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Tecnologia

Perché 'Return of the Obra Dinn' è molto più di una storia di fantasmi

L'ultimo videogioco di Lucas Pope mette in crisi il concetto di tempo, di Storia e di FPS: è come giocare a uno sparatutto, dove tutto è già successo.
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Return of the Obra Dinn. Immagine via: Steam

Capita spesso che i videogiochi diano il meglio di sé quando mettono in crisi il concetto di tempo. Succedeva anni fa con Prince of Persia: le sabbie del tempo, è successo più recentemente con il capolavoro indie Braid e succede oggi con Return of the Obra Dinn, videogioco creato da Lucas Pope e uscito su Steam questo ottobre.

In Return of the Obra Dinn vestiamo i panni di una sorta di investigatore dell’incubo ottocentesco, incaricato di scoprire cosa sia successo ai membri dell’equipaggio della nave Obra Dinn, data per dispersa nel 1802 al largo del Capo di Buona Speranza e ricomparsa misteriosamente cinque anni più tardi, tra le acque londinesi e con zero superstiti.

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La trama del gioco e il suo stile grafico ad 1-bit monocromatico sfoderano un’atmosfera esoterica, che “normalizza” i metodi di indagine decisamente paranormali del giocatore — in grado di ripercorrere il passato della nave, rivivendo il momento della morte di ogni membro dell’equipaggio, grazie a uno speciale orologio da taschino, con cui analizziamo i cadaveri sparsi per la nave.

I videogiochi “non [strutturano il tempo] nello stesso modo dei testi narrativi propriamenti detti,” ha scritto Agata Meneghelli in un saggio del 2013, perché “per poter agire interattivamente nel mondo di gioco, il giocatore deve essere presente in esso e il mondo deve essere in lui presente. […] Quello che accade nel mondo di gioco non può che accadere ora.”

In Return of the Obra Dinn lo sdoppiamento del tempo — tra “tempo di gioco (event time) e il tempo del giocatore (play time),” come li definisce Meneghelli — è il fulcro del game design. Le nostre azioni sui dispositivi di input (mouse e tastiera), e quindi il nostro play time, rimescolano continuamente il tempo di gioco: è come se noi nella nostra linearità dovessimo riordinare un caos temporale passato. L’ event time è il “non ora” nel quale avvengono gli eventi all’interno del mondo di gioco, un tempo fatto di eventi più o meno importanti, quindi di un tempo in divenire del quale noi giocatori siamo responsabili.

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Da questo punto di vista Obra Dinn sbalordisce: la storia è già avvenuta, il nostro compito è — “semplicemente” — doverla dedurre. Dedurre la storia per completare il gioco, ovvero, fare costante refactoring di temporalizzazione. Possediamo un libro (“A Catalogue of Adventure & Tragedy”) che si scrive “da solo” durante le nostre indagini — che ci portano in un mondo marinaresco che rimanda alla letteratura di London e Lovecraft. Di ogni cadavere dobbiamo segnare nome e cognome (utilizzando il registro anagrafico dell’equipaggio) e modalità della morte. E ce ne sono davvero tante: dal banale avvelenamento, all’essere fatti a pezzi da una bestia leggendaria.

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La concezione di tempo è un tema caro a chi si occupa del rapporto tra hauntology e videogioco. Non è che bisogna attendere il finale a loop di Limbo o accorgersi degli spettri dei giocatori altri che infestano con le loro morti lo spazio di Dark Souls, per rendersi conto che il medium videoludico generalmente è abitato da fantasmi. Senza dover rimestare Derrida e il suo saggio Spettri di Marx, possiamo dire che in Return of the Obra Dinn il fantasma che mette in crisi la linea temporale dell’io-giocatore è proprio il gioco stesso.

Per dirla con le parole dello studioso di new media Richard Grusin, è una questione di premediazione, ovvero il tentativo di realizzare il futuro prima che questo emerga nella sua completezza nel presente. Nella creazione di Pope siamo schiavi dei fantasmi, tant’è che il nostro scopo è evocarli tramite la bussola temporale e storicizzare (correttamente) ognuno di loro. In un certo senso, questa meccanica ricorda Braid, gioco creato da Jonathan Blow, in cui le abilità di manipolazione del tempo generano avatar e allegorie parallele digitali. Ma in Return of the Obra Dinn la verità storica è una e indivisibile, e il rischio è di non saperla interpretare, lasciando irrisolti i fantasmi — vittime eterne della loro violenta morte.

