanti, anche chi pensa che la ricerca non serva a nulla: perché se suo figlio dovesse trovarsi a lavorare per un’azienda che esiste grazie all’indotto generato da un progetto di ricerca, potrà anche non sapere cosa sia un telescopio ottico, ma ne beneficerà comunque.

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