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L’aspetto grafico minimale e monocromatico di Return of Obra Dinn gioca poi un ruolo a sua volta. Ironicamente, si potrebbe parlare di fantasmi anche qui, per la precisione di fantasmi di hardware. L’impostazione grafica basata sullo stile Macintosh dichiarata già nel menù di gioco non è solo un modo per conferire al titolo un tono onirico: è una scelta artistica che rimanda a una certa ondata vaporwave dell’ultimo decennio che, tra le varie, ha riesumato anche lo stile Macintosh SE (e se vi viene in mente Childish Gambino è tutto normale).

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Qualcuno potrebbe chiedersi se c’è qualcosa di Papers, Please (il titolo precedente di Pope) nell’ultima opera del designer e la risposta è “nì.” Anche in Papers, Please il giocatore è chiamato, in un certo senso, a compiere un’indagine, come ispettore del regime di Arstotzka. Un articolo di due anni fa esplorava il sistema morale del gioco, facendo notare come l’elemento della trama sia relativo, seppur si abbia l’impressione di essere immersi nella Storia con la S maiuscola. Sono le nostre scelte etiche a renderci “importanti” (o vivi?) in Papers, Please — qualcosa di più della famosa polvere sugli stivali della Storia.

In Papers, Please indaghiamo tramite scanner o interrogazioni, attualizzando un sistema di controllo in pieno stile foucaltiano, ai fini di evitare l’intromissione, nel nostro regime, di terroristi e ribelli. Le nostre scelte, però, sono influenzate anche e soprattutto dalla nostra esigenza di pagarci la vita fuori dal lavoro (e i soldi si fanno accettando di farsi corrompere e con altre attività poco gratificanti). Così. la morale del protagonista del gioco è in mano nostra, siamo noi che decidiamo cosa far scriptare e come influenzare il mondo codice: l’esperienza etica e morale ricalca quella pratica.

In Return of the Obra Dinn, invece, le cose non vanno così: la Storia è già avvenuta. In questo senso, la nostra unica indagine è scientifica e riguarda la morale degli altri. Da nave, la Obra Dinn diviene immagine del mondo degli uomini, vaso di Pandora delle loro relazioni e distruzioni: avidità, amore, rabbia, amicizia e soprattutto malattia, morte e violenza.

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Return of the Obra Dinn può essere visto anche come un ritorno alle origini da programmatore di Lucas Pope, nato (artisticamente parlando) come modder di Quake, uno dei più noti first-person shooter. Con il suo ultimo gioco, Pope sembra in qualche modo voler rimodulare l’FPS, scardinando il suo elemento centrale, la pistola. Lo sparatutto è uno dei generi eccellenti del videogioco, proprio come il film d’azione è uno dei generi storici (e più popolari in senso stretto) del cinema. Sul tema, in From GunPlay to GunPorn: A techno visual history of the first-person shooter , Matteo Bittanti cita il critico cinematografico Jason Jacobs, secondo cui, “cinema e armi erano nate per stare insieme.” Il cinema d’azione non perderà mai il trono di genere per le masse, così come non lo perderà lo sparatutto per i videogiochi.

Pope però ci mette del suo: muoversi sulla Obra Dinn dopo un po’ diviene una cosa muscolare, immediata e mnemonica, si comporta come un pro su Quake: il cervello speditamente riconosce e impara ogni angolo dell’area percorribile. Inconsciamente, Pope ci sta facendo giocare a uno sparatutto, in cui, però, è tutto già successo. Ci affida morti già avvenute e ci chiede di intervenire dilatando un ritmo temporale che negli FPS è in genere intoccabile per il giocatore. L’unica cosa che possiamo fare, in una dimensione di tempo che non potrebbe esistere, è sparare con un’arma che non è un’arma, in un modo mai visto prima. Sparare per rivoluzionare il medium, come quel cowboy del film di Porter del 1903, che, puntando la pistola in faccia allo spettatore, ha rivoluzionato il cinema.